Riccardo Beretta: Partiamo dalla fine. Parlami del lavoro che stai realizzando ora o se ci sono delle idee nuove che vuoi sperimentare.
Manuel Scano: Per ora mi limito a scagliare cose contro il muro.
RB: Nella tua personale “Tinkerbell” da Room Galleria hai ricoperto il pavimento di scarti raccolti nel tempo: frammenti un po’ ludici come carte cangianti, coriandoli, materiale d’imballaggio, parrucche, pennarelli finiti, giocattoli, scarti di altri artisti, ecc. I colori mi hanno fatto pensare ai giocattoli della Mattel masticati da un cane. Che tipo di suggestione volevi creare?
MS: Mi interessava ci fossero due momenti nella fruizione: un primo impatto in cui sembrasse veramente di entrare nella stanza di un bambino con un sacco di oggetti sparsi a terra, piacevoli a livello cromatico. C’era anche la musica di Roger Roger (un compositore francese che inventò sonorità un po’ da circo, con un lato grottesco, musica allegra e spensierata, quasi ridicola) che ti accompagnava lietamente. Poi, in un secondo momento, tutto cambiava, questa musica simpatica si trasformava, pian piano, in un disastro di sovrapposizioni, un magma paranoico ad altissimo volume che distorceva: “grrrraarrrrrrrrggrrrr”. Stando dentro la stanza iniziavi ad accorgerti che tutta la roba a terra era distrutta, violentemente distrutta, un grumo di cose che si annodano tra loro, parrucche sporche piene di pezzettini luccicanti legate con corde, spaghi, piante finte, c’era tutto un ammasso che si modificava pian piano. Mi piaceva che la mostra fosse anche il contrario di se stessa. Di tutto questo materiale, quello che mi attrae è che, con il passare del tempo, sta diventando una sorta di pezzo unico, uno strano groviglio informe.
RB: Mi piace pensare alla tua mostra “Tinkerbell” e agli altri tuoi lavori in relazione a Caracas (città dove hai vissuto fino agli 11 anni). La spazzatura come paesaggio di una città che produce, consuma e rigetta la merce dentro se stessa. Mi piacerebbe portarti a fare una riflessione sulla tua educazione, i tuoi viaggi e il tuo lavoro, una sorta di parallelo tra queste cose, se c’è.
MS: Caracas è una città estremamente confusionaria a tutti i livelli. Ha una forte componente di disorganizzazione e anarchia. Il carachegno vive alla giornata, il domani non esiste. È un’instabilità che si ripercuote sulla maniera di vivere la città e la vita stessa. Tutto questo entra sicuramente in conflitto con Padova città dove ho vissuto per molti anni, dove l’ordine, la disciplina e l’indolenza leghista regnano. L’incontro tra queste due realtà così diverse ha causato una “discreta schizofrenia” nella mia formazione.
RB: Parliamo di Caracas più in relazione al tuo lavoro e all’energia che trasmette. Credo che questo sia il tuo campo d’azione, cioè quello che ti interessa non sono tanto gli oggetti, ma più la tensione che possa succedere qualcosa. Dare la possibilità di essere dentro a una situazione come in un concerto, mi sbaglio?
MS: Quando entri nella sala di un concerto, il suono ti travolge, per non ascoltare devi uscire. Mi interessa questo, che lo spettatore sia travolto. Mi interessa produrre rumore, dal punto di vista visivo e uditivo, un rumore anche fastidioso, che per forza di cose entra in contatto con te. Caracas ha la caratteristica di non fermarsi mai, sei dentro e non ne puoi uscire, ti stressa. È anche molto vitale ma è una vitalità aggressiva: traffico costante, sparatorie, ecc. Una città che non puoi vivere passivamente, ti devi difendere, sei dentro e ti viene addosso.
RB: Vedo le tue opere, e la mimica che usi per descriverle (forte gesticolazione, suoni strani alternati a momenti di silenzio, ecc.), strettamente connesse. Sembra che tu abbia sempre in testa la melodia di un’improvvisazione jazz. I tuoi lavori fanno uscire la musica dalla tua testa per farla sentire a tutti?
MS: In un certo modo, tutto il mio lavoro è generato da una continua correzione di piccoli errori, il che ha a che fare con l’improvvisazione jazz in quanto c’è un continuo inventare, nota per nota, una relazione possibile con gli oggetti che mi trovo davanti. Si tratta di partire da un’ipotetica stanza vuota e iniziare a viverci dentro, riempirla di cose e dare inizio a qualcosa, vedere che relazione possono avere questi oggetti tra loro, giocarci, appoggiarne uno sull’altro, farli cadere e lasciare che si rompano, prendere una mazza e infierire senza pietà per poi, con i resti, capire che fare, provare a ricostruire. Un costante movimento compulsivo che lascia die
tro di sé delle tracce. La maggior parte delle volte, nel mio caso, a generare un’opera è un lavoro molto fisico, inquieto, immediato.
RB: Dimmi un musicista jazz che ti piace.
MS: Ornette Coleman è tra i musicisti che più amo, le sue improvvisazioni aprono totalmente lo spettro delle possibilità dell’improvvisazione jazz. Adoro il suo album Free Jazz, dove ha collaborato con un altro musicista eccezionale, Eric Dolphy. Mi incuriosisce come l’improvvisazione per certi versi abbia a che fare con il discorso parlato, la quantità di senso che racchiude un’improvvisazione, quello che un musicista riesce a “dire”.
RB: Mi viene in mente che tu usi spesso dei filtri, delle interferenze che interponi tra te e il tuo lavoro. Per i tuoi disegni, quelli che sembrano delle sgommate, hai usato un ventilatore acceso per giorni. Ti interessa astrarre te stesso dal tuo lavoro?
MS: Sì, nel caso dei disegni il punto centrale era proprio quello di inventare dei segni cercando una maniera di uscire dal mio corpo, dalle potenzialità delle mie mani, dei miei occhi e del mio gusto estetico. Quindi ho utilizzato un ventilatore come “amico” per accelerare questo processo. Spesso il tentativo è quello di diventare un masso lanciato giù da un dirupo che fa un macello incontrollato.
RB: Entrambi siamo reduci dal workshop della Fondazione Spinola Banna. La scorsa settimana abbiamo seguito le interessanti lezioni dell’artista Peter Friedl. Vorrei chiederti, in rapporto al tuo lavoro, come interpreti il concetto che Peter ci ha proposto rispetto alla necessità di un’ecologia delle immagini?
MS: “A mio padre piaceva moltissimo improvvisare e pensare al pianoforte. Entrava in una sorta di rêverie e suonava con aria sognante, gli occhi chiusi, come se stesse direttamente traducendo sulla tastiera quello che ascoltava nella mente. E spesso chiudeva gli occhi per ascoltare un disco o la radio. Diceva sempre che, quando teneva gli occhi chiusi, gli riusciva di ascoltare meglio la musica, in tal modo escludeva le sensazioni visive e si immergeva completamente in un mondo uditivo.” (Oliver Sacks)