Eugenia Delfini: I tuoi disegni sono ritratti ironici del contesto socio-culturale attuale, condividono lo stesso segno esistendo come serie diverse. Come nascono e in cosa si differenziano, per esempio, le due raccolte “Murmuring” (2010) e “Twenty-nine Art Old” (2010)?
Maddalena Fragnito: I disegni sono il risultato di un forte processo di sintesi che faccio mentre osservo e ascolto le sfumature della situazione nella quale sono immersa. Mi hanno sempre affascinato le intersezioni tra pubblico e privato che ci sono dentro le persone e nei gruppi di persone. Raccolgo serie di disegni perché parlo di momenti diversi a cui partecipo e che voglio raccontare nella loro complessità. Una serie comincia da un’esperienza pubblica e progredisce nel tempo. “Murmuring” nasce da una discussione alla Nomas Foundation con Paolo Virno e Pascal Gielen su come l’etica lavorativa del mondo dell’arte sia stata trasformata dall’industria creativa e dai governi in un modello di produzione del liberismo globale. “Twenty-nine Art Old” parla invece di circostanze, vissute in prima persona e spifferate, legate al sistema dell’arte, come: “Mi dispiace ma non hai un nome esotico”. L’ironia che c’è nei disegni non è mia: la distillo dal reale.
ED: Tra l’ottobre e il dicembre 2009, nelle città di Padova e di Praga sono apparsi dei manifesti sui quali si leggevano frammenti di testo non immediatamente comprensibili, si trattava di un tuo lavoro: Propagandistico.
MF: L’idea della Fondazione March era di lavorare su grandi manifesti sparsi per le città. Ho spezzettato la definizione di propaganda che si trova su Wikipedia ricombinandola fino a creare frasi con piccoli errori. Nelle imperfezioni c’è un fascino che ci fa riflettere. Sono partita da Wikipedia perché riflette la continua ridefinizione del concetto di propaganda e le parole scritte a mano sembrano infiltrarsi con più intimità nella mente del lettore.
ED: Nei tuoi lavori spesso utilizzi oggetti di uso comune legati a titoli molto eloquenti: l’attenzione ritorna al linguaggio, alla parola scritta e il titolo assume un valore determinante nella costruzione del senso. Cosa ne pensi?
MF: Inizio spesso un lavoro attraverso parole che mi affascinano e mi inquietano. Installazioni, fotografie e disegni hanno un rapporto di commutabilità, ci sono idee che percorrono varie fasi e talvolta mi sembra di giocare a One and Three Chairs… La parola può entrare dentro un lavoro come in Effetto vissuto, dove trasformo una frase, che parla dell’utopia di una generazione, e la scrivo su un paio di jeans in quanto simbolo di un’epoca e sintomo della patologia di un’altra. Altre volte la parola resta nel titolo e indica un verso, come la copertina di un libro suggerisce l’inizio.
L’unico progetto al quale non ho dato un nome ha senso proprio per la mancanza del titolo, parlo della falce e del martello appesi al muro.
Quando prendo in mano una mia pubblicazione scopro sempre con paradossale stupore che il lavoro si è trasformato: le riproduzioni sono merci di contrabbando.