Marinella Paderni: Decostruzione delle strutture architettoniche, estetica del vuoto, fenomenologia dello spazio urbano sono alcune delle tematiche del tuo lavoro, oggi centrali nell’indagine artistica del paesaggio urbano. Cosa ricerchi nell’immagine dell’architettura e dello spazio? Un grado di significazione della realtà che sveli un secondo disegno, più profondo e meno visibile, del progetto umano sul mondo?
Lorenza Lucchi Basili: Quello che mi piacerebbe capire è come avviene davvero il percorso che porta alla produzione del significato attraverso la visione, cosa accade dentro di noi quando un’immagine ci costringe a confrontarci con un interrogativo cui non sappiamo dare una risposta immediata e facile. Anche per me è un mistero ciò che mi accade quando fotografo, in quei primi momenti nei quali avverto, senza ancora aver nemmeno guardato attraverso l’obbiettivo della macchina fotografica, che qualcosa può succedere. La mia ricerca, in fondo, è innanzitutto cercare di capire perché fotografo quel che fotografo. Non è soltanto una questione di scelta da parte mia. Quando un lavoro funziona, me ne accorgo subito perché è il soggetto che risponde, che in un certo senso mi viene incontro. Si producono delle condizioni di luce, delle situazioni accidentali, che rivelano dei livelli di percezione non evidenti: è davvero come se la realtà volesse svelare determinati aspetti di sé che di solito si sottraggono allo sguardo. Perché proprio le architetture degli spazi urbani, allora? Perché definiscono un ambiente nel quale si realizza un cortocircuito straordinario tra il linguaggio che ha definito la modernità, quello dell’astrattismo geometrico, e i luoghi nei quali ci troviamo a vivere oggi. In un certo senso, oggi noi viviamo dentro le astrazioni che noi stessi abbiamo creato, e questo definisce a mio parere la condizione della contemporaneità come poche altre cose. All’inizio, il mio bisogno era quello di far parlare queste architetture senza interferenze, in modo che non ci fosse alcun equivoco: erano proprio quelle che volevo fotografare, non qualcos’altro a cui facevano da sfondo. Noi ci siamo abituati a guardare questi edifici senza vederli, sono parte della nostra esperienza di tutti i giorni, ma dicono di noi molto più di quanto saremmo disposti ad ammettere, aprono dei passaggi su una nuova forma di sublime, di terribile grandezza che ci spaventa e ci affascina allo stesso tempo. Anche perché non sono manifestazioni della natura. Sono cose che abbiamo fatto noi. Sono noi.
MP: Fin dagli esordi hai eletto il dispositivo fotografico quale tuo linguaggio privilegiato d’indagine, anche se il tuo uso della fotografia è molto scultoreo — il “cavare fuori” tramite il prelievo fotografico di un frammento inedito, singolare, della materia del reale, come se fosse una scheggia di mondo balzata fuori ed eternizzata nello scatto. Come hai sviluppato negli anni questo approccio non convenzionale alla fotografia?
LLB: Il dispositivo fotografico per me è un metodo di carotaggio: permette di registrare, di decontestualizzare nei modi che mi vengono suggeriti dall’interazione con ciò che vedo. Quando scatto, quando opero il taglio, è perché dentro l’immagine si è costituito un soggetto, una precisa individualità, dotata di una sua autonomia. Ecco perché i miei non sono dettagli architettonici, non sono particolari di un’architettura che rappresenterebbe l’unica possibile unità di senso. Sono unità di senso a sé stanti, sono oggetti fenomenici che hanno la stessa dignità dell’organismo architettonico complessivo di cui sono parte. È per questo che ci turbano. Non sono innocui dettagli estetici, sono frammenti di linguaggio che espongono una verità ulteriore, sono dei veri e propri lapsus, che restano nascosti nelle pieghe del discorso ma che possono essere portati alla luce, letteralmente. Ecco perché non decido mai prima cosa fotografare, e come. Per me è sempre stato così fin dall’inizio, è la mia modalità naturale di lavoro. Quando poi riprendo in esame il materiale scattato, entro in una nuova fase del processo, in cui in genere un ordine emerge spontaneamente. A volte le immagini si espandono con un impulso centrifugo e si agganciano le une alle altre, definendo progressivamente una struttura: è una situazione che mi ricorda da vicino certi processi fisici di formazione di aggregazioni altamente organizzate, come il magnetismo o la crescita dei cristalli. È questa capacità espansiva delle immagini che fa sì che alla fine il progetto acquisti necessariamente una tridimensionalità. L’espansione produce una relazione molto forte con lo spazio espositivo, e infatti la scelta di un determinato lavoro per un determinato spazio passa dalla definizione di rapporti di corrispondenza molto sottili. Lo spazio espositivo e il lavoro che vi viene installato si scelgono reciprocamente e si mettono in scena l’un l’altro.
MP: Dopo una lunga stagione di ricerca sul senso dello spazio e sulla dimensione del vuoto in architettura, nei tuoi nuovi lavori compare la presenza umana, anche se visibile per particolari e sempre in relazione ai luoghi fotografati. Che significato assume questa deriva verso la comparsa del corpo?
LLB: La prima volta che la figura umana è entrata nelle mie fotografie, mentre lavoravo sulla metropolitana di Vienna, mi è sembrato quasi un incidente: mi interessava fotografare un certo pavimento, e mentre aspettavo che lo spazio si svuotasse dai passanti, guardando attraverso l’obbiettivo, ho avvertito chiaramente quel familiare picco di emozione che mi spinge a scattare. Ciò che rimaneva nell’inquadratura non erano figure intere, ma tracce di presenza umana che si fondevano con lo spazio del pavimento. Ho percepito distintamente che queste tracce costituivano una risonanza dello spazio architettonico. Era come se l’architettura stessa parlasse ora attraverso l’accumulazione dei segni del passaggio delle presenze umane che la attraversavano. Quello che sembrava un incidente era invece un preciso invito ad allargare lo sguardo, come se a un certo punto del percorso il momento fosse finalmente arrivato: le corrispondenze geometriche su cui da sempre lavoro possono ora rispecchiarsi e moltiplicarsi anche nei movimenti delle persone nello spazio. Ma è sempre lo spazio che parla di sé, che dà forma agli attraversamenti. Le presenze umane sono come parole di una narrazione, sono frammenti della dichiarazione di esistenza di un’architettura che non ha bisogno di essere percepita per esistere.