Marinella Paderni: Dall’indagine sulle contraddizioni relazionali nei legami profondi (il rapporto madre-figlia nei video Mamma e Ama, la famiglia, l’amore e l’eros nella serie di sculture e disegni “One and many bodies”) e tra fenomeni sociali paralleli (l’immagine del “viaggio” nella condizione del migrante-profugo accostata a quella del turista in Summertime), oggi lavori sull’iconosfera analizzando le relazioni tra le immagini nella produzione della memoria e nella costruzione di nuove narrazioni visive. Per esempio, i tuoi recenti lavori Vietnam Wall Memorial e Between Now and Then sono composizioni di immagini trovate su internet e fotografie d’archivio, personali e non, “cucite” tra loro in una geografia visiva tra storia e finzione. Qual è stato il passaggio?
Marcella Vanzo: Non appena ho imparato a scrivere, a sei anni credo, ho scritto poesie, per narrare visioni. Il mio è stato a lungo un lavoro sulla visione, una visione interiore, quella legata al mondo dei sentimenti di cui parli e una visione esteriore, legata alla realtà sociale, politica, economica. Visioni che davano luogo a immagini, in movimento e non solo. Dopo circa dieci anni di lavoro mi rimane l’ossessione per i legami, le trame che tengono insieme, cuciono la realtà; la riflessione invece si è spostata sull’ontologia dell’immagine di per sé, come oggetto finito, come risultato: di una ricerca, di una transazione commerciale, di un’intenzione documentaria. Dando vita a una nuova maniera di procedere, a un processo infinito.
MP: Oggigiorno le immagini sono terreno di scontro, oggetto di teorie sempre diverse sulla fenomenologia del visivo. In special modo, sono diventate dei soggetti desideranti — sognano per noi, parlano per noi, vivono al nostro posto. Per Georges Didi-Huberman è difficile nella nostra epoca pensare “senza orientarsi nell’immagine”. Ritieni anche tu che l’umanità sia diventata iconofila? E in che modo il tuo lavoro si orienta in questo universo?
MV: Più che iconofila, direi iconoreferenziale. Viviamo in un archivio d’immagini e riferimenti in crescita esponenziale. In questo mare magnum io pesco a piene mani, mi lascio trasportare dalle immagini, mi lascio trovare. Funziono come magnete e filtro, è un metodo induttivo di sperimentazione e sedimentazione, dove realtà e finzione s’intrecciano in un percorso aperto, attivato da chi guarda. Un sistema in cui immagine e forma dialogano fino a espandere i propri limiti nello spazio, in modi che ora riesco solo a intuire. Da una dimensione, passo a due e a tre, in un percorso intermittente dove è proprio l’immagine a guidarmi.
MP: Una delle novità formali e linguistiche di queste opere è la presenza del cucito che unisce immagini di diversa natura legandole tra loro con una rete di fili di lana colorati. Nell’installazione Racines du ciel, la fotografia di una giovane donna africana è intrecciata a fotografie rovesciate di rami d’albero e a un “oggetto muto” (un objet trouvé) che funge da ready made. Che valore ha per te la pratica del cucito? E che altri significati può portare alla costruzione di un’immagine?
MV: Per quanto mi riguarda, il cucito è un gesto primordiale, istintuale, essenziale: il gesto con cui mettere insieme le immagini, gli oggetti, di cui sfrutto la qualità scultorea. Il risultato comunica immediatamente manualità, presenza umana, il passaggio del tempo, la strada percorsa. Accanto alle immagini stampate finite e algide, il filo comunica una trama, un passaggio, una giustapposizione. Fili di lana, cotone, seta, fibre che normalmente stanno a contatto con la pelle, legano lo sguardo alle immagini in un gioco di percezioni più veloci delle parole.
MP: Altro elemento importante è la riflessione sui processi di smaterializzazione del reale che il digitale e le nuove tecnologie stanno determinando — la distanza dal corpo e dall’esperienza diretta delle cose, la scomparsa del libro e delle narrazioni basate sulla parola, sull’astrazione del pensiero, sull’uso della voce e del suono.
A tale proposito, nel 2010 hai ideato la performance Rumors che oppone alla smaterializzazione il modello teatrale e le potenzialità inespresse dei linguaggi performativi. Raccontaci il senso di questo lavoro in progress, che non si esaurisce in un unico récit ma cambia a ogni nuova presentazione sulla base del luogo, della forma dello spazio, dei diversi attori.
MV: Rumors nasce dall’esigenza di scoprire l’origine dell’immagine. È un progetto sulla decostruzione della rappresentazione, ridotta ai suoi minimi termini: trama, voce, scena e corpo. Soprattutto voce e corpo, slegati e poi riaccoppiati. Mi interessava creare una performance portatile, a peso zero. Sono partita dalla voce, da una trama per la voce. Il mito di Medea — che da sempre mi affascina, ne ho lette tutte le versioni da Euripide a Christa Wolf — si trasforma in nove brevissimi monologhi: pettegolezzi, voci di corridoio, ricordi e intrighi, molto ironici e contemporanei, che parlano di sesso e potere, di Dio e degli uomini. Nove file di suono, nove voci, sempre le stesse — questo è il minimo comune denominatore — danno luogo a una performance ogni volta diversa, nuova: corpi nuovi in luoghi nuovi, i performer scelti per il physique du rôle, si adattano allo spazio.
Giasone è un body builder vanitoso che si allena, la sua voce è quella ipersensuale di Filippo Timi; l’ancella è una cameriera tesa in equilibrio a sostenere una chicchera di porcellana, la sua voce quella di una colf romena. Oltre a Filippo Timi hanno partecipato con grande generosità Arianna Sommegna, Steve Piccolo, i rapper Deviazioni che hanno letteralmente riscritto e musicato — che verbo antico —, il pezzo dei figli di Medea; Paolo Maria Noseda, l’interprete simultaneo di Che tempo che fa, in un mix di sacro e profano di gusto pasoliniano. Rumors è un dispositivo concettuale per dare luogo a diversi tipi di rappresentazione in spazi differenti e allo stesso tempo riflettere sul significato di rappresentazione.
MP: Quali sono le sue tappe?
MV: La prima è stata al Teatro Studio di Scandicci, a cura di Pietro Gaglianò, dove è stato davvero interessante confrontarsi con uno spazio prettamente teatrale e anche con attori professionisti — una compagnia notevole, i Gog Magog — che si sono offerti come performer. All’inizio ero molto intimidita dato che non avevo mai lavorato con attori, che invece mi hanno sostenuta e apprezzata. Ora vorrei che Rumors viaggiasse in ogni tipo di spazio, pubblico, privato, istituzionale, segreto, proprio perché l’adattabilità è la sua natura e in ogni luogo nascono immagini diverse. Legando la duttilità di questo progetto al mio mezzo primigenio, il video, in questo periodo sto lavorando per fare di Rumors anche un film d’arte. Insomma è un progetto a trecentosessanta gradi, dalla voce alla performance, al video documento, al film d’arte, alla fotografia, che mi permette di esplorare la versatilità e la reversibilità dell’immagine.