“Soffia il caldo e il freddo dalla medesima bocca”.
Erasmo
Per Lorenzo Lotto la luce non viaggia secondo linee rette e discendenti ma è trasportata da un’aria di vapore rarefatto, dall’atmós, che avvolge gli oggetti, abbraccia le persone e sospinge gli animi. Sia nell’entrare, come un alito caldo, nella casa di Maria o nel soffiare più fresca sulle rive di un fiume e sotto la chioma di un albero, la luce dei dipinti di Lorenzo appare ondivaga e fluttuante. Mulinella come le pieghe delle vesti più leggere e riverbera in riflessi carezzati anche negli anfratti più ottusi delle stanze, come a dire che il buio estremo non va temuto perché c’è sempre una stilla di chiaro per dare ricovero all’occhio e allo spirito. Allora i colori delle cose e dei corpi si inteneriscono lasciando trasparire un interno radioso.
Tornando a Recanati dopo anni, dopo la pulitura che ha rimosso i sedimenti di sporco sulle quattro opere conservate al Museo Civico, si può comprendere come il soffio di luce fredda, biancomarmorea, di cui è imbevuto il Polittico dei domenicani (1508), possa essere uscito dalla stessa voce che circa venticinque anni dopo dipinse l’Annunciazione. Sogno del più domestico e affettuoso interloquire tra terreno e divino, poetica dei sentimenti sussurrati dalla luce ed echeggiati dal colore, dai timbri accostanti, dagli sfumati che alludono al languido. Dell’umano certo si parla in quella tela, ma tutti gli angeli dipinti dal pittore veneziano sono angeli, lo si percepisce. Metamorfosi posate su spiragli di luce bassa o su brezze trascolorate, angeli custoditi qui, da noi, appena sotto la superficie di una materia significante. Gli anni di Lotto sembrano recedere dopo una stagione di primato culturale, di risultati aulici in cui Lorenzo è il primo italiano a interpretare la grandezza di Dürer, l’unico a tenergli testa nella bellezza superba dei Santi Vito e Sigismondo, nella sontuosa sartoria della Maddalena, nel nervo possente e tranquillo delle mani, nella misura pareggiata dell’insieme. Ma l’Annuncio, nella sala accanto, non deve apparire quale linguaggio dismesso, semmai parla di maggiore intimità, di un monachesimo del pennello che si spoglia nudo in piazza per sincerità, sostituendo alla parola solenne un tepore di verbo. Il polittico di Recanati è invece livido come una lastra funebre, anche se diurno fino alla commozione. Di un bianco sole tuttavia si tratta, che trova uno specchio ridondante entrando nel loggiato aperto della pala e nelle sue architetture, così tutta la penombra si rischiara in un avvampo invernale, dal quale emergono espressioni assorte e perplesse, riverberi di uno stupore che rendono sincero anche il rito impassibile di una sacra conversazione. In cima al sontuoso retablo sta il sepolcro, aperto sul compianto, qualcosa che ci si aspetterebbe nella parte più bassa e sotterranea. Così il Cristo morto incombe massiccio come uno sperone di roccia in bilico e, quasi fosse fatto di pietra d’Istria, appare ancora blocco di cava nella forma, pur levigato nella superficie. Se per rifinire certe sculture, per giungere al lucido con l’ultima amalgama abrasiva si deve impastare la polvere della pietra al latte, allora anche il polittico di Recanati deve essere stato trattato allo stesso modo. Perché oltre a quel masso sacro, trattenuto dai dolenti, riecheggiano in bianco anche le vesti a colonne dei santi domenicani, le mitre e i veli, la volta del soffitto e la scacchiera del pavimento. E se a qualcuno non bastasse il chiarore marchigiano di Lorenzo, che va pazientemente cercato dal vero, perché nessuna riproduzione lo restituisce a pieno, un viaggio a Vienna potrebbe far capire che anche nel sottobosco si può annidare un bagliore diffuso. Al Kunsthistorisches Museum, riparata dalle fronde di una quercia, siede quella che in epoca gotica sarebbe stata chiamata Madonna dell’Umiltà avendo preferito, allo scranno di un trono, un prato d’erba e di fiori. Anche un’aureola di campo le viene posta sul capo da un angelo che sembra aggiunto tre secoli dopo da un preraffaellita, da Dante Gabriele Rossetti o da Edward Burne-Jones. Ebbene quell’ombra, che dalla macchia di foglie vela la fronte e gli occhi della longilinea Vergine, è totalmente intrisa di luce e di aria, un’ombra investita entro il proprio cono dall’insufflare di quel lume vivo.