Marco Tagliafierro: Come spieghi il ricorrere di segni antropomorfi nel tuo lavoro?
Lupo Borgonovo: Mi interessano le tante rappresentazioni di teste che, sopravvissute alla storia dell’arte, occupano i musei del mondo. Mi sembrano rispondere a un’innocente spinta primigenia dell’uomo verso l’affermazione della propria esistenza in un dato momento. I tentativi di antropomorfismo che hanno attraversato a ogni latitudine e in ogni epoca la storia dell’arte sembrano un tentativo da parte dell’uomo di estendersi nella materia.
MT: Il tempo è un concetto che riguarda l’essenza del tuo operare?
LB: Il tempo non è solamente una membrana che circonda le cose, ma un materiale che può essere utilizzato nella creazione di un’opera. Inoltre, se è vero che lo spazio e il tempo sono saldati insieme, disegnare lo spazio è disegnare il tempo, occupare lo spazio è occupare il tempo. Lavoro a un’idea di tempo circolare, assoluto, dove il passato e il futuro si scambiano, riflettendosi l’uno nell’altro. L’ossimoro “arcaicamente nuovo” può avvicinarsi a questa idea di tempo.
MT: Sei attratto dalle rovine?
LB: Costruisco la mia opera come un insieme di rovine. Intendo le rovine come superstiti di un ordine che non c’è più, come prodotti dell’azione del tempo. In questo senso l’utilizzo di materiali monumentali, legati all’idea di memoria, è un tentativo di assicurare alle mie opere la possibilità di una lunga trasformazione nel tempo; come i bronzi nelle piazze, che, prima di essere patinati dagli anni, riflettevano la loro luce a chilometri di distanza.
MT: Ai poli, dove si annulla il succedersi dei giorni e delle stagioni, tutto appare dato una volta per tutte, tutto è eterno, un’eternità di ghiaccio. In ultima analisi quella condizione esprime un’idea di tempo assoluto; il tuo ragionamento conduce ad affermare che l’assenza è l’argomento stesso dell’arte?
LB: La massima interrogazione è come l’essere possa emergere dal nulla e infine ritornarvi. L’assenza è una presenza potenziale. Se la poesia è il far parola del silenzio, la scultura può essere un modo per parlare dell’assenza attraverso la presenza. L’impiego della scultura nell’arte funeraria può chiarificare questa riflessione: la tomba di Medardo Rosso nel Cimitero Monumentale di Milano è in questo senso esemplare.
MT: Perché la scultura?
LB: M’interessano le capacità rivelatrici proprie della scultura. La utilizzo come una pratica interpretativa che crea immagini riflettendo la realtà. Ho spesso prodotto per sottrazione, cercando di fare esperienza dell’incorporamento della realtà nel linguaggio.
MT: Quindi, che relazione intercorre, a tuo modo di vedere, tra processo e opera?
LB: Il processo è il linguaggio della scultura, un sistema in evoluzione che utilizzo per trasformare la realtà. L’opera d’arte inventa i gesti dell’artista, prima di affermarsi come un’entità autonoma. Osservando attentamente un’opera d’arte si potrebbero ripercorrere i movimenti che l’hanno generata. Guardando l’opera si sfoca il movimento, pensando al movimento si sfoca l’opera.
MT: Qual è il rapporto che cerchi tra il linguaggio verbale e il linguaggio formale?
LB: Raccontare le mie opere utilizzando i verbi all’infinito è un tentativo di stabilire un collegamento tra il linguaggio verbale e la realtà del fare. Dividere, raddoppiare, riempire, misurare, sollevare, ricordare, sono alcuni dei verbi che alimentano la mia pratica.
MT: Ermeneutica come atto creativo?
LB: L’ermeneutica è il processo di risalita da un segno al suo significato ed è quindi un atto creativo, una possibilità di creare una forma interpretandone un’altra. Interpretare è creare e dietro a ogni traduzione si nasconde un tradimento che può portare nuova vita a un’opera. Inoltre, l’interpretazione solleva la questione dei limiti linguistici. Seguendo l’ekphrasis, bisognerebbe sviluppare un discorso sull’opera d’arte servendosi di un’altra arte.