Paola Noè: Prima di tutto: presentatevi reciprocamente. E riassumete il vostro lavoro in poche parole.
Loris Gréaud: Come artista, negli ultimi anni sto facendo del mio meglio per non essere più un artista. Sinceramente penso che essere un artista e produrre arte siano finte domande e altrettanto finte risposte. Lavoro su un mio personale paradosso dicendo sì e no nello stesso momento. Sto cercando di far scomparire quella tradizionale cifra romantica legata al fatto di essere un artista. Il mio tentativo è quello di essere demistificato al mondo, di essere quindi il più dinamico possibile nei confronti di ogni format e contesto.
Andrea Nacciarriti: Mi interessano i limiti e gli sprechi del luogo. Discutere il ruolo dell’arte in ambienti e contesti differenti.
PN: Siete convinti che le recensioni delle vostre mostre e i testi scritti su di voi siano in grado di parlare del vostro lavoro? Che senso hanno le parole usate per spiegare il vostro lavoro?
LG: In un certo senso, tutti i commenti e le recensioni sono parte del lavoro. L’opera si costituisce di elementi disparati: è contemporaneamente forma, senso, commento, spazio espositivo, contesto e critica. Tutto questo non è che un unico oggetto. Penso inoltre che il mio lavoro cessi di appartenermi nel momento stesso in cui esiste. Il lavoro è veramente legato all’idea duchampiana secondo la quale è lo spettatore che ha il compito di terminarlo.
AN: Trovo che siano importanti i punti di vista, tutto ciò che di credibile leggo ha a che fare con il mio lavoro. Mi infastidiscono i vecchi testi, che in alcuni casi vengono copiati per rileggere nuovi lavori; spesso danno una lettura incompleta, distorta e involuta della specificità dell’intervento recensito.
PN: Certe volte le parole sono importanti solo perché sono parole. Funzionano come rumors… se ne parla, e questo va bene…
LG: Sì, certamente. Le opere potrebbero prendere qualsiasi forma, con qualsiasi materiale, sia esso fatto di parole, chiacchiere, profumo, campi magnetici, forme invisibili… Il medium segue sempre l’idea, e un’opera d’arte non è mai quello che è.
AN: L’urgenza di parlare di arte è un dato di fatto. La reazione dialettica che si instaura tra opera e spettatore, tra artista e critico, funziona da cartina tornasole. Il rumors editoriale, mediatico, è un banco di prova indispensabile. Il riscontro-scontro è una componente dell’opera stessa. L’arte è un modificatore culturale della comunicazione. Non importa dove e quando se ne parli ma che se ne parli…
PN: Non vi siete mai incontrati prima, vero?
LG: Non penso, no?
AN: Purtroppo ancora no! Sarebbe interessante poter collaborare a un progetto in bianco e nero…
PN: Partiamo dal titolo dell’ultimo progetto di Loris, che suona molto poetico, sebbene, a mio parere, è anche molto triste, Celador (2007): “Celador is a kind of non-object, a ground zero-degree candy”.
LG: Celador è un brand che ho creato con due miei colleghi architetti, Marc Dölger e Damien Ziakovic. Si tratta di caramelle normalmente in commercio; sono normali caramelle, che però non hanno nessun sapore. È un oggetto concettuale, il gusto deve immaginarlo e crearlo il consumatore. Il gusto dell’illusione, o l’illusione del gusto. Tutto questo avviene utilizzando i network popolari e l’estetica del marketing di massa: http://www.a-taste-of-illusion.com. Celador è inoltre anche il trailer del mio progetto “Cellar Door”, presentato in occasione della mia personale attualmente in corso a Parigi al Palais de Tokyo e della mostra che si tiene in aprile all’ICA di Londra.
AN: Trovo geniale l’idea di nascondere il gusto, una sorta di privazione della percezione, dove non è possibile consumare l’opera ma l’esperienza di vita associata al prodotto. In altri termini, è il principio che fonda la commercializzazione postmoderna.
PN: I vostri lavori più effimeri sono l’odore di Marte per Gréaud (Spirit, 2005) e il countdown (44 00 00 00 00, 2007) dell’esposizione alla Galleria Francosoffiantino di Torino per Nacciarriti. Potete parlarci di questi lavori ?
LG: Spirit è una compilation di tutte le descrizioni che sono state fatte del possibile odore del pianeta Marte: dalle ricerche scientifiche di campionamento ai romanzi e alle intuizioni letterarie. Le ho raccolte tutte e le ho inviate a un laboratorio di profumi perché venissero sintetizzate. Dopodiché è stata prodotta una fragranza. Si tratta quindi dell’immagine di un odore, l’immagine collettiva dell’odore di Marte.
AN: Riguardo a 44 00 00 00 00, l’opera è nascosta dall’attesa di poterne usufruire. È il tempo che trascorre dall’inizio alla fine della mostra — una “cella in sonno” — un vuoto definito dallo scorrere di giorni, ore, minuti, secondi e centesimi di secondo, che il dispositivo elettronico scandisce e che “promette” una rivelazione solo dopo la sua asportazione, reintroducendo le tempistiche normali delle gallerie. Si tratta di una bolla temporale assopita in una stasi dove è possibile analizzare i meccanismi attraverso cui siamo abituati a usufruire dell’arte.
PN: Cosa significa per voi l’immaterialità dell’arte?
AN: L’arte ha sostituito la rappresentazione del reale con l’oggetto nella sua nuda fisicità, eliminando paradossalmente la materia dell’oggetto artistico, per descrivere, al contrario, il processo artistico. L’acquisita instabilità figurale dell’oggetto nell’arte è un’instabilità gnoseologica, che descrive lo svolgimento della progettualità dell’opera, dall’ipotetica nascita alla possibilità della sua estinzione, divenendo così una questione anche temporale partecipe e imprescindibile dal fenomeno evolutivo della creazione. Si lavora principalmente lasciandosi dietro tracce di vario genere, che ricostruiscono processualità leggibili oltre l’aspetto materico…
LG: Preferisco parlare in termini di “fuori campo” piuttosto che di immaterialità. Le opere sono macchine che producono desideri, e il desiderio è sempre produttivo. Ciò che è fuori campo e non è visibile genera il racconto, e per me tutto il fuori campo del lavoro produce il desiderio, e il desiderio è produttivo per chi guarda…
PN: Credete nell’immortalità del capolavoro?
LG: Io credo nella sua mortalità.
AN: Invece a me fa piacere pensare che in qualche modo l’eternità esista…
PN: Lavorare con la luce. Entrambi avete lavorato con l’impianto di illuminazione di un luogo espositivo. Cosa significa oggi illuminare o oscurare l’opera in un museo o in una galleria d’arte?
AN: Ho utilizzato la luce in varie occasioni, e in alcuni casi ho realizzato dei veri e propri impianti di illuminazione, come per Passerella (2005) — in uno stabile utilizzato prevalentemente dalle agenzie di moda — dove le luci illuminavano lo spettatore invece che le modelle. Per 44 00 00 00 00 [sleepingtime] ho semplicemente trasferito l’impianto di illuminazione esistente a circa 50 cm da terra, sospeso dagli stessi cavi d’acciaio che lo fissavano al soffitto. L’operazione determina una sottrazione, che lascia una voragine nel sistema stesso di esposizione, in cui l’opera si realizza con la sua stessa illuminazione, “cortocircuitandone” il meccanismo.
LG: Quando si gioca e si interpella un sistema esistente, si sta giocando con l’istituzione. Tutti i lavori sono politici, persino quelli inconsci.
PN: Loris, ci potresti spiegare il tuo lavoro con l’impianto elettrico che hai realizzato al Plateau nel 2005?
LG: Sì, certo. Ho manipolato l’illuminazione al neon di un’istituzione museale facendola traballare come se non funzionasse bene e non riuscisse a stare accesa, come se si trovasse su una specie di limite perpetuo. In realtà si trattava di un impulso elettrico a codice morse. La parola (del codice morse) che veniva continuamente ripetuta in loop era “Liminal”, termine latino che traduce appunto la sensazione di essere sul limite…
PN: I vostri lavori sono molto poco museali. Cosa significa museo oggi?
LG: Oggi il museo è il mondo. Il tempo è il museo. Lo spazio e il dislocamento tra un lavoro e l’altro è il museo. Con questo intendo dire che il museo non è più lo spazio per l’opera d’arte che potrebbe essere essa stessa “spazio”. Quindi veramente il museo è il mondo… un pesce in un lago, un crollo in borsa, ordinare un McMuffin da McDonalds, trovare una logica nell’invio dello spam, giocare al casinò, raggiungere l’impossibilità dell’impossibilità.
AN: È un termine circostanziale per definire l’insieme di interventi in uno spazio fisico e geografico approssimativamente circoscritto in cui si relazionano strutture, istituzioni, artisti, opere e pubblico. In quest’ordine di idee, la definizione di museo non è traducibile col concetto decadente di contenitore d’arte. Si può pensare quindi che se la nuova concezione di museo distribuisce democraticamente gli spazi, ampliando le prospettive d’intervento, con conseguente decentralizzazione delle egemonie culturali, le megastrutture architettoniche, invece, definiscono una nuova mappa dei poteri economici mondiali, spettacolarizzando l’esperienza artistica.
PN: Siete abituati a lavorare con altre persone. Quindi non l’artista come unico creatore dell’opera ma il valore della collaborazione artistica. Che tipo di scelta è? Di responsabilità o altro?
AN: La collaborazione è un’evoluzione naturale della nuova figura dell’artista, la firma perde, fortunatamente, il suo valore soggettivo di stampo duchampiano a favore di un rinnovato concetto di operare. Da anni la musica è una formidabile rete di produzioni trasversali tra differenti generi, la featuring è il simbolo di una società che intrattiene continuativamente rapporti di ibridazione delle convenzioni. Non si tratta di una scelta di responsabilità, direi piuttosto di comprendere e accettare le micro-specificità, che concorrono a vivacizzare lo sviluppo orizzontale dei rapporti culturali.
LG: Mi piace il fatto che in ogni mio progetto l’idea di partenza non coincide mai con le sue successive risoluzioni, ma viene sempre filtrata da discussioni e veri e propri processi di negoziazione con altri soggetti. È un modo teatrale di operare e realizzare opere e progetti. Questa pratica mi dà l’opportunità di essere ubiquo, onnipresente. In questo modo posso essere l’emittente e il ricevente di una stazione radio.
PN: Davanti a molti dei vostri lavori si prova una sensazione di spiazzamento. Nel senso che sembra di essere davanti a resti di un processo espositivo. Lo spettatore sembra trovarsi davanti a una sorta di rovine di una esposizione passata. Penso al pavimento di Nacciarriti appena presentato da Francosoffiantino…
LG: Come ha detto Hans Ulrich Obrist, oggi le immagini non sono più belle, ma lo sono le loro catene di produzione. Intendo dire il processo stesso di un’opera e i vari processi che intercorrono tra un’opera e l’altra. Alla fine il procedimento ha un senso, ed è più apprezzabile delle immagini in se stesse. In fondo si potrebbe parlare di immagini di un procedimento…
AN: 44 00 00 00 00 [parquet] (2007) è un lavoro di riesumazione. Lo strato che copriva il legno assiale che pavimentava il mobilificio preesistente alla galleria è stato sciolto con del solvente. Il parquet è poi stato levigato e lucidato e alle estremità è stata lasciata la vernice arricciata, residuo partecipante della sua presenza nascosta per anni. Residuo e vuoto significante sono le componenti del lavoro. Si assiste ai resti del processo, alla stratificazione della forma e al suo decadimento. Lo spazio è quindi vivo, metafisicamente sospeso, e i resti appaiono quali residui di un processo espositivo immobilizzato, che faticosamente trattiene lo scorrere del tempo…
PN: Quanto è importante la dimensione “tempo” dell’arte?
LG: Il tempo è un medium come la creta. Il tempo è creta.
AN: Mi fa pensare che oltre l’immagine, oltre la proiezione del tempo, quale dimensione concettuale unificante di ogni cosa, ci siano in realtà delle tempistiche molto precise che scandiscono eventi, percorsi, spostamenti… e che, in fondo, in agosto si va in ferie, come succede alla maggior parte delle persone; ci sono le vacanze di Natale, insomma il tempo che ha a disposizione l’arte è il resto dell’anno, a parte qualche altra festività. Si è sempre in ritardo, e le scadenze per fortuna non ci fanno rimandare tutta una serie di impegni.