“Charivari”, titolo della mostra di Megan Marrin e Lorenza Longhi presso Ordet, a Milano, è il nome che ha fatto la fortuna di un’iconica boutique newyorkese. Traducibile dal francese in “fracasso”, charivari indica un chiassoso atto di protesta contro individui non conformi alla morale. La complessità dei riferimenti a cui questo termine allude, ben descrive l’ambiguità di un immaginario, quello della società dei consumi, al contempo seducente e oppressivo. Un’atmosfera che le artiste evocano analizzando i linguaggi con cui l’ideologia, oggigiorno, esercita il proprio potere: la pubblicità commerciale, la grafica, l’architettura, le tecniche di esposizione museografica, il visual merchandising, il design dei prodotti.
Le opere che Lorenza Longhi realizza per questa mostra prendono spunto da template di insegne per negozi d’inizi Novecento che l’artista trasforma in matrici serigrafiche. Queste matrici consentono la riproduzione di elementi ornamentali Art Nouveau la cui natura è ironicamente sottolineata da placeholder di testo che recitano “Signs”, “Ribbons”, “More Ribbons”, “And then some more”. L’inchiostro serigrafico è impresso su carte da parati che l’artista seleziona tra i modelli fuori commercio di noti brand: frammenti di storia del costume resi neutrali dall’indifferenza con la quale sono accostate. Le serigrafie sono applicate su pannelli in policarbonato con un approccio DIY grazie al quale le sbavature d’inchiostro e gli strappi della carta rivelano l’artigianalità di un linguaggio altrimenti impersonale. I pannelli installati a parete grazie a un sistema di montanti, suggeriscono un’agilità installativa che rende ogni opera interscambiabile, parte di un insieme che si articola lungo il percorso espositivo, con fantasie e simboli che si alternano ritmicamente. L’artista realizza così un campionario di stilemi che attinge a desueti sistemi di gusto e allude alla loro inevitabile obsolescenza, con una pratica che non teme di risultare formalmente accattivante.
Megan Marrin realizza una serie di dipinti che hanno per soggetto portabiti e grucce, prodotti di una cultura materiale che evoca l’assenza dei corpi a cui provvede, simulacri di quei simulacri che sono gli abiti, con le loro complesse implicazioni psicanalitiche. Gli oggetti di Marrin hanno sempre un non so che di prostetico, in quanto estensione e vincolo per il corpo, e sottintendono la microfisica del potere con cui il design ci addomestica. Sono realizzati con una tecnica pittorica di perturbante realismo, in cui gli oggetti si stagliano contro i claustrofobici fondi monocromi su cui proiettano le proprie ombre. I dipinti sono installati a un’altezza che inganna lo spettatore, inducendolo a percepire quasi fisicamente la presenza dei soggetti dipinti, come si ergessero dallo stesso pavimento sul quale egli stesso poggia i piedi. Talvolta le tele sono sagomate, a ricalcare il profilo di figure che sembrano evadere il dominio della rappresentazione per elevarsi a quello oggettuale. Il taglio dell’immagine, che lascia però intravedere la virtualità di un piano che continua al di là dei suoi limiti, crea un senso di straniamento, accentuato dalle fattezze antropomorfe e sessualizzate degli oggetti rappresentati.
Nonostante il dichiarato omaggio alla nota boutique, la fantasia di carte da parati e di insegne, le scritte che invitano al consumo, le grucce e i portabiti, le pareti che scandiscono il percorso e direzionano lo sguardo, “Charivari” non si riduce alla ricostruzione letterale di uno showroom. Il riferimento alla cultura retail è un pretesto per presentare i più recenti esiti della ricerca di due artiste che, nonostante il facile accostamento, viaggiano su binari distanti. Più rigorosa l’una, nell’affrontare cicli pittorici di tautologico realismo in cui nulla sembra si possa dire senza tradire quel che è strettamente visibile, più eclettica la seconda, che pur portando avanti un lavoro metodicamente strutturato e stilisticamente riconoscibile, lascia aperti spiragli all’enigmatico e al capriccioso. Due modi differenti di orientarsi in quell’universo di segni nella quale siamo immersi, in una cultura dell’immagine che trasforma le cose e le forme in strumenti con i quali perseguire i propri fini. E la cui natura chiassosa e soverchiante è evocata dal titolo di una bipersonale che si presenta eterogenea al punto da lasciarci con il dubbio d’una scelta un po’ forzata, o perfettamente rappresentativa dello sfaccettato spirito del tempo.