Originariamente pubblicato in Flash Art no. 300, Marzo 2012.
Andrea Bellini: Luigi, frequentandoti negli ultimi mesi, ho avuto modo di constatare fino a che punto l’arte sia per te un impegno abituale, un gioco gentile e inflessibile volto a contaminare ogni aspetto del tuo vivere. Cosa cerchi di dimostrare con questo comportamento?
Luigi Ontani: Innanzitutto un’alterità; cerco di vivere con l’arte nella società, nel respiro e comportamento d’integrità, ritualità per la vita e per la morte, con abito di una non abitudine. Natura e contronatura. Da bimbo, profugo della Seconda guerra mondiale, ho camminato nel sentiero del prato minato attorno a casa.
AB: Camminato giocando, immagino.
LO: Il gioco è il modo nel mondo, ulteriore filtro, maschera mutante deambulante, senza dovere. L’ironia è buona compagnia, campagna e campana o carillon ridondante.
AB: Quando e come è cominciata questa tua avventura tra arte e vita?
LO: Il desiderio di fare arte è desiderio precoce, infantile, protratto non protetto, dal niente al tutto. Oltre alla ritardaloscenza, di petto ancora putto per rispetto e dispetto. In quarta elementare al tema in classe su Garibaldi disegnai un album completo illustrato miniaturizzato. E per il tema sul viaggio scrissi immaginando fantasticando a Oriente = come labirinto, forse guidato da Collodi/Salgari/Verne/Gulliver, con meta il Minotauro a Tokyo.
AB: Sì, certo. A proposito di ritardaloscenza, che formazione hai?
LO: Autodidatta dilettantesca, estraniandomi/distraendomi/concentrandomi dipingevo e acquerellavo giocando solitario avanguardisticamente perennemente.
AB: Tu hai fatto il militare a Torino nei primi anni Sessanta. Hai avuto modo di vedere delle mostre? Quali artisti hai incontrato?
LO: In libera uscita visitavo le gallerie il Punto, Galatea e Notizie di Luciano Pistoi e poi il Museo d’Arte Moderna e quello Egizio. Ricordo di aver visto opere di Giulio Paolini, Luciano Fabro, Pinot Gallizio, Carla Accardi, Michelangelo Pistoletto, Mario Merz e il Gruppo Zero.
AB: Dopo il servizio militare torni a Vergato, tuo paese d’origine e frequenti la scena artistica bolognese. Una volta mi hai detto che secondo te uno degli artisti più interessanti in città era Vasco Bendini.
LO: Assolutamente. Bendini in quel periodo passava dall’Informale al comportamento, alle installazioni ambientali.
AB: E la tua prima opera in assoluto è stata un ready made, vero? Siamo agli inizi degli anni Sessanta.
LO: Sì, è conservato nel Villino Romamor. Lavorando nella fabbrica Maccaferri, presi un pedale elettrico d’avviamento macchine e attaccai al filo una lampadina celeste. “Angelo custode a pedale”, lo esposi al Palazzo dei Diamanti a Ferrara con Ketty La Rocca e anche da Luciano Inga Pin a Milano. Poi ne feci un altro con tre lampadine colorate a bandiera, un tricolore.
AB: Subito dopo, nel 1965 arrivano i primi oggetti pleonastici, piccoli calchi di oggetti realizzati in materiale povero.
LO: Scagliola dipinta a tempera. Gli oggetti pleonastici sono extragiocattoli; esprimono una dimensione ludica dell’arte, una creatività dilettantesca. Cercando di fare come non fosse né scultura né pittura, né design.
AB: In quel momento realizzi anche una serie di sculture in cartone ondulato e gommapiuma, ritagliate a mano.
LO: Sono costruite con moduli e stilemi, secondo un procedimento giocoso, ripetendo e variando composti, ritagliando e assemblando, sospendendole nello spazio pareti/soffitto/pavimento creando un ambiente coinvolgente, tribale. Stanza delle similitudini >> bosco vergine, sviluppando visivamente (da M. Foucault) concetti d’analogia, emulazione, simbiosi, simpatia.
AB: Nessuna tangenza con l’Arte Povera, nonostante l’impiego di questi materiali…
LO: Infatti. Con radici e riferimenti nel Futurismo, Metafisica, Arte Primitiva e Surrealismo, o in alcuni aspetti di Nouveau Réalisme. Portando in sé un desiderio dell’arte ancora acerbo.
AB: Questi lavori avranno un’importanza centrale nello sviluppo del tuo linguaggio, perché cominci a indossarli, a interagire con essi.
LO: Rappresentano il sentiero che mi ha permesso il discorso, nella composizione e nel comportamento. Mettendoli sugli alberi come fiori e frutti, li ho indossati, fino al gesto dell’onanismo. La documentazione fotografica di questo mio comportamento è stata una rivelazione. Mi resi conto che la foto del gesto era più importante delle sculture in sé, rendendole ulteriormente significative in posa. Inoltre fu uno zingarello, voce bianca di una compagnia ambulante, di passaggio a Vergato, mio paesello natio, recitando La sepolta viva, che per primo mi definì “pososo”.
AB: Da queste prime “foto ricordo” nasce insomma l’idea di poter produrre un’immagine emblematica, frutto di una relazione diretta tra arte e vita.
LO: Proprio così. Invece della performance come accadimento, mi sembrava più interessante considerare l’immagine vivente come pittura. Attraverso lo scatto fotografico avevo la sensazione di poter fermare il mio gesto nel tempo, quindi giocavo con un’illusione di infinito: in quel momento scelgo l’immobilità, l’istantanea della posa. C’era la convinzione di voler rimanere nello spazio dell’arte, apparendo nelle prime pose, come il San Sebastiano.
AB: A proposito di performance, c’è un equivoco riguardo ad alcuni filmati in Super8 che realizzi attorno alla fine degli anni Sessanta.
LO: Sì, quei filmati registravano comportamenti performativi/ripetitivi/ricreativi, in maniera liberatoria: evitando la ginnica dell’azione.
AB: Nell’aprile del 1971 in occasione della mostra “Spazio Teofanico” presso la Galleria Diagramma di Milano esponi Ange Infidèle, un’opera del 1969.
LO: Sì, è un’opera fotografica, considerandola il primo tableau vivant. È il passaggio all’idea di automitizzazione della immagine, il narcisismo dell’angelo. Un’immagine di apparizione iconica. Ci sono gli ovvi riferimenti letterari a Rimbaud e Huysmans, l’idea di una teofania, di un’apparizione del divino sulla terra.
AB: Tra il 1969 e il 1989 realizzi circa trenta lavori ispirati al genere dei tableaux vivants.
LO: I tableaux vivants li vivevo trascorrendo tempo sul posto, completando il bagaglio appreso di immagini allegoriche/mitologiche, per esplorazione, integrando con chiavi/alibi avi territoriali, come affresco, work in progress consapevole dell’avventura d’eccezione straordinaria nell’esemplarità in visita; evitando si estendesse in organizzazione tecnica specialistica, consona allo spettacolo d’intrattenimento.
AB: Non ti interessava lo spettacolo.
LO: Vogliosa idea “che stavo ancora dipingendo con la mente”.
AB: E poi sono arrivate altre cose. Negli anni Ottanta la scultura in cartapesta e ceramica, e il tema della maschera.
LO: Già negli anni Settanta avevo trovato il senso della maschera nella mia fisiognomica, poi riletta attraverso le diverse etnie e quindi il viaggio nella mappa della maschera antropologica del mondo, e col calco ripetendo la scultura come ibridolo, cioè ibridazione dell’idolo, riconsiderandone anche la mediazione del materiale, quindi dalla cartapesta alla ceramica, al legno, al vetro, al misto.
AB: A proposito di maschera e di ruoli. Qualcuno ha voluto leggere nel tuo lavoro un’anticipazione delle problematiche transgender, l’idea di una ambiguità sessuale esibita. C’era allora in te una idea di rivendicazione di natura politica? Una battaglia contro i tabù e i luoghi comuni dell’Italia di allora?
LO: La posizione oltre i pregiudizi, per discrepanza del contesto. Ho vissuto gli scandali che mi sono capitati. Li ho accettati senza esasperarli. Ma non c’era la volontà di organizzare del rumore, una contestazione. È successo che facessi delle cose per istinto, d’istinto, che andavano dal rispetto al dispetto, tutto qui.
AB: Piuttosto una posizione poetica.
LO: Ho scelto di giocare in leggerezza e in frivolezza esplicitamente, nella consapevolezza che anche attraverso la seduzione estetica ci fosse un’etica del comportamento, un desiderio di trasformazione e di cambiamento.
AB: Al di fuori delle corporazioni, ad oltranza nell’arte!
LO: Idealizzando l’originale androginia senza esasperare o fomentarne il grottesco della trasgressione stereotipata e/o rivendicazione propagandistica, proponendo lo spazio dell’arte come miraggio vivibile, oltre le aggregazioni, senza sottovalutarne l’utilità sociale e solidarietà, che comunque e ovunque l’arte esprime particolarmente.
AB: Le mostre personali hanno sempre rappresentato per te delle tappe, un momento importante di riflessione.
LO: Infatti. Come questa ultima personale da te curata al Castello di Rivoli. Mi permette ancora una volta di riconsiderare il presente della mia avventura, e di giocare un ventaglio di cose datate che continuo a rigiocare, ritrovando il tempo di vista che muta avvicinando illusoriamente l’impossibile relativo attivo.
AB: Quali sono le persone che ti interessano di più?
LO: I poeti, mi piacerebbe frequentarli di più, perché è un’altra dimensione improbabile della vita. Credo che rispetto all’ossessione mistico-religiosa anche il poeta viva una grande libertarietà, perché egli non teme lo sguardo di Dio.
AB: Una mistica laica?
LO: Nel senso che se Dio c’è, il poeta lo trova all’interno del proprio labirinto poetico, esternandolo.
AB: È quello che tu fai con l’arte, no?
LO: Non so, vivendo e respirando e risputando con l’arte, ironicamente, eroticamente, ritualizzando, spostando e viaggiando commuove muovere l’altrove.