“Fuoco Immagine Acqua Terra”, la mostra che si tenne nel giugno 1967 a L’Attico di piazza di Spagna, un appartamento sito all’ultimo piano di un palazzo borghese, destò scalpore all’epoca per l’adozione di elementi naturali nella costituzione di un’opera d’arte. Oggi la percezione è diversa, ma allora, quarant’anni fa circa, fare entrare fuoco, acqua, terra in galleria era una vera e propria rivoluzione. Una mostra così non nasce dal niente. Un precedente era stata, nel 1966, l’esposizione di un maiale vivo alla galleria La Salita di Roma a opera dell’artista americano Richard Serra, unico animale vivo tra una serie di animali impagliati. Questo lavoro, che non somiglia in nulla alla scultura che avrebbe contraddistinto Serra nella sua carriera, non passò inosservato agli addetti ai lavori. Certo, quello di Serra era soprattutto un gesto provocatorio, ancora legato a un’idea di épater le bourgeois. Nonostante ciò è indubbio che rappresenti un precedente sulle scelte formali di Pascali e Kounellis in relazione a “Fuoco Immagine Acqua Terra”.
Nel 1966, a ottobre, dopo essermi separato professionalmente da mio padre, con la mostra di Pascali comincio a maturare un cambiamento dello spazio espositivo fin lì concepito come appartamento, luogo esclusivo di contemplazione. Il suo mare bianco espelle quasi gli spettatori dalla galleria e li costringe a rasentare i muri per osservarlo da tutti i lati. Nel marzo del 1967 Kounellis, che con Pascali è la punta di diamante de L’Attico, espone nella sua mostra personale una serie di grandi rose bianche e nere di stoffa, tra le quali spicca un quadro di tre metri per due che ha per cornice delle gabbiette con uccellini vivi, pigolanti.
Ecco la natura che entra in galleria. Provocazione, ma anche poesia. Un mese dopo sarei volato in Germania insieme a Pascali al quale avevo organizzato, con l’aiuto di Topazia Alliata, la sua prima mostra all’estero, a Essen. Al vernissage incontrammo il critico Udo Kultermann e nella conversazione in inglese, che io traducevo a Pascali, Kultermann, esperto di arte internazionale, tra le altre informazioni che ci dette, menzionò un artista americano che, almeno così capii, utilizzava l’acqua nei suoi lavori. Io, tutto eccitato, nella traduzione dall’inglese valorizzai quell’accenno all’acqua. Il giorno dopo Pino aveva già immaginato le pozzanghere e il cubo di terra, preludio ai trentadue mq di mare circa. Così, in aereo sulla via del ritorno, nacque l’idea di varare una mostra imperniata sugli elementi naturali. Sapevamo che Kounellis che aveva esposto gli uccellini vivi avrebbe aderito con entusiasmo. E infatti si mise al lavoro per realizzare la margherita col fuoco.
Dunque, scendendo dall’aereo che ci riportava a Roma, Pascali ed io avevamo in testa gli elementi naturali per una mostra e sapevamo che Kounellis era dalla nostra. Ci voleva un avallo critico e portammo la cosa a conoscenza di Calvesi e di Boatto. Erano i critici insieme a Rubiu maggiormente vicini a L’Attico. Si ragionò sul titolo da dare alla mostra e di porre l’accento sulla svolta della natura. Però chi innovava con l’acqua, la terra e il fuoco erano soltanto Pascali e Kounellis. Raggruppammo gli altri artisti partecipanti, quelli nei quali si distingueva ancora la matrice pop, nella sezione “Immagine” e cioè Bignardi, Ceroli, Gilardi, Pistoletto e Schifano.
La mostra, come ho scritto, destò enorme scalpore nel mondo dell’arte. Uscirono recensioni su riviste nazionali quali Domus a firma di Tommaso Trini e Bit a firma di Mario Diacono. Non è un caso, quindi, che Germano Celant, occhio lungo, prese la palla al balzo e a distanza di quattro mesi, scavalcata l’estate, mise in atto la prima mostra che porta nel titolo la dicitura arte povera alla galleria La Bertesca di Genova. E non è un caso che il titolo completo è “Arte Povera – Im-Spazio”, cioè il termine immagine compare anche qui nel titolo e come nella mostra romana serve a distinguere gli artisti partecipanti. Nella sezione “Arte Povera” raggruppa Boetti, Fabro, Kounellis, Paolini, Pascali e Prini. Nell’altra “Im-Spazio” inserisce Bignardi, Ceroli, Icaro, Mambor, Mattiacci e Tacchi. Dalla lista romana degli artisti sono scomparsi, oltre a Schifano, Gilardi e Pistoletto. Esclusione incomprensibile quella di Pistoletto. È lui, Michelangelo, il link in quel momento tra Roma e Torino. Passa molto tempo giù da noi, stringe amicizia con Pascali, discutiamo insieme giorno e notte di arte. È qui che conosce la sua futura moglie, Maria Pioppi, amica di Anna Paparatti, la mia compagna di allora. Il clima artistico romano è effervescente e Pistoletto, bramoso di teatralità, ci si trova a suo agio. Nel marzo 1968 la sua mostra a L’Attico con gli specchi e il guardaroba di Cinecittà a disposizione dei visitatori che si travestono segna il suo passaggio al teatro di strada, allo Zoo.
Le cose evolvono rapidamente in epoca di febbrili cambiamenti. Oltreoceano arriva l’eco della Land Art, l’Arte Concettuale preme alle porte. A poco più di un anno da “Fuoco Immagine Acqua Terra”, muore disgraziatamente Pascali. L’arte a Roma viene privata del suo leader, mentre gli artisti torinesi crescono di numero. È il settembre del 1968. L’incontro con Simone Forti, perfomer e danzatrice, nata a Firenze e fuggita in America per via delle leggi razziali, rafforza e completa in me la visione di un nuovo spazio espositivo, che si era affacciata due anni prima con il mare bianco di Pascali. Non è più soltanto un problema di grandezze, di scala. Capisco che la galleria d’ora in poi dovrà essere anche un luogo spettacolare, atto ad accogliere la nuova arte che si annuncia: la performance.
Dopo Piano inclinato di Simone Forti, prima performance europea in assoluto, trasformo lo spazio di piazza di Spagna in una palestra, Ginnastica mentale, passo dissacrante che mi porta a trasferirmi nel garage di via Beccaria. Appena lo vede, Jannis ha immediatamente l’idea di esporvi dodici cavalli vivi.
Il garage-galleria de L’Attico si potrebbe definire il primo spazio povero e la mostra di Kounellis dei cavalli vivi la mostra dell’Arte Povera più conosciuta al mondo. Quello spazio non solo rompe il modello contemplativo di negozio e appartamento fin lì vigente, ma cavalca con la sua spettacolarità l’imminente ondata effimera: performance, Body Art, musica, danza. È un passo epocale. Gallerie e musei non saranno più gli stessi.
Post scriptum
Un mese fa, in un’intervista comparsa su Artribune, a Ludovico Pratesi, che gli domanda come è nato il termine arte povera, Celant risponde: “… vedevo che gli artisti utilizzavano materiali come carbone, giornali, fascine di legno e quindi mi venne in mente la parola povera. Il riferimento al teatro povero di Grotowski è arrivato più tardi, allora non lo conoscevo…”. Ebbene sono andato a ripescare il catalogo della mostra a La Bertesca e nella presentazione che leggo? Scrive testualmente Celant: “…il cinema, il teatro, le arti visive si pongono come antifinzione, vogliono registrare univocamente la realtà e il presente… per approdare a un tipo d’arte che, mediando un termine dalle ipotesi teatrali di Grotowski, ci piace chiamare povera”. Incredulità, imbarazzo, che altro provare davanti a tale sfrontata smemoratezza? Ma il punto per me è un altro. Dunque, per stessa ammissione di Celant, sono i materiali in primis che gli aprono la via e il precedente esplosivo in quel senso non possono essere che l’acqua e la terra di Pascali, il fuoco di Kounellis. Essi hanno una valenza primordiale, dirompente, imparagonabile a giornali, carbone, fascine, gli unici materiali che lui, per gettare fumo negli occhi, menziona nell’intervista.
Ora nessuno nega che Celant i suoi meriti se li sia guadagnati sul campo. Perché, dunque, oscurare i meriti altrui? Forse è più forte di lui. Celant, nomen omen. Povero Grotowski, povero me!