Samuele Menin: Come nasce di solito un tuo lavoro?
Luca Monterastelli: Inizio col sacrificare le idee non necessarie alla ricerca: in principio mi sembrava un comportamento innaturale, data la valenza che l’ideologia corrente dà alle idee. Con la pratica sono diventato più crudele e ho cominciato a scartarne a decine senza paura che potessero valere qualcosa; ho perfino smesso di annotarle. In pratica ho imparato a dimenticare. Come scultore la ricerca sfiora sempre dei temi comuni a tutti noi: il peso, la trasferibilità della nostra energia su un corpo oggettuale, la percezione delle tre dimensioni, il rapporto tra superficie e massa. Se un’idea non mi è utile a eviscerare almeno uno di questi corpi non ci perdo tempo.
SM: Narrami la genesi di Glory Hole, è un tuo lavoro che mi incuriosisce molto.
LM: Glory Hole viene da una lunga gestazione iniziata a Marsiglia, dove ero allora in residenza. Trovai per strada questo vaso che iniziò da subito a ossessionarmi. Allora non ho fatto altro che concentrarmi su esso e lasciare affiorare le domande che la mia curiosità proponeva. Sono sempre stato interessato alla somma di esperienze umane che porta a ogni definizione formale che oramai diamo per scontata. Di solito si può risalire fino al momento in cui qualche parte umana, già funzionale allo scopo, viene tradotta in un materiale altero alla carne: è così che immagino la genetica degli oggetti. Questi non hanno una storia univoca: il vaso, per esempio, può essere figlio di tantissime probabilità come la forma delle mani chiuse a coppa, con i pollici portati sugli indici, un nostro contenitore naturale; oppure può derivare da un contenitore più nobile come il ventre materno. Entrambi servivano a preservare una cosa sacra, la vita e il necessario per mantenerla: mi sono detto che proprio per questo il suo interno inaccessibile crea una curiosità reverente. Ho notato che le veneri steatopigie hanno molto in comune con la morbidezza obesa del vaso. Ho immaginato quanto si somigliasse la loro forza di custodi, di quanto precludessero il loro contenuto come parte non accettabile dal nostro sguardo: l’interno è sempre sacro. Ho pensato, proprio in nome di quella forza contraddicente di cui ti ho parlato, a un gesto molto semplice: ribaltare il piano di visione, mettendo a contatto il nostro occhio con l’interno oscuro del vaso sorretto da una cintura femminile. È stato come offrire gli orifizi della Venere madre all’occhio violentatore di una folla, da cui il titolo condiviso con una pratica sessuale che consiste nel fare sesso anonimo tramite dei fori praticati nelle pareti.
SM: Cosa ricerchi con la commistione di materiali di diversa natura?
LM: Non credo che nel mio lavoro la diversità dei materiali valga molto, la materia è materia. La forza decostruente, a cui mi appoggio sempre, tende a mortificare il concetto stesso di materiale. La sua storia, i suoi usi, non importano granché se immaginiamo tutto come massa distesa nel tempo: tutto è “congelato” e a uno stato di omogeneità immobile. Ecco perché utilizzo così spesso il gesso; è un materiale sciocco, banale, facile da utilizzare e veloce di resa; poi è presente da sempre nella Storia dell’Arte senza mai diventare protagonista. La sua storia è quella di una presenza qualunque.
SM: La scultura, personalmente, mi ha posto sempre il quesito “del lato migliore”. Affronti mai questo aspetto dei tuoi lavori ragionando sul loro “lato migliore”?
LM: Al contrario, cerco sempre di nascondere il loro “lato migliore”. In una delle mie prime sculture volevo ingenuamente affrontare, e chiudere, la decostruzione di quest’atteggiamento occidentale: la sua frontalità era negata, girata verso il muro e nascosta a tutti. Poi, con lo studio, ho trovato soluzioni più fini a un problema che ho scoperto più complesso, ma devo ammettere che quel gesto si è rivelato piuttosto efficace come inizio di ricerca. Parte della mia formazione accademica è passata da Carl Einstein, dove proprio la questione dell’effetto era centrale. L’arte su cui stiamo ragionando viene proprio dai primi esperimenti che riconsideravano i secoli di storia in cui il punto di vista regale era il fondamento della scultura. La storia recente ha portato moltissimi artisti con una sensibilità pittorica a un avvicinamento alla scultura, facendo nascere lavori fondamentali, ma anche al ritorno dell’egemonia di un “lato” nella costruzione del lavoro, proprio perché la considerazione del punto di vista nel mondo pittorico non può che essere secondaria.
SM: Che rapporto cerchi di instaurare tra le tue opere e lo spazio “contenitore”, in cui le esponi?
LM: Solo qualche anno fa ero estremamente attento al luogo che mi avrebbe accolto: penso si trattasse ancora di qualche germe residuo dell’accademia. Dopo gli ultimi anni, in cui ho cambiato spessissimo città e studio, le cose sono cambiate. Era impossibile, per la brevità di soggiorno, arrivare alla stessa buona confidenza che si può avere confrontandosi con uno studio stabile. Per questo ho iniziato a considerare l’opera astraendola dallo spazio, facendo attenzione all’architettura, ma solo per limitarne il più possibile l’autorità. Ultimamente sto studiando un metodo installativo che potrebbe suonare, per molti aspetti, decisamente fuori tempo. La prima volta l’ho provato durante “Senza Titolo” da Lia Rumma a Napoli, e mi ha subito convinto, tanto da ripresentarlo immediatamente per “White — Endlessly Rocking” in Viafarini: mi concedo delle simmetrie, installo con il metro e cerco di limitare il più possibile la mia sensibilità nell’allestimento. Può sembrare assurdo, ma credo che, tornando alla questione che hai definito “del lato migliore” sia un modo per limitare un’impostazione estetica che ereditiamo inquinata.
SM: Al primo sguardo tutte le tue opere mi danno un senso di “fluidità”…
LM: Ne sono felice. Penso sia data da quest’idea per cui immagino un corpo (non per forza umano, un qualsiasi corpo fisico) che cade perpetuamente nel vuoto. Esso non può fare altro che aggrapparsi a sé stesso, creando a sua volta un movimento interno differente dal suo stato di cadente. Questo doppio movimento, la caduta, in cui la forza di gravità è percepibile, e il disperato tentativo di appigliarsi a sé stesso, deforma le fattezze iniziali e lo trasformano in una poltiglia, in qualcosa che compie uno sforzo inutile perché relativo unicamente a sé stesso.
SM: Ci sono delle forme che pensi ritornino più spesso? Quali? Perché? Ad esempio mi sembra che ritorni spesso il tema della “Colonna”…
LM: Ci sono lavori che nascono, come ho già detto, dalla stessa costola di un’unica massa iniziale. Per questo sono percepibili certe assonanze. Più in generale, ci sono forme utili che devono fare parte di un certo tipo di ricerca: credo che i principi di empatia nell’architettura individuati nel secolo scorso siano validi anche per la diversissima scultura. Per esempio: noi lottiamo costantemente contro l’attrazione terrestre, a una mancanza della nostra resistenza corrisponde una caduta. I nostri edifici hanno la stessa struttura, di cui abbiamo un’esperienza che resiste alle forze di attrazione, del nostro corpo. Quando parto da una colonna, allora, è perché voglio partire da una forma che sia uno dei principi che tento di decostruire. Le colonne di “White — Endlessly Rocking” erano prolisse e inutili, perché non reggevano che il loro peso, aggravato dalla maldestra decorazione in gesso che le ricopriva.
SM: Alcuni titoli di tue opere comunicano l’idea di un atto performativo (ad esempio : load, : swerve, : stand, : lunge, ecc..). È forse legato al valore che dai all’atto realizzativo?
LM: Giusto. Non sempre ci si pensa ma il mio tipo di scultura richiede un forte dispendio fisico. Spesso mi trovo ad avere a che fare con cose che riesco a malapena a gestire: sia per il peso sia per dimensione. Questo porta una memoria visiva sul pezzo finale: non mi curo di eliminare le varie disavventure che io e il pezzo viviamo prima di distaccarci. A volte mi sembra veramente di affrontare un corpo a corpo da cui non sempre esco vittorioso. Il titolo, per non essere solo aggettivo al lavoro, deve ricalcare gli stessi verbi da cui il lavoro è passato. Quei lavori sono nati pensando al disegno delle armi; non avevo considerato la loro reale capacità offensiva finché non ho terminato i primi. Lo studio precedente a questo era minuscolo, ne sono uscito orrendamente tagliuzzato, ma ne è valsa la pena. La spesa corporale è un aspetto che mi affascina, che rimane. Penso che sia l’unico modo di dare una carnalità alla scultura che non sia solo simbolo della carne, ma la memoria di questa.