Questa intervista, apparsa su Flash Art n. 151 nel 1989, fu realizzata in occasione della retrospettiva di Luciano Fabro al Castello di Rivoli. Francesca Pasini aveva incontrato l’artista poco prima dell’inaugurazione.
Luciano Fabro: Questi anni Ottanta sono fatti di percorsi solitari e grandi mostre, cose pubbliche, installazioni, reinstallazioni. Ripetizioni di gesti. Montare, rimontare… vorrei mostrare le opere in maniera meno storica: sparse. Anche per rompere l’ordine, per sfuggire allo spazio ritmato del Castello. Sarà un percorso centrato sulle opere degli ultimi sei, sette anni: una specie di contro-copertina alla mostra del PAC a Milano nel 1980; quella è stata la mia mostra storica e anche una delle prime della mia generazione. Allora avevo avuto grandi polemiche, anche con amici: non erano d’accordo sull’idea di storicizzare, si puntava sull’installazione; poi è cominciata, un po’ malamente, a Colonia, quella sull’Arte Povera, una specie di prova che passerà a Torino alla Mole. C’è stato un abbassamento della guardia rispetto alla difesa di un’etichetta che si era costituita nel decennio precedente. Prima non avremmo mai accettato questo discorso di mostre. A un certo punto abbiamo pensato che non era più un elemento di discussione e, inoltre, il termine Arte Povera, avendo perso dopo 10-15 anni il suo valore di contenuto, si è ridotto a quello che io chiamo un’etichetta generazionale.
Francesca Pasini: È venuta meno la carica di attrazione di una storia?
LF: Il problema è che la carica non sta più nella storia, ne è rimasto il peso, i sapori, gli odori, il corpo, ma quello che sta cucendo il dramma è che questa non è una corporeità di facile dialogo. Si contrappone perfino allo stesso autore, crea, quindi, una difficoltà interiore. Per molti anni abbiamo pensato di raggiungere una comunicazione interiore attraverso l’organizzazione di quella esterna. Ma se pensiamo che la cosa va invertita, e che solo dall’interiorità possiamo arrivare a prendere l’esterno, allora questo mette in discussione tutto il modo di operare, perfino allo stesso autore, crea, quindi, una difficoltà interiore attraverso l’organizzazione di quella esterna. Ma se pensiamo che la cosa va invertita, e che solo dall’interiorità possiamo arrivare a prendere l’esterno, allora questo mette in discussione tutto il modo di operare, perfino la questione tecnica. La tecnica, infatti, è un problema che nasce tra sé e l’esterno.
FP: Nella teoria della differenza sessuale elaborata da Luce Irigaray emerge un salto molto importante sulla questione dell’identità. Riconoscere la differenza sessuale significa riuscire a pensare alla presenza di due soggetti che, in quanto sessuati, parlano anche due linguaggi di identità differenti. Le donne, e molti settori del sapere teorico misto, stanno ragionando su come dare vita alla pratica di differenza. Se teniamo conto di quanto sia determinante la creatività per definire la propria identità, può essere interessante cominciare ad avvicinare questa posizione teorica alla creatività che si esprime nell’arte.
LF: Se restiamo al tema dell’identità dell’artista, allora io dico che questa è un dato di fatto, un postulato. Quando uno decide di fare l’artista deve avere un senso dell’identità molto chiaro, distinto, attivo. Non può neppure essere indifferente, perché altrimenti non fa l’artista, fa qualcos’altro. Quello che ti stavo dicendo è che prima gli strumenti attraverso cui si organizzava questa identità erano rivolti all’esterno: data l’identità, uno andava a bottega, imparava a usare lo scalpello, il pennello, studiava un libro, imparava una poesia… Strumenti dell’esterno che usava. Ora l’inversione del lavoro deve partire dal produrre gli strumenti e i materiali all’interno di se stessi.
FP: Secondo te, l’artista ha sempre operato così o è una situazione specifica dell’oggi?
LF: No, non era così, è una condizione che si sta verificando ora. Prima potevo dire “quello è un martello”, lo vedevo, usavo la mano, lo provavo, se sbagliavo mi spaccavo un dito… Una pratica che si avvaleva di miliardi di anni di esperienza. Ma ora come posso “strumentalizzare” l’esperienza interiore? Come creare gli strumenti interiori che ci permettono di lavorare sull’esterno? Non vuol dire strumentalizzare l’interiorità, ma riconoscere che è necessario costruire i suoi strumenti.
FP: È per questo che ho alluso a Irigaray, perché nella teoria della differenza sessuale io ho trovato uno strumento per la mia interiorità. Certo c’è stato anche Freud… ma mi pare che lì ci sia un passaggio diverso.
LF: Credo che questa cultura dell’interiorizzazione, che è poi la cultura di tutto questo secolo, abbia fatto il suo corso. Non si tratta più di guardare dentro di sé…
FP: Ma di essere dentro di sé!
LF: Ecco, questo è il problema: essere dentro di sé e da dentro, in santa pace, creare gli strumenti per andare fuori, nel mondo. Tutto è stato fagocitato; ora questo stomaco si è messo a bollire per i cavoli suoi e questo ha prodotto i problemi che abbiamo, ivi compreso quello della perdita del senso d’identità. Allora, sempre partendo dal presupposto di questo dato incontrovertibile dell’identità, potremmo dire da questa autosentenza d’identità, penso che l’obiettivo dell’artista oggi sia quello di costruire gli strumenti interiori perché possa accadere dall’esterno. Quando lavoro invento un martello, una lima… costruisco un piatto che può essere usato, una statua bella da vedere, ecc. Nello stesso modo, usando il martello, il marmo, il colore a olio interiori, devo costruire una cosa che tu usi all’esterno, o che ti piace, o che godi e che anch’io godo. Questo darà alle opere dei corollari, degli elementi costitutivi molto diversi dal passato, proprio perché si realizza un’inversione della strumentazione. Capisco che è un discorso nebuloso, quasi medianico, che quindi non ha dati d’archivio, ma penso che già si possa intravederlo nel lavoro.
FP: In che senso?
LF: La parte esterna, meccanica, con cui i lavori prendono corpo è estremamente secondaria, quasi inavvertibile.
FP: Facciamo un esempio.
LF: Prendiamo la mostra di Basilea da Elisabeth Kaufmann: il marmo sembra piegato per conto suo — anche se c’è quello che l’ha scalpellato — ma è un po’ come se fosse già piegato da prima. Ecco, anche solo dire “sembra piegato per conto suo” toglie epifania al lavoro. Quando vedi i Piedi di vent’anni fa senti la plasticità, vedi che è stato scalpellato, si percepisce un lavoro esterno che ha trasformato questo materiale in qualcosa di più elevato. Per capirci: prendiamo Le lenzuola. Sono fatte di un gesto, eppure anche quel minimo gesto è dichiarato. I trobadori hanno un che di oggetto trovato, anche se si vede che non è così.
FP: Prima dicevi che la carica non sta più nella storia, allora, in base a quanto hai appena detto, possiamo affermare che la carica sta nel rapporto?
LF: Purtroppo no. Tutto finora è stato dato dal rapporto: interno/esterno, maschile/ femminile, spazio/tempo, luce/ombra… Anzi, è proprio la caduta di quest’energia che ci ha portati alla crisi. Non possiamo contare né sui rapporti né sui principi tradizionali di causa, ragione, progresso… Con questo non voglio dire di aver perso la nostalgia o un’eventuale, ulteriore, fiducia per creare un’energia di rapporto, ma non credo che questo sia l’obiettivo principale. Potremo aprire un rapporto solo quando avremo risolto l’inversione della risoluzione. Certo è contraddittorio perché dobbiamo costruire gli strumenti in ragione del rapporto, pur non essendo dato.
FP: Allora ho ragione quando dico: “la carica sta nel rapporto”, nel senso che è ciò di cui dobbiamo occuparci.
LF: Diciamo che adesso dobbiamo costruire la macchina, la quale poi produrrà rapporto. Per fare questo possiamo contare solo sull’energia interiore, che è propria dell’identità. Ma qui si apre la contraddizione perché finora non si è lavorato sull’identità come a priori, ma sulla crisi dell’identità: è questo che è diventato un a priori. Riuscire a costruire oggi delle opere di identità corrisponde alla capacità di lavorare dentro questa crisi dell’identità.
FP: Allora, se prima l’opera mi portava, anche tramite il suo artefice, in luoghi sconosciuti, e questo era comunque una forma di rapporto e di conoscenza…
LF: …e questa è l’opera tradizionale…
FP: Certo. Se ora invece la intendessimo come luogo di attrazione, come un terzo rispetto a te che la fai, a me che la vedo, e rispetto a se stessa e le altre opere, io non sarei più portata a un processo di conoscenza evolutiva, ma a misurarmi con la mia attrazione creativa. Quindi verrebbe meno l’aspetto sciamanico di qualcuno che ti porta in un altrove esterno, ma ci sarebbe un essere (l’opera) che mi costringe a guardare dentro le mie esigenze d’identità.
LF: Sì.
FP: Questa è una svolta copernicana, non c’è mai stata prima? Né in Tiziano né in Duchamp?
LF: No, come struttura di linguaggio no, come contenuto forse sì.
FP: E rispetto alla tua storia personale e di artista cosa significa?
LF: È un momento molto buio e paradossalmente molto affascinante. Non ho niente da dimostrare, non sono garantito da niente, però continuo a volere e qualcosa succede. È questo che mi ha permesso di lavorare e, nonostante questo buio, i lavori non hanno niente di scettico, di depresso, di angosciante.
FP: Se dovessi confrontare un lavoro storico come l’Italia d’oro con uno di oggi quali sono le differenze?
LF: Nell’Italia d’oro c’era l’inversione di un’abitudine nel guardare una forma, ma si vede anche la chiarezza con cui è fatta, pur nella sua doppiezza, come immagine chiara…
FP: È tradizionalmente politica.
LF: Ma non era il mio discorso di allora, sapevo che era anche questo ma potevo negarlo e lo posso fare anche ora. C’è un groviglio di pensieri che possono essere letti sotto vari tagli; ma un cappio sappiamo cos’è, l’Italia è l’Italia, se la voltiamo è una cosa capovolta, il materiale è limpido, di puro impatto, non c’è dubbio che l’oro è l’oro. Ne I trobadori (la mostra di Basilea) il marmo è bello ma in genere il marmo non è così: tutto analiticamente inconsistente, mentre prima magari non era rassicurante, ma analiticamente teneva.
FP: Per questo ancora oggi puoi negare l’aggettivo politico?
LF: Poteva essere quello e anche no, tanto che tu puoi dire una cosa e io risponderti “non è vero”. Ma, sostanzialmente, hai ragione anche tu. La mia è una posizione interpretativa e in quanto tale può concordare o no con la tua. Ne I trobadori non c’è spazio per uno scambio interpretativo, anche se c’è la presenza dell’opera. E già in quel Nudo che scende le scale che hai visto a Nimes si percepisce questo scarto, e in quelli di ferro, di Basilea, ancora di più.
FP: E Effimero — intendo quello che hai esposto da Stein, su cui ho individuato la presenza di un tuo motivo-firma — che relazioni ha con il passaggio all’interiorità?
LF: Lo si può intendere come motivo firma in quanto è il mio atavico rifiuto della linea retta, per cui tutto finisce per curvarsi. È presente fin dai primi lavori, Ruota: un rotolamento, vien fuori una pendenza. Anche per la croce è una cosa analoga. La linea retta è nella testa, ma di fatto spontaneamente non riesce, c’è sempre una cosa che pesa e una che tende…
FP: Metaforicamente la possiamo usare come indizio di interiorità?
LF: Non mi prenderei questa libertà, mi sembra già di interpretare una cosa che ancora non so.
FP: Va bene, questa libertà me la prendo io!
LF: Tu puoi, io no. Io posso dire che è un mio arbitrio o la cosa che mi viene più naturale. La vedi anche in Arcobaleno, fisicamente, sensualmente lo percepisci come un arco più o meno regolare; ma quando lo traccio non è mai corrispondente: uno va più in su, l’altro pende di là. Solo nei musei, quando lo rimontano senza di me, lo fanno simmetrico. Quello “giusto”, “perfetto” però è il mio.
FP: L’arcobaleno che c’è nel lavoro La Casa di Melani e anche nella copertina di questo numero di Flash Art. È il tuo?
LF: No, no, quello è di Melani!
FP: Come è nato questo nuovo lavoro?
LF: Melani era un monaco dell’arte. Nel senso che a un certo punto della sua vita ha deciso di fare l’artista, si è ritirato in questa piccola casa che aveva a Pistoia, dove è rimasto fino a quando è morto, quattro anni fa. Ha fatto un lavoro notevole, più di 3.000 opere piccolissime. Da questo “buco”, da cui non si muoveva mai, guardava il mondo con molta intensità. Era un uomo anche difficile, è vissuto da solo frequentando pochissime persone, non si è mai sposato… e in questa concentrazione solitaria probabilmente lavorava su questa questione dell’interiorità. Al di là delle sue opere, che ho sempre amato e stimato, quello che mi interessa è che la sua decisione di artista ha caratteristiche emblematiche. Questo titolo, Casa di Melani, è legato al suo modo di costruire e abitare: la casa era lo spazio dell’arte, del lavoro, del pensiero.
FP: E quindi uno strumento di interiorità?
LF: Sì, Melani, da questo punto di vista, è per me un Manifesto.