Se si potesse racchiudere in una definizione la pratica artistica di Luca Frei mutuando dei termini da altri ambiti culturali, si potrebbe parlare di “narrativa sincopata”. Così come la sincope è una pausa, un vuoto, tra due note musicali, il modo di operare del giovane artista svizzero sembra prevedere che ogni lavoro sia un diverso momento di una narrazione fatta di immagini, parole, spazi e architetture indipendenti tra loro ma che allo stesso tempo rappresentano frammenti di un discorso più ampio. Ognuno di questi frammenti — una scultura, un’installazione, una scritta al neon, un ambiente — va sempre letto in relazione con l’altro; nel passaggio tra loro “accadono” dei momenti vuoti, delle pause, delle sincopi appunto, che chiedono in qualche modo di essere riempite dallo spettatore che si muove tra esse. Che si tratti infatti di testi, di strutture architettoniche o di display ed exhibition settings, le opere di Luca Frei hanno in comune una necessaria e imprescindibile relazione con lo spettatore che le attiva o le completa.
Non si tratta mai di un’interazione forzata ma piuttosto di un’offerta, una richiesta di dialogo che si apre a molteplici possibilità di lettura, senza la pretesa che l’opera rappresenti per chi l’osserva, l’ascolta, la tocca o la “abita” un significato stabilito a priori. In qualche occasione questo processo di interazione è più esplicito, tanto che l’opera esiste al servizio di chi la utilizza, come avviene in Bookshelves Form & Content (2009). All’interno del progetto “It’s not for reading. It’s for making”, organizzato dal project space FormContent di Londra e nel quale trenta tra artisti, curatori, critici e scrittori sono stati invitati a mettere a disposizione una loro piccola selezione di libri e pubblicazioni, Frei ha creato un sistema di scaffalatura che oltre a modulare lo spazio architettonico ospita e rende possibile la consultazione di questo archivio aperto. In altre circostanze, l’azione del pubblico diventa quasi un processo di “co-autorialità” del lavoro: in Space Jockeys (2002), un proiettore di lucidi è poggiato su un tavolo sul quale sono collocati diversi fogli trasparenti e colorati e altri oggetti che invitano lo spettatore a creare, attraverso la propria ri-costruzione, un personale punto di vista.
A volte la richiesta di partecipazione si fa meno immediata e più sottile, come nelle scritte al neon, o più propriamente fisica, tanto da rivendicare un engagement forte, come nel caso delle opere più scultoree e dello spazio che le ospita.
Untitled (Gaps) (2008) è una scultura composta da 27 cubi bianchi. Nella sua disposizione invita lo spettatore a girarci intorno e a seguire i giochi di apertura e chiusura suggeriti dall’accostamento dei cubi che a volte permettono di vedere dall’altra parte, altre volte impediscono la vista. In Untitled (Floor Piece) (2008) delle strisce di carta di seta sono posate sul pavimento. Esse alludono, sia pure nella loro piatta bidimensionalità, a delle pareti che costruiscono un’ipotetica e aleatoria suddivisione dello spazio circostante e che, grazie alla natura stessa dell’oggetto, si spostano al passaggio dello spettatore. Come in Brilliant Corners (2008), che nelle parole dell’artista è “un lavoro pensato come una parete che si piega, si curva, si spiega e si ribella, una parete che smette d’essere parete per aprire nuovi spazi, sia fisici che mentali”, è la parete a rappresentare fisicamente e metaforicamente la creazione di spazi che chiudono e che aprono, che dividono e uniscono, e che instradano lo spettatore verso un processo di consapevolezza dello spazio e del proprio io in relazione a esso.