“Il matrimonio tra ragione e incubo che ha dominato il XX secolo ha dato vita a un mondo sempre più ambiguo”, scriveva J. G. Ballard nel 1974 in una prefazione al suo romanzo Crash. “Nel panorama delle comunicazioni si muovono gli spettri di tecnologie sinistre e sogni in vendita. Sistemi di armi termonucleari e spot di bibite coesistono in un regno illuminato da pubblicità e pseudo-eventi, scienza e pornografia”. Se la fantascienza del dopoguerra proiettava i suoi lettori in un futuro remoto, popolato da tecnologie meravigliose e sconosciute, Ballard si proponeva di costruire una fantascienza del presente: un immaginario capace di raccontare la contaminazione inquietante della psiche umana con gli artefatti tecnologici prodotti e diffusi nella quotidianità delle persone attraverso l’economia di consumo. Quando Lorenzo Lunghi trasforma le tecnologie quotidiane, dalle luci di emergenza ai sensori bluetooth fino ai purificatori d’aria domestici, in silenziosi parassiti della civiltà capitalista neoliberale – spie, appunto, in perenne e taciturna sorveglianza di manifestazioni impercettibili a cui noi umani non riusciamo ancora a dare un nome – non sta costruendo una fiction: si sta semplicemente mettendo in ascolto.
Se il gotico è la spinta degli artefatti a trascendere la materia che li compone per farsi vettori di entità metafisiche, la cibernetica è la disciplina che, per prima, ha saputo riconoscere agli oggetti tecnologici una forma di autonomia rispetto ai loro creatori umani. Il termine cybergotico, in questo senso, si riferisce a un’ibridazione speculativa di futuro e passato, di tecnologia e magia, di ragione e paranoia. Nel cybergotico, le tecnologie smettono di essere l’espressione della razionalità umana per trasformarsi in incantesimi, rituali pre-moderni capaci di proteggerci ma anche di veicolare i bisbigli di forze sconosciute. Gli artefatti cybergotici di Lorenzo Lunghi sono entità moralmente neutre: diversamente dalle macchine della fantascienza, non esistono né per distruggere la civiltà umana né per mettersi al servizio della sua salvezza. La loro funzione, se ne hanno una, è piuttosto quella della profezia; e di profezie, in questi tempi mostruosi, abbiamo un sempre più disperato bisogno. Forse, come accade con tutti gli oracoli, il loro vero significato ci sarà rivelato soltanto quando sarà ormai troppo tardi.
Laura Tripaldi: Uno dei temi che ricorrono nella tua ricerca è un rapporto con gli artefatti tecnologici che definirei ambiguo. Se da un lato li racconti come strumenti di sorveglianza al servizio del potere, d’altra parte gli stessi oggetti spesso si trasformano, nelle tue opere, in organismi parassitari, alieni, del tutto estranei al controllo umano. Come vivi questa ambivalenza? Qual è il tuo rapporto personale con la tecnologia?
Lorenzo Lunghi: L’ambivalenza degli artefatti tecnologici sta in chi li produce e nelle intenzioni e narrazioni che li riguardano. C’è chi fa profit con i dispositivi e i metadati e chi invece trasforma gli oggetti in qualcosa di più
astratto e inaspettato, con un’attitudine metafisico- speculativa. Io solitamente gioco con le narrazioni visive che le corporation fanno di alcuni oggetti, come
si può vedere nel lavoro Spie (2022), così come per Ultraviolette (2021), scultura sviluppata in seguito LT al lancio sul mercato di prodotti che promettono di purificare l’ambiente domestico attraverso luci UV-C, che possono bucare la nostra retina.
I dispositivi che produco si nutrono del nostro sguardo e delle nostre informazioni, cercando di creare relazioni LL con l’ambiente e la loro stessa esistenza. Penso che gli artefatti parassitari debbano avere la loro indipendenza al di là di chi li abbia sviluppati. Di certo ci stanno addosso e l’ambivalenza fa parte della loro resistenza. Personalmente, cerco di smontare la tecnologia per poterla de-funzionalizzare e renderla senza un’applicazione consumistica effettiva, sussurrandole che può fare altro o che può anche non fare nulla.
LT: L’ansia è un sentimento universale per la nostra generazione, anche se tutti tendiamo a combatterla o nasconderla. L’ansia per te ha un valore? Come sei riuscito a trasformare un’esperienza così paralizzante in una forma di espressione creativa?
LL: L’ansia è un sensore che ci proietta nel futuro. Come tale agita alcuni umori che a volte mi spezzano la voce, altre volte mi fanno lavorare con il mal di pancia. Io per l’ansia ho le antenne. In una situazione di lavoro gratuito, ad esempio, la frustrazione e la complessità dei sistemi in cui ci proiettiamo o la pressione che si ha nella prestazione del sé è fin troppa. In questi casi mi aiuta l’improvvisazione, per questo tante volte scelgo di essere impreparato: grazie allo sbigottimento mi faccio trasportare dal momento e dal contesto. A questo proposito, ho creato un personaggio, l’antennista, uno che ogni tanto veste un sacco a pelo con le gambe e mette in scena il rituale della deformazione egocentrica. L’antennista non è altro che una persona sensibile e ultra-sensibilizzata, tramite tecnologie e microfoni che possono captare frequenze elettromagnetiche, ultrasuoni, luce, sentimenti e paranoie. Si aggira come un pipistrello utilizzando l’eco-localizzazione, rimbalzando il suono e le informazioni che lo aiutano, o lo aiuterebbero, a muoversi in un determinato ambiente. Delle volte va bene altre volte va male ed è proprio questa fragilità e possibilità di fallire che viene messa in mostra.
LT: Vaccini sperimentali, 5G, Metaverso, sistemi di tracciamento hi-tech: ho l’impressione che lo sviluppo delle tecnologie negli ultimi anni ci abbia resi tutti un po’ complottisti. Che impatto ha avuto l’esperienza della pandemia sulla tua ricerca?
LL: Nel creare oggetti o personaggi sensibili, che possono assumere forme simboliche strettamente legate a un sentire collettivo, mi sono scontrato diverse volte con le teorie del complotto. I miei amuleti con poteri apotropaici in grado di assorbire paranoie e stati patetici sia nelle forme che nell’immaginario, si alimentano di questo vociferare. Per questo lo scenario che proviene da un’attualità schizofrenica o da una fantascienza catastrofista è il propulsore della mia ricerca. La pandemia è stata in qualche modo uno dei sintomi di un’apocalisse culturale che già stavamo vivendo. Credo che quello che manca per la comprensione di un cambiamento culturale sia fondamentalmente la dimensione del rito e del magico.
LL: “Nothing is true, because everything is under production” scriveva la Cybernetic Culture Research Unit negli anni ’90. “Because the future is a fiction, it has a more intense reality than either the present or the past”. Una parte integrante delle tue opere è la narrazione che le circonda. Più che raccontare la verità sul presente, le tue storie sembrano quasi degli incantesimi capaci di manifestare il futuro.
LL: Ci sono alcuni oggetti magici che possono prevedere il futuro, dispositivi che consentono l’osservazione o la conoscenza di fatti e fenomeni non direttamente percepibili o disponibili tramite schemi o mappe. Credo che gli oggetti siano da sempre stati creati per dare una visione altra del mondo e manifestare il futuro con le loro promesse e narrazioni. Sono interessato a pratiche come l’aruspicina, l’arte divinatoria per predire il futuro tramite la lettura degli organi animali, cerco però di farlo su me stesso. Vivisezionare me stesso e il mio io digitale.
LT: La paranoia che attraversa alcune tue opere – penso, per esempio, alla performance Sleeping bag del 2021 – mi ha rievocato la stessa sensazione che ho provato leggendo i romanzi di Philip K. Dick. Altri tuoi lavori, come Ego self service (auto-sabotage of the self) (2022), mi hanno ricordato il body horror di David Cronenberg. Che rapporto hai con la fantascienza
e l’horror? Ci sono autori che ti hanno ispirato in particolare?
LL: Ho sempre voluto tenere a bada l’immaginario fantascientifico, anche se ultimamente lo sto perdendo dalle tasche qua e là. Un po’ mi spaventa. Il nesso tra questi due autori che citi si concretizza nel discorso sul corpo, la psiche e le reti che Antonio Caronia ha saputo approfondire negli anni ’90. Ego self service (auto-sabotage of the self) è come un autoritratto molto complesso, è l’astrazione e la condensazione del mio corpo digitale che è stato consumato al servizio dell’accelerazione neoliberale. Con lui, anche il mio lavoro si è scarnificato, corroso dallo sguardo inquisitorio che consuma ogni immagine. Ne rimangono solo le ossa. L’io è una carcassa che giace sul pavimento. Un corpo che si auto-sabota in una società che vuole corpi e menti prestanti. Nel film eXistenZ (1999) di David Cronenberg vi è la scena del ristorante cinese in cui Pikul, il protagonista, ordina “lo speciale”, e dalle ossa di questo cibo strano che dobbiamo ingoiare con lui viene costruita l’arma: una pistola con cui uccide per sbaglio un suo “contatto realista”. Questa LT immagine mi è rimasta in testa, anzi in pancia, per diversi anni e inconsciamente è ritornata fuori. Tante volte immaginari fantascientifici, videogame LL e realtà si mischiano in una melma inconscia che riemerge a galla dopo un po’. Non credo nella fantascienza come scudo terapeutico ai problemi reali e se è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo allora siamo messi male. Spero, invece, in una fantascienza immaginativa e lisergica. In questo senso ultimamente mi sto interessando di Solar Punk, Eco Grime e di tendenze musicali che nascono da questa esigenza. Sto ancora formulando un pensiero che dirò in un’altra occasione, spero.
LT: Spesso scegli di lavorare con materiali insoliti, come il caramello. Lo zucchero è dolce ma anche pericoloso: fonde a temperature altissime e può provocare gravi ustioni quando non viene maneggiato con cura. Che rapporto hai con i materiali che utilizzi?
LL: Sono da sempre stato attratto da materiali pericolosi. Da ragazzino mi intrufolavo in fabbriche o capannoni abbandonati alla ricerca di oggetti in decomposizione, scarti ammuffiti e multi-materiali fusi da incendi. Nella disubbidienza civile ho imparato che i materiali più pazzi vanno cercati
o creati. Mi sono poi interessato di pratiche DIY e di autoproduzione, inciampando in una bolla algoritmica vastissima. Ho cortocircuitato diversi giocattoli sonori, fatto esplodere una sirena di una fabbrica per sbaglio, estratto l’oro da vecchi computer e riciclato metalli per poi rifonderli con strumenti autocostruiti.
Il problema della sicurezza è un punto cardine per me, riappropriarsi dei mezzi produttivi può essere pericoloso, perciò bisogna essere preparati all’utilizzo di alcuni materiali, ma devo farlo! È più forte di me, per questo cerco di collaborare con chi ne sa di più di me. Grazie Laura che mi hai aiutato a fare gli specchi, rischiavo di fare esplodere Manifattura Tabacchi. Spero che collaboreremo ancora.
LT: Nel tuo immaginario distopico a volte si intravede la speranza di una resistenza al potere tentacolare della tecnologia attraverso il DIY, l’autoproduzione e la vita comunitaria. Ci sono esperienze, incontri o letture che ti hanno aiutato a sviluppare questa fiducia nell’anarchismo e nell’autogestione?
LL: Nella mia formazione ho sviluppato un pensiero critico che abbraccia idee di open-source, autodifesa digitale e pedagogia hacker, affrontate dal collettivo Ippolita in Italia, come anche lezioni di resistenza, di indagine della nostra società, di sabotaggio che mi sono state insegnate dal collettivo Critical Art Ensemble. Questi punti di riferimento tattico/teorici mi hanno portato a una coscienza critica pedagogica che mi ha aperto gli occhi sulla possibilità di un fare collettivo, dove individui sensibili possono unirsi in un punto di congiunzione per creare una capanna temporanea. Ho avuto modo di approfondire questi aspetti in diversi momenti, dal collettivo DITTO, a cui ho preso parte tra il 2016 e il 2019, ad altre situazioni temporanee organizzate in contesti extraurbani, cito “Miraggio” nel 2019, una mostra allestita nelle acque cristalline di un fontanile Cremasco, ed “Erbacce” nel 2020, una festa dell’orto.
Credo che questi esperimenti siano più importanti di altre esperienze vissute in maniera individuale e mi piacerebbe continuare in questa direzione. In fondo si cerca di stare bene insieme, no?
LT: Intravedi il rischio che il sistema dell’arte strumentalizzi questo aspetto del tuo lavoro? Se sì, come vivi questa contraddizione?
LL: Ho l’impressione che ogni importante discorso dallo slancio ideale finisca sempre per diventare mercè ora di questo, ora di quel sistema, in un apparato più grande che mastica tutto per sopravvivere. Devo dire che questa domanda mi ha messo molto in crisi. Da un lato mi verrebbe da sparare in aria lamentele retoriche e dall’altro vorrei veramente provare a credere che qualcosa possa cambiare. Sono un sognatore che tante volte si taglia le gambe per difendere delle idee, ma questo loop della strumentalizzazione, per me che cerco di de-strumentalizzare tante cose mi fa accartocciare su me stesso.
Quello che so è che continuerò, immergendomi in quello che sento di dover fare, e sporcandomi le mani, così che non ci sia spazio per null’altro che non sia perfettamente allineato con la realtà della situazione. L’improvvisazione, il sabotaggio e la spontaneità sono spogli delle sovrastrutture e dei meccanismi con cui il neoliberismo sterilizza il reale. Lotta visionaria, empatizza con il parassita, potremo vedere anziché spiare?
Nessuna formula magica è mai la stessa.
La verità è più profonda di qualsiasi speculazione che rimane in superficie.