Francesca Boenzi: A proposito del lavoro di un artista si parla oggi molto spesso di “progetto”. La produzione è legata all’utilizzo di una gran quantità di informazioni e fonti da citare, manipolare, interpretare. Ne consegue che spesso ci si interroga di più su tutto ciò che è preliminare alla realizzazione di singole opere che sulla modalità del lavoro in sé. Nel tuo lavoro trovo invece che ci sia un rapporto molto diretto e immediato con il fare, che fa sì che ideazione e produzione coincidano…
Lorenzo Scotto di Luzio: Credo che convenga essere molto naturali nel lavoro, in pratica seguire un proprio “flusso” e non farsi prendere troppo dai ragionamenti. In generale mi chiedo di quale esperienza io possa essere portatore. Per questo cerco di lavorare su ciò che conosco, su ciò che ritengo faccia parte della mia sensibilità, e sento che questo avviene anche grazie a un certo gusto per l’improvvisazione. Si comincia su una strada e poco dopo scopri che quello che stai per fare può avere un’applicazione diversa e che quello che avevi immaginato in partenza è già superato. Mi sento più a mio agio nel fare ciò che so fare: incollare, tagliare, avvitare, un lavoro molto fisico insomma, fatto di materiali e di oggetti, di ore trascorse in studio, dove posso gestire il lavoro dall’inizio alla fine. La parola “progetto” confesso che mi mette un po’ d’ansia, mi fa pensare a una qualche forma di premeditazione. Nel lavoro, invece, una cosa tira l’altra. Penso che ogni volta che il cervello approva, il rischio è che il risultato sia debole o didascalico. C’è un’altra intelligenza che ha invece a che fare con il corpo, un rapporto di empatia con la materia, che fa del pensiero una sola cosa con l’oggetto che hai davanti. Il mio rapporto con le cose è da neofita e forse vado avanti per suggestioni. Come un pittore impressionista che se ne va in giro a dipingere i suoi paesaggi, anche i miei lavori nascono da impressioni o sono degli appunti sul paesaggio che ci circonda.
FB: Cosa intendi quando parli di paesaggio?
LSdL: Per me non è altro che quello che conosco da sempre, dove sono cresciuto, fatto di spiagge, di costruzioni abusive e di assurde barriere messe lì a delimitare proprietà: cancellate, muretti in cemento armato, strutture in alluminio anodizzato. Il solito repertorio insomma. Il paesaggio è espressione della visione politica e culturale di chi, nel nostro caso, lo ha trasformato, depredato, sfruttato. Una certa retorica del brutto, quell’elogio della periferia dalla struggente e decadente bellezza, mi ha sempre infastidito. I miei lavori nascono dalla frequentazione di questo contesto, gli oggetti che raccolgo diventano espressione di un mondo perduto, appartenuti a un’età dell’oro di cui si è persa ogni traccia. Li osservo, li studio, cerco di capirne il significato, di ristabilire le possibili relazioni simboliche che potrebbero legarli gli uni agli altri.
FB: Utilizzi materiali come la plastilina o i capelli per “riprodurre” elastici, ruote di bicicletta, i guanti da cucina o i mandala. Queste opere hanno tempi di lavorazione lunghi e richiedono un grande controllo formale, ribaltando i tempi e i modi degli originali a cui si riferiscono. Mi parli di questo processo e del ruolo della mimesi nel tuo lavoro?
LSdL: Questi lavori in particolare hanno molto a che fare con un’idea di mimetismo, ma forse sarebbe più corretto parlare di pantomime, cioè di oggetti che agiscono nel tentativo di sostituirsi al reale e in questo tentativo si rivelano mendaci. Stanno lì nella speranza che nessuno si accorga di loro, facendo finta di essere ciò che non sono. Sono, in altre parole, una pantomima del dramma, una messa in scena della retorica sull’oggetto ritrovato. Sono dei falsi ready made. Penso che questa lettura valga anche per il processo che sottende la realizzazione di queste opere, ovvero un lungo lavoro artigianale che richiede molta pazienza, il contrario appunto di un’idea seriale.
FB: Il fatto che parli di pantomima mi fa pensare immediatamente anche alle tue macchine. Anche qui il meccanismo che le muove è frutto di una laboriosa lavorazione. Che valore ha in questi lavori la riproduzione del gesto, del suono, dell’azione? E qual è il ruolo che assume l’elemento incerto, l’errore?
LSdL: Sì, i lavori di cui stiamo parlando sono tutti, in qualche modo, sovrapponibili. Credo si possano considerare come dei reperti che agiscono secondo leggi sconosciute. Una macchina di solito serve per accelerare, moltiplicare, potenziare ciò che altrimenti andrebbe fatto dall’uomo. Qui ci troviamo di fronte a qualcosa che fa esattamente il contrario: sbaglia, rallenta, si rompe. Come se ci fosse stata un’epoca storica in cui l’avanzata tecnologica dell’uomo avesse conosciuto una battuta d’arresto e avesse lasciato spazio a questi tentativi di terza categoria, frutto di un lavoro fatto a memoria, di materiali ritrovati, nell’affannosa ricerca di un modello di riferimento di cui si è persa traccia. Il lavoro della macchina che scrive, per esempio, celebra la complessità della scrittura in corsivo. La meccanica di queste sculture è ottenuta per deduzione, attraverso innumerevoli tentativi. Il loro andamento è fallace, la loro attività continua imperterrita a reiterare l’idea dell’umanità che le ha concepite, anche dopo essere state abbandonate a se stesse.
FB: A proposito di mimesi, vorrei chiederti anche dell’opera Lorenzo Scotto di Luzio interpreta Luigi Tenco (2002). Su quali elementi hai lavorato? Qual è il rapporto, o lo scarto, tra la rappresentazione del personaggio e l’interpretazione di un contesto più ampio?
LSdL: Anche in questo caso ci troviamo di fronte a una pantomima. Non solo la mia nel vestire i panni del cantautore, ma anche quella di un contesto culturale. La figura di Tenco si prestava particolarmente, poiché ritengo che, di tutti i cantautori dell’epoca, la sua personalità fosse tra quelle che si avvicinavano di più ai problemi legati al rapporto tra artista e società e a tutti i conflitti che da questo rapporto derivano. Ho creato così un disco in vinile, vale a dire un oggetto mimetico suscettibile di essere effettivamente scambiato per un oggetto dell’epoca, con le copertine, la grafica… Anche la registrazione della mia voce e degli arrangiamenti musicali è passata su nastro magnetico per rendere la qualità del suono più somigliante a quella di allora. Il mio intento però non era nostalgico o celebrativo: guardando al mondo di allora, a Pasolini in TV, a Tenco e al contesto culturale dell’epoca, la drammatica constatazione che ne consegue è che nel nostro paese certe contraddizioni sono rimaste irrisolte, per trascinarsi sempre uguali a se stesse, senza contare che in certi casi si sono persino acuite; abbiamo cioè fatto dei passi indietro. Il lavoro parla proprio di questo “trascinamento”, del riproporsi sempre uguale degli stessi valori, delle stesse ipocrisie, dello stesso vecchiume che torna mascherato da nuovo.
FB: Penso che l’immobilismo culturale derivi dal fatto che ci muoviamo sempre in contesti protetti, tra immagini rassicuranti, che agiscono come strutture di controllo e conservazione. Il problema è: come reagisce l’artista, l’intellettuale? Una delle possibilità può essere andare a inserire all’interno di questi ambiti un elemento di disturbo. Questa riflessione mi ha fatto pensare ad alcuni tuoi lavori come Tableaux Vivants (2007) o Non credo che ci voglia granché per diventare un pagliaccio bugiardo (2007). Pensi sia pertinente questo collegamento? Qual è l’intenzione di questi lavori?
LSdL: Quando ho visto per la prima volta i video di Harald Thys e Jos de Gruyter mi sono detto: “Cavolo! Questi sono due geni!”. Questo è quello che avrei voluto fare con Tableaux Vivants. I due lavori che hai appena citato penso siano tra quelli meno riusciti. Non penso ci voglia granché per diventare un pagliaccio bugiardo (di cui mi piaceva molto il titolo) è poco più di uno sketch comico; Tableaux Vivants invece è stato un progetto un po’ ambizioso, e voleva essere una riflessione sulla violenza in chiave estetica, forse in polemica con la città e il museo che mi ospitava ma (ahimè!) il risultato finale non aveva la profondità necessaria per dare forza a quella che consideravo una buona idea di partenza. Come ti dicevo prima, quando il cervello approva non è detto che tutto il resto funzioni. Ci vuole sempre qualcosa in più. Il “fallimento” di un lavoro si verifica, a mio avviso, proprio quando ci si muove nella direzione di cui parli: cioè, mettersi alla ricerca di una contrapposizione, pensare che ci sia un mondo da salvare. La pratica situazionista a cui possiamo ricondurre queste idee, ovvero inserire elementi di disturbo all’interno di sistemi simbolici consolidati e repressivi (o depressivi), esaurisce la sua capacità dirompente quando la vediamo incontrarsi con l’enormità della società spettacolare nella sua totalità. Non è un caso che molti tra coloro che hanno fatto parte dell’“ala creativa” del movimento degli anni Settanta lavori oggi in televisione. La società dello spettacolo è in grado di digerire qualsiasi cosa, di strumentalizzare tutto. Per rispondere alla tua domanda penso che un intellettuale o un artista possa reagire a tutto questo cercando semplicemente di fare il suo lavoro, sviluppando una sua strategia personale per mettersi al riparo da tutto questo.