Secondo il linguista americano Noam Chomsky, la “strategia della distrazione” è la principale delle tattiche di manipolazione del cittadino da parte dei media. L’attenzione del pubblico è distolta dall’esplorazione di tematiche e questioni essenziali, che indurrebbero la persona ad assumere una posizione critica e socialmente responsabile, attraverso diversi espedienti: l’accumulo di informazioni insignificanti, tecnica del diluvio, o distratta dallo spostamento del focus comunicativo.
La strategia della distrazione nasconde o maschera l’oggetto interessato, opera l’atto paradossale dell’intasare visivamente o cognitivamente l’attenzione, per deviarla altrove in un campo differente. Ma cosa accadrebbe se fosse l’uomo a nascondersi a tale pratica strategica, e imparasse a mimetizzarsi con il vivere comune, celato dietro un linguaggio ordinario e pertanto innocuo, silenzioso e dunque invisibile, apparentemente muto? Un linguaggio che opera attraverso l’innocenza del banale o un agire anti-eroico, rifiutando immagini dirette che sfuggano alle logiche del controllo? Quell’individuo opporrebbe resistenza, ovvero praticherebbe un antagonismo politico.
Intitolata “Basteln”, la più recente mostra personale di Lorenzo Scotto di Luzio (Pozzuoli, 1972; vive a Berlino) si è tenuta lo scorso marzo nella nuova sede della galleria T293, un edificio di archeologia industriale nel quartiere di Trastevere a Roma. Tratto da una parola tedesca, il titolo indica la pratica del fai da te e contraddistingue l’attività comunemente riconosciuta come quella eseguita in ambito non professionale, nel tempo libero sottratto all’attività lavorativa, e che lo storico francese Michel de Certeau, nel suo saggio L’invenzione del quotidiano, definisce come il tempo adatto alla produzione di tattiche di resistenza in una società che pratica un costante sistema del controllo.
La mostra si compone di lavori di varia natura formale: installazioni, sculture e quadri. Come di consueto e anche in quest’occasione, Scotto di Luzio, la cui prassi si è contraddistinta sin dagli esordi per un fare osmotico, articolato tra le varie forme espressive (si è avvalso in passato anche del disegno, della performance e dell’animazione) dà vita a un linguaggio precario, scettico, dalla forma aperta e imprevista, ad offrire anche una riflessione sulla crisi del linguaggio stesso dell’arte.
Sulle pareti compaiono grandi quadri dai colori acidi che ritraggono volti pantomimici: limoni che sorridono, patate con il naso, una pallina da golf con gli occhi azzurri. Al centro realizzata con barre in acciaio e palloni da basket, la scultura che ritrae un’esecuzione Stick Man Kills Stick Man (2015). Disseminate nello spazio alcune sculture meccaniche di piccolo e medio formato: un volto in cartapesta i cui tratti somatici sono appena accennati, attivabile tramite un grosso pulsante a terra, mima – parodiandola – una pratica sessuale; un’altra è l’immagine goffa di un memento mori che suona e canta.
Con il suo consueto tono ironico, Scotto di Luzio affronta una riflessione che, sospesa tra provocazione e totale senso di inadeguatezza, offre falsi ready-made che guardano alla contemporaneità con malinconia e latente senso di fallimento.
“Basteln” indica lavoretti fatti con le mani. Le opere in mostra sono infatti il risultato – o meglio la loro riproduzione su tela, ingrandita, musealizzata – del tempo che l’artista ha passato con la figlia a disegnare e incollare sticker sui grandi libri da colorare, a mascherare oggetti comuni come i giocattoli dei venditori ambulanti e a costruire immagini mimetizzate nella loro inettitudine e parodia formale. “Sono oggetti che agiscono nel tentativo di sostituirsi al reale e che in questo tentativo sono mendaci”, racconta l’artista.
Le opere, al limite del kitsch e di una retorica del brutto, nella loro accattivante semplicità di immagini comuni, sono come delle schegge temporali, luoghi di indagine in cui oggetti a prima vista invisibili, perché fin troppo mimetizzati, nascondono la loro entità di dispostivi attivi. A prima vista confortanti, sono forme dubitative che, in un continuo gioco di mimesi e antimimesi, offrono un punto di vista laterale, indagando le cosiddette zone d’ombra citate da de Certeau nel suo saggio. Per il filosofo francese, l’uomo comune, attraverso azioni non capitalizzabili, quali quelle eseguite fuori dalle consuete logiche di produzione, ha la possibilità di produrre atti sovversivi. Nella fattispecie la creatività dispersa e minuta possiede potenzialità antagoniste, in quanto in grado di creare nuove realtà di produzione e consumo. Nell’atto del ripetere l’attività “improduttiva” eseguita assieme alla figlia, Scotto di Luzio si pone in una zona d’ombra, che, in quanto svincolata dai meccanismi tradizionali di potere e controllo, diventa a tutti gli effetti stimolo per una riflessione critica e una possibile azione politica.
Scotto di Luzio si era già spinto in una direzione simile, in occasione della mostra personale “Besser einkaufen, besser leben”, alla galleria Giangi Fonti a Napoli, nel 2014. “Besser einkaufen, besser leben”, che tradotto in italiano significa “migliore è l’acquisto, migliore è la vita”, era lo slogan di un noto discount tedesco.
In quell’occasione accanto a quadri di medio formato che illustravano nature morte di frutta e broccoli, dai titoli magniloquenti come Gauguin, Matisse e Cézanne, erano presenti grandi sculture di impronta minimalista, che ritraevano i divisori presenti alle casse dei supermercati, quegli anonimi oggetti in plastica che servono a separare la spesa tra i clienti. Nuovamente, accanto all’immagine del memento mori incarnato dalle nature morte, che in alcuni casi richiamavano esplicitamente la figura del teschio (come sarebbe accaduto nella successiva mostra romana da T293), l’artista offriva l’impresa parodiata e paradossale di riqualificare strumenti muti, di ritualizzare l’elemento invisibile che indica il non-luogo tra i luoghi, la barra del nastro trasportatore.
L’immaginario a cui Scotto di Luzio attinge, da sempre, è il paesaggio, inteso come combinazione di vissuto personale, culturale e politico dell’uomo. “Cos’è la realtà in cui siamo immersi?” chiede l’artista. “Viviamo nella società bombardata dalle immagini, e se uno toglie ciò che è da ciò che fa, si rende conto che la realtà è fatta di oggetti freddi, carte del bancomat, supermercati, buste della spesa. Bisogna allora compiere un atto di sincerità e fare entrare queste cose nel proprio mondo poetico.” L’artista deve ribellarsi alla rappresentazione della realtà, che possiede sempre un aspetto di verità per certi versi imposto dal sistema e dai media. Quelli sono in grado di offrire un’immagine ambigua, che porta con sé momenti di sospensione e drammaticità. Appare più urgente oggi, rispetto alle opere del passato, la volontà di rimuovere filtri, di diminuire la distanza tra se e la realtà, di asciugare l’iconografia per offrire allo sguardo qualcosa di più vero, “senza pudicizia”.
Nella primavera del 2014, in occasione di una mostra organizzata da un collettivo indipendente a Roma, Scotto di Luzio presentava il lavoro Lorenzo vive (2014), una gigantografia del proprio ritratto funebre dalla grafica esplicitamente nostalgico fascista. Posizionato sopra un ponte, visibile dalla strada, mimetizzato nel paesaggio, il lavoro innescava una serie di riflessioni: l’ambiguità del suo linguaggio ne metteva in crisi il messaggio, impedendone il consumo mentre la natura dubitativa rafforzava la valenza dialettica dell’immagine.
Nell’autunno del 2015, in occasione di un progetto sul tema dell’abbondanza – il titolo dell’iniziativa a cura di Achille Bonino Oliva era “L’albero della cuccagna. I nutrimenti dell’arte” – Scotto di Luzio realizzava presso la nuova project room della Fondazione Morra Greco in collaborazione con il Museo Madre di Napoli, l’installazione Pane al pane (2015). Ispirato dalla richiesta curatoriale, che invitava gli artisti a soffermarsi sul potere immaginifico, popolare e rituale dell’arte, l’artista ha creato una fontana di vino. Grazie a un articolato sistema idraulico, l’installazione raccoglieva in una vasca sottostante vino sgorgato dall’alto. Una sorta di miracolo.
Nel suo lavoro Scotto di Luzio riflette sulla crisi del linguaggio nell’arte e nelle forme della rappresentazione. Chiamando in causa l’artista e il suo ruolo, cita non a caso due maestri dell’interpretazione del cinema, del teatro e dell’improvvisazione come Carmelo Bene e Buster Keaton. Tra le dichiarazioni che cita più frequentemente si trova una frase di Bene che, a proposito di Keaton, diceva: “Immaginando la terra come una sfera dalla superficie ricoperta di sapone è chiaro che non si possa fare a meno di scivolare”. Le sue opere appaiono come dei tentativi di pratica d’inettitudine, ma che si rivelano atti di rivolta contro la storia.
Per Scotto di Luzio l’artista non è un inetto o un antieroe, non è neppure chiamato a dare risposte: egli offre immagini paradossali, allegoriche, aperte, metafisiche, ritualizzati, grottesche. In questa sorta di presunta mancanza di convinzione, di cancellazione o abbassamento del contenuto trasmesso – in realtà poi sconfessata dalla lucidità del pensiero, dalla complessa e articolata costruzione dei riferimenti di un immaginario ricco e colto – si assiste, da una parte, alla totale libertà dell’agire, che in un quello spazio trova le condizioni per delle possibili risposte, e dall’altra alla riscoperta del valore etico della prassi artistica, in un lavoro che coniuga radicalità e antidisciplina. Un artista sa davvero cosa stia facendo realmente o è bene che egli stesso ignori ciò che fa? Per Scotto di Luzio sembra non essere importante rispondere a questa domanda, ma comunque porsela.