Via del Campo è oggi una strada lastricata che incrocia i caruggi del centro storico di Genova, passaggio quasi obbligato per i turisti che vanno al Porto Antico. Ma negli anni Sessanta, quando De Andrè la canta in uno dei suoi brani più noti, la strada è luogo malfamato, di contrabbando e prostituzione; ma anche punto d’incontro di appassionati di musica e artisti, grazie alla presenza del mitico negozio di strumenti, spartiti e dischi di Gianni Tassio, epicentro della scuola genovese della canzone d’autore.
È proprio in via del Campo che Lisetta Carmi (Genova, 1924) si reca a una festa la notte di Capodanno del 1965, portata da un amico, in casa di alcuni travestiti che esercitano nei bassi là intorno. Scatta qualche fotografia: la carta da parati a fiori, l’albero di Natale, i bicchieri di cristallo, gli abiti eleganti, i balli molto discreti al suono di un giradischi, e solo qualche risata più chiassosa del necessario. Il suo è un ritratto pieno di rispetto delle aspirazioni piccolo borghesi di una comunità che nell’Italia degli anni Sessanta è guardata con disprezzo dai più e curiosità morbosa da molti. Inizia un rapporto basato sulla fiducia e l’empatia che durerà anni e che permetterà alla fotografa genovese di realizzare il suo corpus di lavoro più straordinario: la serie di immagini che saranno poi raccolte nel 1972 nel libro I travestiti. In Italia fino a quel momento nessuno ha mai puntato l’obiettivo su un soggetto del genere. Franco Pinna qualche anno prima, con l’antropologo Franco Cagnetta, aveva condotto un’indagine fotografica sulle prostitute del Mandrione, a Roma – uno dei punti più alti della fotografia neorealista; ma il tema, anche se scabroso per la morale dell’epoca, era assai meno controverso. All’estero solo il fotografo svedese Christer Strömholm fa qualcosa di simile, con i molti scatti di travestiti parigini realizzati tra il 1956 e il 1962 (ma pubblicati solo nel 1983 nel libro Friends of the Place Blanche), frutto anch’essi di una lunga e partecipata frequentazione. E Diane Arbus, che però affronta il tema dell’identità sessuale solo episodicamente, come in A Young Man in Curlers at Home on West 20th Street, N.Y.C. (1966), o in Seated Man in Bra and Stockings, N.Y.C. (1967), senza dedicarvi un’attenzione specifica, ma nell’ambito della più ampia categoria dell’irregolare, del diverso, dell’umanità fuori dai canoni, che la fotografa americana esplora per tutta la sua carriera con vicinanza pervasa di calore e rispetto.
Come Arbus, anche Carmi proviene da una famiglia ebrea benestante e colta, ma conosce sulla sua pelle cos’è l’emarginazione quando è costretta a lasciare la scuola a quattordici anni, nel 1938, per le leggi razziali e le persecuzioni fasciste. “Noi eravamo una famiglia laica, ma io sento moltissimo l’appartenenza al popolo ebraico: un popolo che ha sofferto, che ha sempre dovuto scappare, farsi accettare e che in fine hanno cercato di sterminare. Gli ebrei conoscono la sofferenza e credo di dovere al fatto di essere ebrea la comprensione che in tutta la vita ho avuto per chi soffre”1. È proprio la necessità di aprirsi agli altri e di comprenderli che la spinge verso la fotografia. In precedenza Carmi era stata una pianista talentuosa e apprezzata, con concerti in tutta Europa; ma nel momento in cui comprende che la musica la sta allontanando dal mondo, costringendola a concentrarsi su sé stessa e sull’esercizio solitario del proprio talento, l’abbandona senza ripensamenti. È il 1960, ha trentasei anni, e quando l’etnomusicologo Leo Levi le chiede di andare con lui in Puglia a registrare i canti degli ebrei, Lisetta va portandosi una macchina fotografica, un’Agfa Silette, e nove rullini. Non ha mai fotografato, tuttavia non si pone problemi tecnici e scatta d’istinto, scoprendo di avere un altro talento, oltre la musica. Un talento che le permetterà di allontanarsi dalla vita borghese, verso le zone non protette della società, che vuole comprendere e raccontare.
L’immediatezza e la sincerità delle sue immagini le valgono un rapido apprezzamento. Sono gli anni in cui il fotogiornalismo conosce il suo periodo migliore e la stagione del cinema neorealista volge al termine dopo aver formato un nuovo sguardo sulle cose e sugli uomini. L’esplorazione visiva, la conoscenza e la rappresentazione del mondo in presa diretta, da esigenza nata in reazione a quella condizione di chiusura in se stessi a cui la guerra aveva costretto gli individui, si sostanzia dello spirito umanistico e democratico che percorre l’Europa e gli Stati Uniti nel corso degli anni Cinquanta e i primi Sessanta. Di questo spirito sono pienamente espressione le foto di Carmi. Dopo un breve apprendistato a Berna, dal fotografo Kurt Blum, continua come autodidatta, autocommissionandosi brevi storie per imparare a raccontare con le immagini. Passa a una macchina professionale: una Leica; si allestisce una camera oscura e affronta le prime commissioni: per il Teatro Duse di Genova, dove fotografa gli spettacoli di Luigi Squarzina, Carlo Quartucci, Aldo Trionfo, Lele Luzzati e del Living Theatre; e per il Comune, facendo scatti negli ospedali, nei vicoli del centro storico, all’anagrafe, nelle fogne cittadine.
In quegli anni, Genova è ricca di fermenti sociali e culturali. Lo sviluppo dell’industria metalmeccanica rende vivace l’economia e proietta verso il futuro la visione delle politiche cittadine. Anche l’arte risente di questo impulso, con un fiorire di ricerche che prefigurano un rapporto privilegiato con la scienza, rendendo la città un punto di riferimento per il neo-concretismo, l’arte cinetica e programmata. In questo quadro, un ruolo importante è giocato da Eugenio Carmi, fratello di Lisetta, grafico, artista e art director dell’Italsider, che per l’azienda cura la rivista di informazione Cornigliano, affidando le copertine ai più interessanti artisti contemporanei. A sua volta tra i protagonisti dell’astrattismo italiano di quegli anni, Carmi apre nel 1963 la Galleria del Deposito, a Boccadasse (GE), insieme a un gruppo di amici tra cui Achille Perilli, Emanuele Luzzati, Kurt Blum e Kiki Vices Vinci, con l’obiettivo di democratizzare e diffondere l’arte attraverso la produzione di multipli a costo contenuto. Intorno alla galleria orbitano Victor Vasarely, Umberto Eco, Max Bill, Furio Colombo, Ugo Mulas ecc. Lisetta ne segue il programma, entrando in contatto con le avanguardie artistiche del periodo e fotografandone i protagonisti.
Da questo clima di sperimentazione e dai ricordi della sua precedente vita da pianista nasce, nel 1963, la sua interpretazione fotografica del Quaderno musicale di Annalibera (1952), di Luigi Dallapiccola, una serie di undici brevissimi pezzi pianistici che il compositore dedica alla figlia. “Ho ‘inventato’ una tecnica che mi consentisse di dare un significato grafico a ogni pezzo del Quaderno: ho preso un negativo, l’ho esposto alla luce e l’ho sviluppato: è diventato nero. Poi l’ho graffiato e, mettendolo nell’ingranditore, ho scelto i segni che corrispondevano nella mia coscienza allo spirito dei vari pezzi”2. Le immagini così generate vengono stampate e rilegate a mano dalla stessa fotografa in un libro d’artista in copia unica che solo molti anni dopo, nel 2005, sarà pubblicato e distribuito.Più che l’avanguardia è però la realtà che chiama Carmi e il suo lavoro di freelance si orienta definitivamente verso il fotoreportage di impegno civile. Nel 1964 Enrica Basevi, che dirige la Società di Cultura di Genova, le propone di realizzare un lavoro sul porto che Carmi decide di focalizzare sui “camalli”, gli operai che caricano e scaricano le stive delle navi, per renderne note le terribili condizioni di lavoro. Fotografa per mesi, in un luogo dove nessun fotografo, tanto meno donna, è mai stato. Nei suoi scatti le figure umane sono sempre sovrastate dalle macchine, dalle merci, inghiottite dal vuoto delle stive, coperte dalla polvere. Ancora peggiore è però l’inattività, nella stanza della chiamata, dove gli uomini si affollano, aspettando di ricevere – se mai arriverà – l’incarico per la giornata. Immagini contrastate, dai neri profondi, si alternano ad altre granulose; tagli trasversali che portano lo sguardo sul fondo della foto, sono usati tanto quanto inquadrature soffocanti, prive di orizzonte, dove tutto si ammassa su uno stesso piano. Non c’è uno “stile”, una ricerca formale specifica, che renda il lavoro di Carmi riconoscibile, ma una sensibilità sobria che adegua a ogni soggetto l’inquadratura, l’esposizione, la profondità di campo, senza alcuna scorciatoia per ottenere un maggiore impatto. Il rispetto per gli esseri umani, il desiderio di denuncia e testimonianza, sono le sue preoccupazioni principali. La mostra di questi scatti, organizzata dal sindacato, ha un grande impatto in città. Poi gira l’Italia. Ne scrive i testi Giuliano Scabia, scrittore e drammaturgo appartenente al Gruppo ’63, che nello stesso anno lavora con Luigi Nono a La fabbrica illuminata, composizione per voce e nastro magnetico, dedicata agli operai dell’Italsider di Genova.
Lisetta viaggia molto: India, Pakistan, Nepal, Afghanistan, Messico, Colombia, Venezuela. Ma anche Amsterdam, a fotografare il tentativo di rivoluzione sociale dei Provos; Israele, dopo la guerra dei sei giorni, per mostrare le condizioni di vita nei campi profughi arabi; Firenze, dopo l’alluvione; Belfast, durante i troubles, Piadena (CR) per capire dove nascono le sperimentazioni educative e pedagogiche del maestro Mario Lodi. Scelti esclusivamente sulla base dei suoi interessi, i temi dei reportage di Carmi sono spesso inconsueti e indigesti per i settimanali illustrati e i quotidiani – come il lavoro sulla nascita, Parto all’ospedale di Galliera (1965), crudo e poetico, privo di ogni retorica; o quello sul cimitero monumentale di Genova, Erotismo e autoritarismo a Staglieno (1966), una critica sottile ai valori patriarcali e sessisti della borghesia. Pubblicano piuttosto le sue immagini, o le recensiscono, periodici culturali come Il Mondo, Marcatrè e Tempi Moderni; oppure riviste di fotografia: l’edizione italiana di Popular Photography, Ferrania e la svizzera Du.
L’impegno militante di Carmi nell’utilizzare la fotografia come strumento di denuncia sociale l’avvicina al gruppo di fotografi italiani che ruota attorno a Lanfranco Colombo, che la invita a esporre nella mostra “The Concerned Photographer. Gruppo italiano”, organizzata nel 1973 nelle Sale Apollinee del Teatro La Fenice a Venezia e che include, tra gli altri, Gabriele Basilico, Gianni Berengo Gardin, Luciano D’Alessandro, Ugo Mulas e Ferdinando Scianna. Ma il suo lavoro deve esser letto anche all’interno di ricerche e pratiche estetiche che coinvolgono, tra gli anni Sessanta e i Settanta, artiste italiane vicine al movimento femminista, che danno vita a un processo di riappropriazione del corpo, di messa in discussione dei ruoli e delle identità sessuali, di affermazione dell’alterità della cultura femminile, di riflessione autobiografica.
La serie su Staglieno e quella sul parto ne sono un esempio lampante. Ma è soprattutto la lunga ricerca sui travestiti che esprime con evidenza come il lavoro di Lisetta sia uno strumento di conoscenza del mondo e allo stesso tempo un metodo di autoriflessione. “Io stessa in quel tempo ero assillata – forse a livello inconscio – da problemi d’identificazione maschile o femminile. Oggi capisco che non si trattava tanto di accettazione di uno ‘stato’ quanto di rifiuto di un ‘ruolo’. E i travestiti (o meglio, il mio rapporto con i travestiti) mi hanno aiutato ad accettarmi per quello che sono: una persona che vive senza un ruolo. Osservare i travestiti mi ha fatto capire che tutto ciò che è maschile può anche essere femminile, e viceversa: non esistono comportamenti obbligati, se non in una tradizione autoritaria che ci viene imposta dall’infanzia”3.
Nei sei anni passati accanto a Morena, dalla personalità materna ed esuberante, alla Novia, giovane e bellissima che era stata l’amante di De Pisis, a Pasquale, gruista che sceglie di fare la vita vestito da donna o alla Gitana, Carmi vede e racconta quello che l’Italia di allora non è pronta a vedere e a sentirsi raccontare. Troppo forte e partecipata la lezione di quelle immagini, che sono simboliche piuttosto che aneddotiche, ma anche estremamente dirette, come nei molti nudi. La fotografia impegnata può registrare lo sfruttamento, la povertà, la marginalità; ma il territorio della sessualità – e soprattutto della sessualità omosessuale – negli anni Sessanta rimane oscuro e impraticabile.
Il progetto di trarre un libro dal lavoro sui travestiti incontra, infatti, molti ostacoli: prima Gabriele Mazzotta sembra volerlo pubblicare e Carmi inizia a lavorare a delle interviste da inserire nel volume insieme allo psicanalista Elvio Fachinelli, che con giornalista e femminista Lea Melandri dirige la rivista L’erba voglio; ma poi l’editore ci ripensa. Il fotografo Luciano D’Alessandro le presenta allora Sergio Donnabella, che si impegna a pubblicare il volume a sue spese, pur non essendo un editore. Il progetto grafico è affidato a Giancarlo Iliprandi, art director della casa editrice Il Diaframma, che sta operando una rivoluzione nel campo del libro fotografico, dando uno spazio inedito al layout. Il libro è di grande formato (le riproduzioni hanno quasi la stessa dimensione delle stampe di Lisetta), la copertina è potente, con una foto della Gitana nuda, tagliata appena sopra il pube; gli scatti selezionati forti e sinceri, alternati a un ottavo in carta rosa con i testi dattilografati. Oggi I travestiti è un libro di culto, introvabile, ma quando esce è uno scandalo editoriale, i librai lo tengono sotto banco e rimane invenduto.
Qualche anno dopo la pubblicazione del libro, dal 1977, Carmi abbandona progressivamente la fotografia: per lei non rappresenta più un mezzo di crescita, uno strumento per capire e far capire il mondo. Prosegue invece il suo percorso aprendo il primo ashram in Italia, a Cisternino, in Puglia. La spiritualità si sostituisce alla fotografia, come specchio in cui vedersi con chiarezza e osservare partecipando quanto le sta intorno. Sempre fedele a se stessa e libera da ogni condizionamento, autodetermina la sua storia, senza timore dei cambiamenti, delle trasformazioni. Questa è la sua lezione, che si fonde con quella del suo lavoro, sgombro di pregiudizi, profondamente umano e preoccupato esclusivamente di andare al cuore delle cose.