Per quanto possa sembrare incredibile, a più di cent’anni dalla rivoluzione delle avanguardie c’è ancora chi pensa che il percorso attuale dell’arte costituisca una deriva senza via di uscita, e che la “vera” arte sia sempre e soltanto quella fondata sull’accuratezza della rappresentazione — e che naturalmente l’attuale “anomalia” sia destinata a finire e che un bel giorno il tempo tornerà nei suoi cardini e una nuova età dell’oro della raffigurazione avrà inizio. Un presupposto implicito ma necessario di una simile posizione è quello di ritenere che l’arte debba sempre e comunque produrre oggetti: tutto ciò che ha a che fare con le pratiche non oggettuali, di conseguenza, diventa inaccettabile in quanto non soltanto non produce una mimesi suggestiva, ma addirittura nega all’arte la necessità di tradursi in una forma tangibile. Un errore di prospettiva tanto più macroscopico quanto più ci si rende conto del fatto che in effetti l’arte ha un impatto nella società contemporanea soprattutto attraverso i suoi dispositivi di natura intangibile, dei quali gli oggetti fisici, quando esistono, rappresentano delle tracce materiali, degli exempla.
Quando pensiamo ad artisti la cui produzione oggettuale ha marcato un’epoca, come per esempio nel caso di Andy Warhol, che secondo il ranking qualitativo di artfacts.net è ancora il più importante artista contemporaneo, è facile essere indotti a pensare che il senso ultimo del loro lavoro vada cercato nelle fonti del potere evocativo delle immagini — nel caso di Warhol, nella serialità celeberrima delle Marilyn, dei Che Guevara o dei barattoli di zuppa Campbell (o in quella più nascosta e sinistra delle sedie elettriche e degli incidenti stradali), e nella conseguente lettura del mondo che esse dischiudono (nel caso di Warhol, l’ipostatizzazione del consumo di massa, la celebrazione del trionfo dei media, la distruzione della retorica della “profondità” dell’arte, e così via). Ma in realtà, il motivo per cui ancora adesso un artista come Warhol rappresenta uno dei punti di riferimento imprescindibili della scena contemporanea non ha a che fare con questa particolare lettura socio-culturale, che è stata ormai totalmente assimilata e non soltanto non sorprende più nessuno, ma è ormai divenuta luogo comune, ma piuttosto con il fatto che alla base dell’arte di Warhol non vi è l’interpretazione di una realtà data, ma piuttosto la produzione di dispositivi che producono una realtà. Il motivo reale per cui Warhol ci dice tuttora così tanto è il fatto che noi viviamo all’interno di un mondo warholiano. I dispositivi warholiani di senso si sono riprodotti virilmente, materializzandosi progressivamente e installandosi nei livelli più profondi della nostra esperienza quotidiana. Warhol non è vissuto abbastanza per assistere alla nascita dei reality show o del social networking, ma non deve essere stata una gran perdita per lui: la filiazione dei suoi dispositivi è talmente evidente e diretta da non dover essere quasi commentata.Il lavoro di Warhol è quindi, in un certo senso, profondamente performativo: e la performance non consiste soltanto nelle sue mute quanto fuggevoli apparizioni nei party più cool della New York del suo tempo, o nell’attività della sua factory, o nelle sue dichiarazioni afasiche eppure di una forza quasi proverbiale, ma appunto nella realtà che queste hanno generato, non soltanto per esemplificazione, ma attraverso una sofisticata quanto complessa evoluzione che ha coinvolto e coinvolge tuttora una impressionante quantità di replicatori inconsapevoli (e il richiamo alla terminologia della biologia evoluzionistica è qui particolarmente necessario).
Molti dei percorsi più interessanti dell’arte contemporanea sono oggetto di fraintendimenti sostanziali proprio perché non si riesce a coglierne la reale portata generativa che trascende la produzione materiale. Un evidente esempio contemporaneo è quello di Damien Hirst, un artista spesso frettolosamente bollato come furbo, cinico, privo di profondità, e così via. Per esempio, in tanti parlano della sua ormai famigerata asta, che per una singolare geometria degli eventi si è tenuta proprio alla vigilia della più grande crisi finanziaria degli ultimi decenni, come di una furbissima operazione commerciale, senza comprendere che, ancora una volta, quella di Hirst è stata in realtà una straordinaria performance, nell’ambito della quale il vertiginoso fatturato realizzato va letto come un elemento formale e non sostanziale. Anche il lavoro di Hirst può essere letto, socio-culturalmente, come una celebrazione dell’istinto di morte connesso al feticismo del denaro e della celebrità, ma ancora una volta, al di là di questa lettura, il lavoro di Hirst produce dei dispositivi che danno forma a una realtà nuova, nella quale le pratiche artistiche penetrano con una profondità inaspettata nei meccanismi di produzione del valore economico, arrivando a chiudere un cerchio secolare: se un tempo gli artisti avevano bisogno di mecenati per poter lavorare, ora gli artisti vengono riconosciuti come tali in quanto capaci di produrre autonomamente i flussi economici necessari non soltanto alla produzione materiale del loro lavoro e alla loro sussistenza, ma alla accumulazione di un patrimonio finanziario che ne traduca la significatività; è in tal senso che vanno lette le dichiarazioni di Hirst circa il suo essere l’artista più ricco di tutti i tempi a parità di età anagrafica. Il fatto che uno dei testi di maggior successo apparsi in questi anni per raccontare la peculiare fenomenologia del mercato dell’arte contemporanea si intitoli Lo squalo da dodici milioni di dollari è ancora una volta un effetto virale dei dispositivi hirstiani, che dopo aver mostrato come la produzione di significato possa avvenire ed essere legittimata socialmente attraverso la parallela produzione di un valore economico, induce anche un pensiero che razionalizza la sua strategia, dandole un valore prescrittivo. In molti, ragionando sulla solita contrapposizione tra valore commerciale e valore culturale di un’opera, condannano Hirst proprio perché le sue vertiginose, eccessive quotazioni sarebbero un chiaro esempio della sua insipienza culturale, del suo essere una moda passeggera destinata a estinguersi, senza capire che il lavoro di Hirst ha significato proprio perché le sue opere costano così tanto, e che se invece quelle opere costassero poco sarebbe appunto il valore artistico del suo lavoro a risentirne.
Un ragionamento analogo può essere fatto sul lavoro di Maurizio Cattelan, come Hirst spesso frettolosamente liquidato come artista “pubblicitario”, produttore di opere a effetto, di “motti di spirito” e così via. Così come il lavoro di Hirst infrange la retorica dell’artista disinteressato al valore economico e immerso nella auto-contemplazione del suo genio, quello di Cattelan attacca invece la retorica parallela dell’artista disinteressato alla comunicazione, che lavora nell’ombra, e ancora una volta immerso in una auto-contemplazione narcisistica. Anche nel caso di Cattelan, la ricerca dei cortocircuiti comunicativi non è la conseguenza di una furbizia auto-promozionale, ma una dimensione totalmente necessaria del lavoro, il cui esito artistico, nella misura in cui non producesse questi cortocircuiti, sarebbe ancora una volta abbastanza compromesso.
Qualcuno potrebbe obiettare che queste dimensioni di ritorno economico e/o mediatico sono comunque strettamente legate all’attualità, alle circostanze contingenti, e quando queste si esauriranno altrettanto accadrà al valore artistico di queste pratiche. Ma è proprio qui che sta l’errore: se il senso del lavoro è quello di dare vita a dispositivi che si riproducono virilmente, è in questa riproduzione che andrà cercato in primo luogo il lascito culturale, a prescindere dalle vicende della produzione materiale. Se il dispositivo-Hirst permette la penetrazione in profondità dello stigma dell’arte nei processi di produzione del valore economico, o se il dispositivo-Cattelan dà all’arte una nuova capacità di riconfigurazione dei circuiti della comunicazione, il valore del loro percorso di senso resisterebbe anche qualora i lavori di Hirst cominciassero a valere molto meno o qualora i lavori di Cattelan finissero per bucare meno la cortina dei media.
Gli esempi potrebbero ancora continuare a lungo. La capacità di produzione di dispositivi di senso dell’arte contemporanea è in pieno sviluppo, e gli effetti cominciano a percepirsi a occhio nudo: non è il mercato che sta entrando in modo sempre più pervasivo nella sfera dell’arte, ma è piuttosto l’intero sistema economico che si sta artisticizzando. Parafrasando L’invasione degli ultracorpi, potremmo parlare qui di “invasione dell’ultrasenso”. Le conseguenze di questo ribaltamento di prospettiva saranno importanti e non tarderanno a manifestarsi.