L’individuo al centro dell’analisi è un soggetto piuttosto enigmatico. Di lei non si hanno molte informazioni, sicuramente nulla relativo ai dati anagrafici o a particolari segni fisici. Non sappiamo quanto sia alta o quanto pesi, se sia uomo o donna (forse nessuno dei due) e tantomeno come sia arrivata nella città che abita. Ciò che sappiamo dipende dalle scarse occasioni in cui abbiamo avuto modo di osservarla, prima che scomparisse nuovamente. La sua città è Monowe, una metropoli del futuro in cui vive da sola, come unica abitante. Fargli visita è impossibile in quanto il centro è situato in una dimensione parallela. Tuttavia, a volte, si apre un varco e un frammento di Monowe viene proiettato nelle nostre città, per un breve lasso di tempo. In queste occorrenze possiamo incontrare le architetture che la compongono, a un primo sguardo così simili alle nostre, nonostante nascondano una peculiarità: sono costruite per l’unica abitante, affinché sia il singolo ad assolverne le funzioni.
Monowe (2016 – in corso) è l’immaginaria città progettata da Ludovica Carbotta (1982, Torino; vive e lavora a Barcellona) per essere abitata da una sola persona. Il progetto costituisce dal 2016 uno specifico nucleo di ricerca parallelo all’ampia produzione dell’artista e si iscrive nell’ambito di quello che Carbotta ha definito “fictional site-specifity”, ossia una pratica di attivazione del contesto reale tramite scenari fittizi. Gli edifici di Monowe si manifestano all’interno dello spazio pubblico o di istituzioni museali come visioni, inserendosi in ambienti di cui rappresentano temporaneamente una versione altra. Nel suo modello di città utopica, l’artista radicalizza la condizione contemporanea di isolamento per poter esplorare le tensioni che animano l’individuo nel suo quotidiano rapportarsi con il tessuto urbano. Monowe incarna quindi il contesto ideale in cui i bisogni del singolo sono anteposti alle necessità di una comunità assente: la vera città a misura d’uomo. Al tempo stesso, la metropoli si configura come un regime di carcere duro in cui le politiche di sicurezza e autonomia sono giunte al parossismo. Attraverso l’esasperazione delle dinamiche di auto-esclusione Carbotta forza l’abitante a sperimentare un costante spostamento tra stato di quiete e crisi, costruendo uno spazio di rinegoziazione del sé. In questa breve indagine ritracciamo il percorso del cittadino attraverso i vari ambienti della città, leggendo i suoi conflitti come possibili dubbi da sottoporre alla nostra condizione.
Il primo capitolo prende forma nel 2016 a Bologna per ON, progetto di arte nello spazio pubblico, su due dei lati del Parco del Cavaticcio, proprio dove sarebbe dovuto sorgere un ponte di Aldo Rossi mai realizzato. Qui, con Monowe (entrance to the city), Carbotta presenta l’inizio dei lavori di costruzione della città: due strutture rivestite di plastica bianca – un ponteggio e una scala elicoidale – costituiscono gli estremi di un’ideale “passerella monca” d’accesso alla città. Una voce emessa da un’audio guida che completa l’installazione pronuncia parole persuasive: “Monowe, la città più esclusiva al mondo costruita per una sola persona, un luogo dove poter usufruire di ogni singola amenità possibile ad uso esclusivamente personale”.
L’invito è rivolto a candidati interessati a un periodo di residenza lussuosa e automatizzata per la quale è disponibile un unico posto: “Solo una persona diventerà cittadino di Monowe e quella persona potresti essere tu. Entra nel Club, Monowe è progettata per te.” Il tono subliminale da spot pubblicitario o da ekphrasis ammaliante rimanda a The Bird Island (2000) di Janice Kerbel, sito web di una fittizia isola caraibica per vacanza da sogno in cui tuttora incappano centinaia di utenti[i]. Il futuro residente parte per il suo “ritiro personale”, forse nel tentativo di nascondersi, di fuggire dalle responsabilità della comunità, richiudendosi in un bunker espanso. In Monowe (entrance to the city) il definitivo punto d’ingresso alla città è la scala verticale che si restringe progressivamente fino a permettere il passaggio di una sola persona, quasi fosse un monumento alla Terza Internazionale raddrizzato sotto le sferze dell’individualismo. La scalata apre le porte a una dimensione del sé totalizzante.
L’accesso alla città di Monowe, nella sua immaginaria conformazione strutturale di architettura d’isolamento, riparte da Scala Reale (2010), lavoro di Carbotta prodotto per la mostra “Terre Vulnerabili” all’Hangar Bicocca di Milano. L’installazione si presentava come una torretta spartana costruita con assi di legno inchiodate con un importante elemento processuale celato: la costruzione è stata realizzata dall’artista salendo progressivamente verso l’alto, man mano che la struttura andava a comporsi.
Ad ogni sezione aggiunta, Carbotta si allontana sempre più da terra, finendo imprigionata in cima. Il lavoro è già una sorta di sopralluogo nella futura condizione di isolamento, un metodo Stanislavskij attraverso il quale l’artista testa su se stessa le condizioni psicologiche e fisiche che scandiranno la vita dell’abitante. Scala Reale rientra infatti in una fase in cui l’artista inizia a prendere le misure sul proprio corpo e su architetture che si definiscono in rapporto a questo, rinchiudendolo, bloccandolo, isolandolo. Il corpo dell’artista è allora una sonda che esplora la sua relazione con scenari dati e artificiali, o la sua negazione rispetto ai medesimi, come nel video non definire la superficie (2011), in cui Carbotta compie una deriva attraverso Torino cercando di non proiettare la propria ombra sulla superficie. L’ombra è la traccia di cui l’artista prova a liberarsi per apparire invisibile, “togliendo anche il segno più inconsistente della propria presenza, un’immagine in negativo” ovvero “l’assenza della luce causata dalla presenza di un corpo sulla sua traiettoria”[ii]. Se l’artista non riesce comunque a scomparire nel video, nonostante la soggettiva della camera ci impedisca di scorgere l’autore, l’abitante di Monowe inizia proprio in questo momento la sua vita virtuale.
Monowe (the city museum) (2016) è il museo della città, presentato da Carbotta al Premio MAXXI di Roma del 2016, ispirandosi alle direttrici degli edifici precedenti alla struttura progettata da Zaha Hadid. La sua composizione fittizia lo inserisce nel solco tracciato da Marcel Broodthaers con il suo Musée d’Art Moderne, Département des Aigles (1968 – 1972)[iii] e, per la sua importante dose di inaccessibilità, dal MOMAS (1992 – 1997) di Marin Kippenberger. Quest’ultimo, acronimo di Museum of Modern Art Syros, aveva sede in un’abbandonata e incompleta struttura in cemento sull’isola greca di Syros e, per la sua posizione marginale, viene indicato da Katerina Gregos come il museo che ha forse registrato il minore afflusso di pubblico al mondo[iv].
Quello di Monowe è un museo esclusivo, più del MOMAS di Kippenberger: talmente esclusivo che il suo unico direttore, artista, curatore e allestitore ne è, al tempo stesso, il solo visitatore. Le sue sale, incorniciate da una scheletrica struttura bianca priva di pareti, ospitano sculture ispirate a opere di Henry Moore, Bruce Nauman, al Minimalismo e all’Arte povera. I capolavori della collezione non sono sacre e intoccabili creazioni autoriali, ma proiezioni tridimensionali di processi mentali e ricordi del singolo cittadino. Infatti l’abitante di Monowe, durante la performance, li sfiora, sposta e manipola, ritmando una lenta coreografia di alterazione e dispersione della memoria. Questa diventa una materia tattile necessaria per ristrutturare e riaffermare la propria presenza e per disegnare autonomamente uno spazio d’azione. Nel processo di rielaborazione e contraffazione della memoria da parte dell’abitante, Carbotta sembra espandere l’orizzonte di un altro lavoro precedente, The original is unfaithful to the translation (2015) dove l’artista riproduce su varie scale – dal modellino all’ambiente – le stanze in cui ha vissuto negli ultimi dieci anni, affidandosi unicamente alle mistificazioni della memoria.
L’abitazione è anche il tema centrale di Monowe (the residence, the lodge, the shelter) (2019), la casa del cittadino presentata alla Fondazione smART – polo dell’arte di Roma. In questo capitolo l’artista non ricostruisce completamente l’architettura, ne ruota di trenta gradi la pianta inserendo nuove pareti nell’appartamento che ospita la Fondazione, insieme agli interni della dimora immaginaria. Monowe (the residence, the lodge, the shelter) si pone come distillato essenziale del solipsismo di una città che ha esteso la dimensione privata su ogni sua singola declinazione. La casa diventa quindi un ulteriore rifugio dove conservare utensili che possano dar conforto in momenti di debolezza (gli oggetti ispirati al design erotico da impugnare per ricordarsi di avere un corpo); conservare la storia personale (le opere “trafugate” nel museo); rassicurare quando si è assaliti da crisi paranoico-persecutorie (il monocolo che allontana tutto ciò che viene visualizzato, rendendolo impercettibile).
Il museo e la casa di Monowe sono luoghi in cui avviene la costante riconferma della soggettività dell’abitante, come palindromi condannati a un eterno loop.
Dopo l’incontro dichiarato del cittadino con se stesso e la propria dimensione intima, Monowe (the terminal outpost) (2017) parrebbe condurre al momento di conflitto con l’altro, tanto atteso in ogni trama che si rispetti. L’installazione, presentata nello spazio pubblico alla Künstlerhaus di Graz, è costituita dall’avamposto militare della città. Sulla torretta l’abitante controlla all’orizzonte i confini, dovendo presto riconoscere il paradosso della sua mansione. Come per il sottotenente Giovanni Drogo de Il Deserto dei Tartari (Mondadori, Milano 1940) la sua attesa è vana: anche a Monowe il nemico non si presenta all’appuntamento e presto l’abitante abbandona la torre di controllo per non farci più ritorno.
La tappa successiva è conseguente: resosi conto di essere irrimediabilmente solo, l’abitante non può far altro che trovare il conflitto in se stesso.
All’interno della prima ricognizione del progetto Monowe, presentata ad aprile alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino in occasione della mostra personale di Carbotta, tra le strutture della città troviamo anche il tribunale.
Nell’aula di giustizia l’abitante è tormentato dal preventivo senso di colpa e da un’inebriante pulsione giustizialista, mentre assiste a un processo, tutto mentale, alle proprie intenzioni. In sé sono infatti assommati i ruoli di imputato e giudice, di difesa e accusa. La situazione porta a un’ulteriore stadio di schizofrenia la dinamica del detenuto nel Panopticon di Bentham. Nella prigione “ideale” progettata allo scadere del Diciottesimo secolo, com’è noto, il carcerato non è in grado di verificare la presenza del guardiano che lo osserva dalla torre centrale senza essere visto. Il detenuto è quindi costretto a iscrivere in se stesso “il rapporto di potere nel quale gioca simultaneamente i due ruoli”, quello di vigile e di vigilato, diventando “il principio del proprio assoggettamento”[v]. Il tribunale di Monowe spoglia questo meccanismo della perversa componente coercitiva del potere, inserendolo in una dimensione anarchica: nel momento stesso in cui il giudice applica la sua autorità sul giudicato esprimendo la condanna l’azione gli si ripercuote contro. L’unica via di fuga pare quindi essere una condivisa “confessione della propria innocenza”, per poter uscire dal tribunale e riniziare a considerarsi davvero al di sopra di ogni sospetto.