L’attenzione sull’opera fotografica di Luigi Ghirri (1943-1992) è andata gradualmente crescendo negli ultimi anni, in modo particolare dopo il libro e la mostra “It’s Beautiful Here, Isn’t It…” (2008) sostenuti da Aperture Foundation di New York. La consacrazione internazionale di questo autore trova conferma nella felice scelta di Bice Curiger di esporre le immagini del fotografo italiano alla 54ma Biennale di Venezia. Prima di questi riconoscimenti, nonostante le numerose occasioni espositive all’estero, il lavoro di Ghirri è stato celebrato prevalentemente da un folto gruppo di amici, compagni di viaggio, studiosi e conoscenti, che ne hanno cantato le doti artistiche e al tempo stesso umane, lasciandosi trasportare dalla poetica dei luoghi e dal ricordo di esperienze condivise.Qualche anno dopo la sua morte una troupe cinematografica andò in giro per i paesi dove si svolsero varie manifestazioni commemorative in suo onore, mostre e incontri organizzati fra Modena e Reggio Emilia, che diedero inizio al film di Gianni Celati intitolato Il mondo di Luigi Ghirri (1998). All’inizio di questo documentario il regista sfoglia, quasi accarezzandoli, alcuni suoi libri: Kodachrome (1970-78), Atlante (1973), Infinito (1974), il lavoro sulla casa-atelier di Giorgio Morandi (1989-90) e poi Il profilo delle nuvole (1989), uscito con l’accompagnamento di un testo di Celati. L’impressione che se ne ricava è quella di una dimensione intima più che artistica, la stessa che abbiamo dalla visione del film Deserto rosa / Luigi Ghirri (2009) di Elisabetta Sgarbi. La partecipazione alla Biennale di Venezia di quest’anno porterà probabilmente una nuova attenzione sull’opera di Ghirri, consentendo forse di sfumare l’approccio intimo-poetico fin qui prevalso, a favore di un’interpretazione critica più consona al ruolo svolto dall’autore nell’ambito della fotografia italiana.
Tappa fondamentale per la formazione di Luigi Ghirri è stata la frequentazione di un gruppo di artisti emiliani, fra i quali si ricordano Giuliano Della Casa, Carlo Cremaschi, Franco Guerzoni e Claudio Parmiggiani. Poi l’amore per alcuni fotografi come Eugène Atget, August Sander, Walker Evans, Robert Frank, Lee Friedlander e William Eggleston. Il suo lavoro fu subito notato dall’artista Franco Vaccari, a cui si deve il testo di presentazione della prima mostra tenuta a Modena nel 1972, e poi sostenuto da studiosi e fotografi fra i quali ricordiamo Massimo Mussini, Arturo Carlo Quintavalle, Roberto Salbitani e Italo Zannier. Nel 1975 viene scelto da Time-Life come “scoperta” dell’anno, espone poi in vari musei e gallerie in Francia, Germania, Austria e presso la Galleria Civica di Modena, dove realizza la serie “Colazione sull’erba” (1972-74). Nel 1977, su consiglio dell’amico Claude Nori, che gestiva a Parigi la galleria e casa editrice Contrejour, fonda le edizioni Punto e Virgola che diedero un importante contributo alla cultura fotografica italiana. Del 1979 è l’antologica presso la sede espositiva dell’Università di Parma (“Vera fotografia”) e dell’anno successivo la personale alla Light Gallery di New York su invito di Charles Traub.
Il 1984 è invece l’anno del celebre Viaggio in Italia, un libro e una mostra itinerante che partiva da Bari e arrivava a Reggio Emilia, con la partecipazione di numerosi autori italiani e alcuni stranieri. Questa operazione introduceva una nuova strategia dello sguardo, alla ricerca di un paesaggio quotidiano, che ha permesso a Ghirri di essere riconosciuto come il caposcuola di un nuovo approccio alla fotografia paesaggistica. Questo progetto ha segnato profondamente il lavoro delle successive generazioni di fotografi, offrendo importanti stimoli che gli allievi più dotati hanno saputo aggiornare all’evoluzione del paesaggio urbano. Purtroppo però la “scuola” di Ghirri si è rivelata per alcuni una zavorra, soprattutto per coloro che hanno continuato a ricalcare le gesta del maestro, senza però un rispondente alle nuove urgenze contemporanee.
Come spesso accade quando si rilegge l’opera di un autore a distanza di qualche decennio, è facile scorgere qualche aspetto poco conosciuto, che vale la pena approfondire più di quanto non sia stato fatto in passato. Specie alla luce della produzione di altri artisti che si sono mossi nella stessa direzione. In particolare due serie fotografiche meritano una considerazione a parte, soprattutto perché questi lavori di Ghirri sembrano avere influenzato l’opera di altri noti artisti come Thomas Struth e Hiroshi Sugimoto.
Nella serie “Diaframma 11, 1/125, luce naturale” (1970-1979), Luigi Ghirri fotografa molte persone di spalle, come statue, mentre osservano immagini, cartine geografiche, fotografie, quadri: “Questo essere attori sempre, di avvenimenti che in gran parte non conosciamo, su fondali e quinte fittizie, anche quando deleghiamo a una fotografia una nostra identità è per non dimenticare che la ricerca di una identità è sempre una strada difficile. Per questo, accanto a una serie di persone in posa per la foto ricordo, voglio sottolineare l’esistenza di un’immagine altra che io non ho mai visto, del tutto simile alla mia e nella quale e solamente nell’altra è intenzionalmente l’immagine che desiderano dare di se stessi”. Ghirri suggerisce così la sua visione della fotografia, senza rifugiarsi nell’emozione del colore, nell’uso ripetuto e stucchevole dello stile; cercando di instaurare nuovi rapporti dialettici con il mondo, perché fotografare la realtà sia prima di tutto uno strumento di comprensione e di relazione.
Osservando le immagini di questa serie riprese nei musei con i turisti in contemplazione delle opere, introdotte successivamente dallo stesso autore ne Il Palazzo dell’Arte (1980-88), notiamo una certa vicinanza al lavoro Museum Photographs di Thomas Struth iniziato nel 1989. L’artista tedesco ritrae la gente che guarda importanti dipinti, ponendosi dal punto di vista dell’opera e dell’osservatore; in entrambe le prospettive Struth restituisce una sensazione di teatralità, ottenuta grazie all’utilizzo di comparse appositamente disposte dal fotografo. Nelle immagini di Ghirri non abbiamo questa messa in scena, sono scattate senza artifici, per il resto la somiglianza iconografica è considerevole. Come ha scritto Daniel Soutif, una fotografia di Ghirri si distingue da un’opera di Struth solamente per le dimensioni, anche la più grande dell’artista italiano rimane di un formato abbastanza contenuto rispetto a quella del tedesco. Lo scarto generazionale fra i due artisti ha permesso alle immagini di Struth, come a quelle di altri quotatissimi contemporanei, di essere spettacolarizzate mediante le grandi dimensioni, atteggiamento che contrasta invece con la fotografia di piccolo formato più in linea con l’epoca e la poetica di Ghirri.
Nella serie “Il paese dei balocchi” (1972-79), troviamo un’altra sorprendente anticipazione di Luigi Ghirri, questa volta rispetto alla nota ricerca condotta successivamente dal quasi coetaneo Hiroshi Sugimoto. L’artista giapponese, nella serie “Portraits” del 1999, fotografa le statue di cera presenti nei musei Madame Tussauds di Londra e Amsterdam. Operazione analoga a quella compiuta con anticipo da Ghirri mettendo in crisi la netta percezione di realtà e illusione, come molta arte sta facendo negli ultimi anni. La vicinanza stilistica e concettuale è molto evidente: entrambi gli artisti mettono in discussione le nostre certezze e la visione del mondo, restituendoci come reale la copia in cera di un’immagine estratta da un dipinto, a sua volta ripresa dalla realtà. Tre livelli di separazione dal dato oggettivo che fanno riflettere sul concetto di immagine e sulla sua natura sfuggente. L’inganno in cui può cadere lo spettatore delle fotografie di Ghirri e Sugimoto è frutto dell’abilità del fotografo, ma soprattutto del potere del mezzo utilizzato, capace di rendere reale tutto ciò che passa davanti all’obiettivo.
Nell’opera dei due artisti possiamo rintracciare anche un altro punto di contatto, che li vede ancora una volta a confronto su soggetti fotografici analoghi, ma con la differenza che in questa occasione gli anni in cui gli autori operano sono quasi gli stessi. Sempre contenute ne “Il paese dei balocchi” sono le fotografie di Ghirri dedicate all’esposizione degli animali nei diorama; nello stesso periodo Sugimoto realizza la serie “Dioramas” (1975-99), poi sviluppata dall’artista nei decenni successivi. Ritraendo specie animali e ambienti preistorici ormai scomparsi, gli autori fanno rivivere i diorama presenti nei musei di storia naturale, invitandoci a ripensare al tradizionale concetto di realtà. Ghirri e Sugimoto, nel fotografare gli animali impagliati nei musei naturalistici, così come i personaggi storici al museo delle cere, preferiscono che lo spettatore rimanga sospeso nel dubbio; nulla acquisisce un significato definitivo, offrendo in questo modo una loro interpretazione del mondo contemporaneo. Si viene così a delineare quella sottile linea che divide la realtà dalla sua rappresentazione, su cui molti artisti insisteranno a partire dagli anni Novanta.
Un buon numero di opere fotografiche di Luigi Ghirri è ambientato nei musei oppure dentro ai “contenitori di sapere”, come libri, riviste, pubblicità e tutto ciò che può essere catalogato per offrire il ritratto di un’epoca. Non a caso fra i suoi lavori più importanti ricordiamo Atlante (1973), un viaggio fotografico a volo d’uccello sulle pagine di carta di un tradizionale libro geografico. “Mano a mano che la scrittura sparisce, spariscono meridiani e paralleli, numeri, il paesaggio diventa ‘naturale’, non viene più evocato, ma si dispiega davanti a noi, come se sotto i nostri occhi una mano avesse sostituito il libro con un paesaggio reale”. Ghirri dunque trasforma la finzione in realtà, così come accade nella serie “In scala” (1977-78) realizzata presso l’Italia in Miniatura di Rimini, parco di divertimento e atlante tridimensionale. Dall’alto verso il basso i visitatori possono osservare con un solo sguardo le bellezze di un’Italia miniaturizzata, aggirandosi come novelli Gulliver in un paesaggio artificiale fatto di monumenti, montagne, ruderi, piazze, chiese e laghi. In quest’ottica emerge un Ghirri che utilizza la fotografia per riflettere sull’immagine, perché fare una fotografia non significa solamente indicare un metodo per vedere nuovi alfabeti visivi, ma soprattutto uno stato di necessità. Nelle sue opere fotografiche un paesaggio falso viene dato come vero. Così come il cinema, ricostruendo la realtà negli studios, è stato il primo a rendere credibile la finzione. Allo stesso modo, nei lavori di Oliver Boberg, James Casebere, Miles Coolidge, Thomas Demand, Hans Op de Beeck, Edwin Zwakman, una veduta artificiale, ricostruita in studio utilizzando materiali leggeri, viene restituita fotograficamente come se ripresa dal vero.
Di Luigi Ghirri quindi, oltre alle fotografie più celebri, quelle che nascono dall’esigenza di creare una nuova iconografia del paesaggio italiano, va riscoperto l’enorme lavoro sui luoghi di cultura, ricerca che anticipa quella condotta successivamente da importanti autori internazionali. Sono molti gli artisti che negli anni Novanta hanno scelto modalità operative diverse, ma sempre affini al lavoro di Ghirri, rivolgendo per esempio il proprio sguardo sull’immagine trovata per le strade della città oppure all’interno di un archivio o di una biblioteca. Che sia questo il nuovo paesaggio contemporaneo? Ghirri sembra valutare la possibilità di sostituire il classico paesaggio con quello di finzione. Anche quando fotografa la realtà urbana e rurale a lui cara, pare interessato a cercare una conferma di ciò che ha visto precedentemente nelle immagini.
A questo proposito è di particolare interesse la serie “Kodachrome” (1970-78), il primo lavoro di Ghirri che si presenta con una struttura precisa e articolata, che segna dunque un momento importante nella ricerca dell’artista, ponendo l’attenzione su quella realtà di secondo grado che poi si svilupperà nei lavori successivi. “L’attenzione alla distruzione dell’esperienza diretta nasce in questo lavoro, che non vuole dirci di invadenze delle immagini negli ambienti di vita, quanto piuttosto porsi come analisi tra il vero e il falso, tra quello che siamo e l’immagine di quello che dobbiamo essere; operare una lettura nell’occultamento e nella negazione del vero […]. Ho terminato questa serie con frammenti d’immagini trovate camminando per strada, e non casualmente nell’ultimo appare la scritta su un giornale accartocciato sull’asfalto ‘come pensare per immagini’ […]. La fotografia della fotografia diventa momento di coincidenza speculare e le due immagini si eliminano a vicenda, richiamando così la fisicità del mondo di partenza […]. La realtà in larga misura si va trasformando sempre più in una colossale fotografia e il fotomontaggio è già avvenuto: è nel mondo reale”. Soltanto mettendo a confronto il lavoro di Ghirri con quello di altri artisti internazionali che hanno utilizzato la fotografia per instaurare relazioni con il proprio tempo, è possibile comprendere la sua ricerca. Germano Celant, a proposito dello scambio enigmatico tra realtà e finzione che Ghirri mette in scena in molte sue immagini, scrive che l’artista “anticipa la storia della fotografia a venire, in particolare quella che, da Cindy Sherman a Sandy Skoglund, da Gregory Crewdson a Laurie Simmons, guarda alla ‘spettacolarizzazione’ dell’immagine quale universo creato dinanzi alla macchina fotografica. Un’attitudine che egli non professa, ma ‘annuncia’, mettendo in atto un fare che di fatto ‘confonde’ mondo apparente con ‘mondo reale’, oppure ‘fonde’ sulla superficie dell’immagine le ‘realtà’, irreali e reali che mettono in crisi la sicurezza dello sguardo”.