La decostruzione del canone femminile disegnato dalla società patriarcale è stato l’incipit della produzione di Marcella Campagnano (Milano, 1941). Sin dagli anni Sessanta l’artista utilizza la camera come strumento per registrare il mutamento d’identità nel corpo e nel soggetto femminile. In questo dialogo con Marco Scotini, l’artista ripercorre i momenti significativi della sua ricerca e la sua lotta personale a ciò che lei definisce “coazione a ripetere”.
Marco Scotini: Nel recente testo di Gabriele Schor, The Feminist Avant-Garde: Art of the 1970s, The Sammlung Verbund Collection, Vienna (Prestel, 2016), figuri tra Eleanor Antin e Cindy Sherman, due artiste americane di primaria importanza. La categoria che vi accomuna è quella del “gioco di ruoli” e le date che raccolgono le vostre opere pionieristiche vanno dal 1972 al 1976. Tu inizi il ciclo fotografico L’invenzione del Femminile: Ruoli nel 1974, senza alcun precedente artistico che avrebbe potuto anticipare il tuo lavoro. In questa operazione di travestimento la tua opera assume però, rispetto alle due artiste americane, un più immediato e dichiarato carattere politico-sociale circa la decostruzione degli attributi canonici del soggetto femminile. La tua comparsa (o quella delle tue amiche) nei panni della sposa, della casalinga, dell’operaia, della prostituta, della fashion victim, della militante di sinistra, non interviene solo nell’immaginario astratto e sessualizzato con cui l’uomo ha pensato la donna, ma cala quest’ultima anche nel contesto materiale e nelle funzioni sociali che le ha assegnato la cultura patriarcale. La tassonomia visuale che costruisci, all’interno di una griglia precisa, rimanda addirittura alle foto delle classi sociali di August Sander che tu, però, teatralizzi, rendi fittizie.
Marcella Campagnano: Il lavoro sui Ruoli (1974–1980) è nato da stimoli fortemente motivati da quello che definirei, molto sommariamente, la ricerca dell’identità. È stato chiaro fin dal primo momento che ognuna di noi rigettava immediatamente lo sguardo intimistico-psicologico così ovvio e diffuso soprattutto in quegli anni in particolare in Italia. Del resto sono anni intrisi di queste esperienze. La grande Pina Bausch metteva in scena gesti di assoluta irrilevanza, lontani da ogni significato, che si ripetono nella quotidianità. Birgit Jürgenssen, Martha Wilson, Ketty La Rocca e tantissime altre negli anni Settanta perseguivano il tentativo di rivoluzionare il linguaggio dell’arte – come è storicamente definita – nell’attraversamento personale di vissuti e problematiche femministe. Ma, torno al mio lavoro: le mie amiche ed io non eravamo modelle o attrici, io non ero una fotografa con uno studio attrezzato. L’invenzione del Femminile: Ruoli è stata una sorta di teatro dell’esperienza, nato nel soggiorno di casa mia, spostando un divanetto, appendendo al muro un pezzo di moquette grigio neutro, due lampade rivolte al soffitto per ottenere una luce diffusa, quasi naturale e uno specchio, perché ognuna di noi potesse controllare la propria immagine prima dello scatto annunciato. La macchina, fissa sul cavalletto, era usata come un elettrodomestico, un frigorifero di cui apri e chiudi lo sportello. Parafrasando Virginia Woolf, in mancanza di “uno studio tutto per sé”, l’appartamento piccolo-borghese – storico luogo di quell’ineludibile ossimoro dell’oppressione-creatività che milioni di donne soffrono, ora non più in silenzio – si trasformava in un improvvisato set fotografico. La “recita” si svolgeva in mezzo a un fluire di discorsi, iniziative, prese di posizione, risate, complicità e una certa indifferenza per il risultato finale. Intorno alla macchina fotografica immobile sul cavalletto – che non cerca, non insegue la sua preda – ruotano persone impegnate alternativamente davanti e dietro l’obiettivo. La gerarchia che scandisce soggetto e oggetto, in questo modo è, almeno in parte, sospesa. Le mie sequenze non illustrano figure straordinarie, registrano il migrare possibile, latente di un’identità quotidianamente agita. La fotografia è stata solo lo strumento che ha registrato la mobilitazione spontanea, partecipata ed entusiastica di decine di amiche che, in quei giorni, si prestavano allegramente a un gioco di svelamento del proprio essere al mondo, di cui ognuna di noi coglieva la sotterranea induzione da parte di modelli maschili, che da secoli suggeriscono e guidano la nostra possibile o improbabile identità femminile. Confermo: si tratta dell’anno 1974.
M.S.: Tu approdi però ai Ruoli dopo un lungo lavoro, iniziato alla fine degli anni Sessanta, in cui il tuo sguardo sembra piuttosto documentale: non teatrale come quello del tuo lavoro più famoso. La bellissima sequenza di Donne per la Strada, che pubblichi nel libro Donne. Immagini (Moizzi Editore, 1976) è di quegli anni e ritrae bambine, madri e nonne (la donna nelle sue diverse età) di fronte a muri, negozi, graffiti, affissioni. Qual è il rapporto tra i due cicli fotografici che, a prima vista, sembrerebbero contraddirsi a vicenda?
M.C.: Il concetto di coazione a ripetere ha segnato per lungo tempo la mia ricerca. I gesti imposti alla figura femminile rispondono alla richiesta di una certa ripetitività quotidiana, utilitaristicamente necessari al millenario sistema che ben conosciamo. Le mie “modelle”, negli anni Sessanta, erano intenzionalmente fermate e fotografate nei consueti contesti urbani. Questo scandaglio testimoniava la surreale coesistenza di vita, di quotidianità, mentre nelle vie si consumavano, a volte, terribili agguati mortali. Malgrado il mio apprezzamento e la solidarietà alle tante fotografe che coraggiosamente prendevano parte agli scontri e alle frequenti manifestazioni di allora, la mia scelta, al limite dell’inconsapevolezza, chiedeva altro all’inesplicabile tessuto che stringeva e continuava a legare noi donne al sorriso e a certa familiarità di gesti che, al di là degli urti, mi attraeva e silenziosamente mi legava all’ineffabile dialogo corporeo con loro. Consapevole di interpretare una vita milanese che non fa notizia, al contrario del glamour diffuso, tutte queste persone erano confinate ed elette a icone paradossali di una stagione manifestamente contraddittoria. A questi segni quotidiani, ripetuti e indicibili, non ho potuto rispondere che con il semplice click della mia macchinetta. Tutto questo si riproduceva in modo quasi sconcertante, via per via, negli agglomerati urbani che ancora oggi testimoniano spazi scanditi e assegnati per le emozioni, gli affetti, il lavoro: coazione a ripetere. Questo ho voluto documentare con le mie foto. E qui, l’interrogativo di Susan Sontag si fa conturbante: “di chi è la fotografia? Della fotografa o di chi sta posando e offre sé stessa come materia e ragione di tutto?”¹ Ampliando successivamente la percezione di una condizione esistenziale, da queste anonime quotidiane figure urbane, con L’Invenzione del Femminile: Ruoli ho inscenato (con una pratica sperimentale rivelatoria e la entusiastica collaborazione di mille giovani amiche) il ruolo che da secoli coarta e lusinga noi donne, nell’apparente variabilità del costume e della moda. Quasi tutte fingiamo di convincerci che il mutato costume corrisponda a una nuova originale identità.
M.S.: In sostanza questo tuo rapporto imprescindibile con la macchina fotografica, nonostante tu non ti definisca una “fotografa”, come e in quale contesto nasce? È la camera lo strumento privilegiato che lascia emergere questo ‘soggetto imprevisto’ che è il soggetto femminista? Quale è stato il tuo approccio al mezzo? Mi viene in mente il semplice registratore nella pratica (prima nella critica poi nell’autocoscienza) di Carla Lonzi.
M.C.: A metà degli anni Sessanta, una volta conclusi i miei studi di pittura all’Accademia di Brera, il forte disagio e la consapevolezza di praticare un linguaggio storicamente inventato dal maschile, provocarono ben presto – in modo forse accelerato – la certezza di voler percorrere altri modi e altre vie. Mi era necessario uno strumento più diretto e “neutro”, meno compromesso con i profondi meandri della ricerca pittorica contemporanea. Volevo dire, anche correndo il rischio di restare in superficie, volevo aprirmi e dialogare soprattutto con le mie simili. Questo il rischio che, quasi inconsapevolmente, sento di aver scelto allora, e forse più consapevolmente ho poi continuato a percorrere. Perché in realtà lo strumento fotografico è tutt’altro che neutro, come pensavo allora, ma è più simile all’Arco di Apollo che colpisce proditoriamente da lontano. Penso però di poter affermare che il modo debole e ripetitivo che ho adottato riconduca l’intera mia ricerca ai sommessi cicli operativi di Penelope e al suo tessere. Il mio è forse più un narrare, un declinare, insensibile a ogni certezza, piuttosto che la rivelazione forte e definitiva della freccia che colpisce il segno. Debole perché elude coscientemente il traguardo del pezzo unico, del pezzo d’arte, feticizzato dalla mitologia eventografica, perseguita dai media che non possono fare a meno dell’irripetibilità, dell’eccezionalità, della spettacolarità. Le mie immagini al contrario sono decisamente statiche, non sono certo il risultato di chissà quali appostamenti e furti (fotografia come caccia) ma, al contrario, prevale in esse la circolarità e l’interscambio dei ruoli.
M.S.: Risulta chiaro che è impossibile dissociare la tua ricerca estetica dal movimento femminista, di cui tu sei stata e sei tuttora parte attiva. Vorrei, dunque, sottolineare più esplicitamente la tua aderenza agli eventi della donna-in-lotta di quegli anni, attraverso altre serie fotografiche che fissano ritratti, proteste in piazza a Roma, e fughe nel campeggio internazionale femminista nell’isola di Femo, in Danimarca con Lea Melandri, Daniela Pellegrini, Silvia Truppi e altre. In fondo hai fatto parte del Collettivo di Via Cherubini, la sede storica più nota del femminismo milanese.
M.C.: Noi giovani ragazze di allora, anonime nella nostra vita quotidiana, abbiamo voluto lasciare una traccia che la macchina fotografica ha trattenuto ma che avrebbe potuto anche non esserci poiché l’evento era determinato dai nostri incontri, divertiti ma non carnascialeschi. Le immagini rimaste sono come la cenere che si deposita dopo un incendio. Insomma, per me non si trattava di fare una “nuova arte” ma di trovare la forza e il coraggio di formulare un interrogativo grande come il mondo. Questa impresa da nulla ha spinto il mio lavoro, con il quale ho tentato di non pagare fino in fondo la sudditanza a cui storicamente, almeno fino agli anni Settanta, eravamo duramente programmate. A questo mi sarei voluta dedicare dopo la lunga perniciosa iniziazione alla banalità figurativa, allora prescritta dalle altissime Istituzioni (le Accademie) delegate alla formazione artistica. In quegli anni avevo però imparato dal Dada che, mentre per i Futuristi i baffi alla Gioconda erano segno di irrisione dell’arte passatista dei Musei, il gesto di Duchamp intendeva mettere in discussione l’Arte tout-court. Nel Femminismo di quei giorni, nel mio gruppo di autocoscienza, avevo ben presto compreso la difficoltà di portare queste mie riflessioni. In quell’ambito dominava la presa di parola e la scrittura prediletta da Carla Lonzi, dalle sue e mie amiche. Non ho preso la parola ma l’ansia (giustificata umanamente), di pervenire e mostrare qualche mio personale risultato, mi ha spinta a questo lavoro. Con le immagini e la mia consapevolezza ho “fatto” femminismo. Per me è evidente che l’appassionato scambio e collaborazione attiva con tante amiche era un modo di prendere coscienza dei ruoli imposti dalla cultura patriarcale maschile, per avviarci su sentieri inesplorati. Tutto qui. Arriveremo a una verità ma che lo splendore della rivelazione non ci accechi, un giorno, come Edipo. Già adesso comincio a vederci poco e male (camera oscura).