Camilla Pignatti Morano: Mi capita spesso di riflettere sulla mia italianità e su come questa si manifesti nei miei pensieri e nelle mie azioni. A volte mi sento così lontana dall’essere italiana perché è l’Italia stessa con i suoi meccanismi arrugginiti, ma radicati, a sfuggirmi. Altre volte invece mi sento fiera delle mie radici perché è l’Italia del passato a venirmi incontro. Alle prese con progetti di arte pubblica di significativo impatto sociale, rifletto su come la storia dell’arte del passato, straordinaria e assolutamente presente nelle nostre città, sia a volte spunto positivo di riflessione, altre invece si trasformi in un grande ostacolo da superare. Rifletto sulla paura che nell’arte contemporanea la parola “bellezza” provoca tuttora o, ancora, sull’esigenza, una volta presente, ora quasi scomparsa, di portare a memoria fatti storici attraverso il linguaggio dell’arte come analisi della società contemporanea.
Stefano Arienti: La mia identità è quella di un contadino stanziale, un contadino che dalla campagna si è trasferito in città. Ho radicata dentro di me quell’ antica cultura italiana fatta di semplicità. Una cultura che, ho avuto modo di osservare negli anni, è andata via via scomparendo. Un tempo mi sorprendevo davanti a tali cambiamenti, oggi mi sembra assolutamente naturale che sia così, che da un mondo per lo più locale e circoscritto ci si è trovati improvvisamente in un mondo globalizzato, post-industriale. Reduce da un viaggio in Oriente, ho notato che in Giappone, lì dove la tradizione ha ancora una certa importanza, riescono ad assorbire con facilità input moderni dall’esterno, non si occidentalizzano, ma “giapponesizzano” l’Occidente. In Italia sta accadendo lo stesso. Mi viene naturale pensare che nel mio lavoro ci sia una piacevolezza estetica. Non è una forzatura. L’artista non può evitare di praticare una qualche estetica.
Francesco Arena: Non mi sono mai posto il problema dell’“essere italiano”. Mi viene naturale esserlo, probabilmente perché sono nato in Italia. Spesso nel mio lavoro ci sono tematiche e storie italiane. Queste storie fanno parte dell’orizzonte su cui si poggia il mio sguardo, entrano nella testa, diventano simboli, si sciolgono e confluiscono in pensieri che poi diventano opere attraverso cui guardare, non il panorama italiano, ma quello umano.
Stanislao Di Giugno: La bellezza nell’arte non mi fa paura. Ma la bellezza non mi basta. Grazie alla nostra storia e al nostro patrimonio artistico, noi italiani siamo cresciuti nel bello, ma ne siamo anche assuefatti. Forse per questo motivo usiamo l’arte come un territorio di ricerca senza confini. L’arte è un campo aperto dove confluiscono tante discipline. Oggi trovo “bello” ciò che mi fa pensare a cose a cui non avevo mai pensato prima o che mi fa vedere le realtà da un’altra prospettiva. È tutto così estremamente interconnesso che il particolare recente o passato del mio paese è un pretesto per indagare l’uomo e la realtà oggi. Se vivessi in Australia avrei altri input da cui partire ma forse arriverei allo stesso risultato. Se si va in profondità di qualsiasi cosa, si può trovare ogni cosa.
CPM: Nel vostro lavoro vi appropriate di oggetti, immagini codificate, dati scientifici, elementi musicali, fonti storiche e letterarie, e ricordate figure e personaggi che hanno segnato la storia del nostro paese tutto per creare nuovi discorsi. Che fascino esercitano questi fattori su di voi e come mai li riportate all’attualità?
FA: Condivido quello che dice Stefano a proposito della piacevolezza estetica nel lavoro. Anche io quando penso a un’opera cerco di racchiudere informazioni e suggestioni in una forma che abbia una sua “completezza” visiva, come se l’opera fosse un nocciolo che cattura e dà informazioni per poi interpretarle nuovamente. Per questo spesso creo sculture che sono contenitori dentro i quali ordinare, ribaltare, sfocare le fonti storiche, letterarie e scientifiche di cui parla Camilla. Queste fonti sono sempre filtrate dalla mia esperienza personale. Le opere sono quello che resta dell’impatto tra queste informazioni e me.
SA: Partendo da nessuna abilità specifica si impara a fare arte un po’ con tutto. Da buoni ingredienti di partenza ci si aspetta qualche buon risultato, è sempre più dura con il contrario. Mai lavorare secondo un programma, ma sempre seguendo le proprie passioni oppure gli stimoli momentanei e le sfide che si presentano. La contingenza ha svelato paesaggi inattesi, occasioni di godimento mai preannunciate, coinvolgendoci nel bene o nel male. L’incontro spesso è personale o il confronto duale. Una grande scuola è il confronto a distanza con altri artisti, e l’Italia da sola non basta. A volte si ha il vantaggio della vicinanza, li si conosce, sono amici. A volte sono lontani, nello spazio e nel tempo, ma le loro opere mi hanno fatto compagnia.
SDG: Fascino è il termine giusto. Sono affascinato dalla Storia. Oggi viviamo in un’epoca dove nessuno sembra vivere le vicende socio-politiche del nostro paese e del mondo con l’ardore di un tempo. Mi sembra quindi che ripercorrere il passato sia quasi un tentativo di riappropriarsene. Riaffermare qualcosa in cui si può ancora credere, in un momento in cui nessuno ha più voglia di credere in niente e dove il revisionismo storico è sempre in agguato.
CPM: Potreste descrivere tra le vostre opere quelle che più riflettono ciò che ci siamo detti e spiegarne il perché?
SA: Per cominciare Disponibilità della cosa, con Cesare Pietroiusti. Sono soldi ondulati così garantiamo il capitale investito, visti i tempi. Continuerei con Corte di Dei, un’opera creata dal presepio italiano. Corte di Dei cambia sempre, l’anno scorso si è contratta in Di Dei, un’opera in collaborazione con Furio Di Castri. 101 soft è la mia unica opera composta da video. Sono DVD di animali da proiettare addosso ai fobici, un vero gioco di società che ha qualcosa in comune con Oggi Sposi, un’opera che coinvolge storie italiane di gente comune e che continua a esistere con l’apporto di tanti amici. Mi diverte sempre con tutti quei nomi accoppiati.
FA: In Torre, del 2007, 328 metri quadri di parquet sono stati utilizzati per costruire una torretta impilando in orizzontale e in verticale 140 confezioni di parquet sballate e ricomposte utilizzando del nastro adesivo argentato. Questo materiale è tenuto insieme grazie a una struttura di metallo che lo ingabbia e lo sostiene. Una scala poi consente di salire in cima al blocco-torretta e guardare da una altezza diversa rispetto al suolo il paesaggio circostante. Questa torre porta con sé una storia: i 328 metri quadrati di parquet che compongono la torre si rifanno alla presunta superficie in cui gli operai di uno stabilimento siderurgico erano in stato di mobbing. Nel 1998 a Taranto, 79 dipendenti dello stabilimento Ilva rifiutavano la “novazione” del contratto. Questi dipendenti si sono ritrovati, senza motivo giustificato, nella palazzina Laf, un ambiente fatiscente e privo di alcun supporto lavorativo: non c’erano telefoni, scrivanie, e le sedie erano insufficienti. Qui i dipendenti erano costretti ad attendere inoccupati il termine del proprio turno lavorativo di otto ore, come da contratto. La vicenda è giunta anche nelle aule giudiziarie a seguito di un’indagine avviata su segnalazione dei lavoratori e dei sindacati. Ricordi di fatti storici, politici e sociali nell’arte.
SDG: Ho iniziato a comporre i miei cieli e le mie galassie circa un anno fa. Sono dei collage composti da cieli e fondi di pubblicità di diverse riviste, accartocciati fino a creare l’effetto di ammassi stellari (L’orizzonte degli eventi, 2008). Ho anche assemblato parti di oggetti di uso comune creando forme astratte che eludessero funzione e derivazione degli oggetti originari. Questi lavori, esteticamente ricercati, hanno per me una forte valenza politica. È possibile infatti usare oggetti e forme esistenti, recuperati dalla galassia delle merci e della pubblicità che ci circonda e crearsi il proprio mondo, crearsi un altro mondo (Se questa ultima alternativa è la giusta I, 2008).Questa mi sembra una forma di resistenza molto personale, e, come diceva Gilles Deleuze, fare arte oggi vuol dire resistere. Ho realizzato recentemente un poster: Gagarin, 2008. Questo poster è l’immagine dello spazio profondo fotografato dal telescopio Hubble con sopra scritto “I don’t see any god up here”, frase che Gagarin, il primo uomo nello spazio, sembra abbia pronunciato in piena Guerra Fredda contro gli USA e l’Occidente. Frase quanto mai attuale vista nell’ottica della recrudescenza di divisioni e schieramenti contrapposti, della continua ingerenza del Papa nella vita pubblica e privata nel nostro paese o più in generale delle “guerre di religione”.
CPM: Un aggettivo con cui descrivereste il vostro lavoro?
SA: Libero è l’aggettivo più adatto perché la libertà ha il suo giusto prezzo e non ho mai pensato fosse gratis; ma non ho pagato caro. Libero è anche chi si avvicina alle mie opere e ci può trovare quello che gli pare, senza attenersi ai percorsi che ho seguito io per fabbricarle.
FA: Stratificato.
SDG: Possibile.