Torino, 1970: una fotografia scattata da Paolo Bressano nello studio di Marco Gastini (Torino, 1938) mostra un grande telo in polietilene percorso da una linea di pittura. Tracciata in senso orizzontale, la linea non ha la durezza di un gesto netto, ma accoglie le naturali indecisioni di una pennellata stesa a mano libera, con la stessa nervosa immediatezza che ci potrebbe essere in un disegno tracciato a matita. Anche se l’immagine è in bianco e nero, emerge il radicale impiego di un’inedita materia pittorica dai sintetici bagliori metallici tipici della vernice industriale. L’ampiezza del segno pittorico che attraversa i quasi quattro metri del polietilene dimostra una relazione con lo spazio ben oltre i confini dell’idea di quadro. Ma è proprio a partire dalla scelta del supporto – questo ampio foglio di plastica trasparente che occupa tutto lo spazio possibile tra il soffitto e il pavimento – che si comprende la pionieristica indagine condotta in quegli anni da Gastini. Infatti – e questo è forse il dato più interessante che la documentazione fotografica trattiene – l’artista è ritratto mentre si accinge a percorrere lo spazio dietro al telo. L’ingresso in quel verso (opposto al recto) che tradizionalmente è condannato all’ombra e alla non-significanza, è un’azione consapevole, carica di una forza capace di destabilizzare l’intero ordine della tradizione pittorica.
Torino, 2016: camminando verso lo studio di Gastini per vedere gli ultimi lavori dell’artista mi fermo davanti a Il suono dei segni (2014). Da un paio d’anni, per chi attraversa la città lungo la linea longitudinale di uno dei suoi grandi corsi, il rigore urbano delle facciate delle case si interrompe all’improvviso, per animarsi in un intrico di dinamici segni luminosi. Il suono dei segni è una grande installazione permanente ideata da Gastini per un innovativo edificio residenziale (Casa Hollywood, edificata su un sito già occupato da uno storico teatro e poi cinema dalle sorti alterne). Realizzata con ferro e sottili led di un vibrante color blu oltremare, l’opera definisce uno spazio aereo dalle molteplici profondità, attraverso un reticolo che racconta la fluidità di un disegno conciso e orgogliosamente pittorico, che a tratti sembra accogliere le inquietanti e instabili frammentazioni che si manifestano nella grafia quando trascritta in formato digitale.
Attraverso quasi cinquant’anni di attività, il percorso di Gastini si distingue quanto a indipendenza e unità di intenti, pur testando costantemente nuovi ambiti e problematiche (come anche evidente dai suoi scritti dove spesso tornano questioni relative alla “tensione”, allo “sbilanciamento” e alla “discontinuità”). Cresciuto nel clima europeo del post-Informale, Gastini ne ha metabolizzato le angosce e i tormenti, proponendo una pratica artistica capace, anche nella tensione, di trasmettere un’energia positiva. Maturato negli anni del rigore dell’arte concettuale e vicino agli artisti dell’Arte Povera, Gastini non ha aderito a nessuna delle rispettive premesse teoriche, pur addentrandosi in un percorso di ricerca nel quale l’aspetto ideativo e progettuale, così come l’elemento processuale hanno avuto ruoli importanti. Ma se si vuole ancor meglio definire l’indipendenza di Gastini, credo che essa risieda soprattutto nel rigore – direi quasi nell’orgoglio – con cui ha sempre pensato a se stesso come a un “pittore”, scegliendo di continuare a stare dalla parte della pittura anche in anni caratterizzati da un dilagante rifiuto culturale della stessa, come teoria e come pratica. (Che poi si sia trattato per alcuni altri artisti di un’evasione temporanea, terminata con repentine inversioni dagli anni Ottanta, è un fatto da non dimenticare.)
Dagli esordi, a Gastini, la convinzione che la pittura fosse il proprio linguaggio specifico non è mai mancata. Piuttosto, si trattava di ridefinire la misura intellettuale di questo ambito, allargandolo attraverso nuove e fertili relazioni. L’ampiezza del progetto di Gastini include il rigore quasi yogico di una pratica artistica assolutamente quotidiana (non c’è giorno che l’artista non vada nel proprio studio), intervallata solo da passeggiate nella natura, soprattutto in montagna, durante le quali l’artista scatta numerose fotografie. Molto di più che semplici istantanee, queste immagini, con le loro peculiari inquadrature e resa del dettaglio, talvolta precedono o vivono in parallelo con i materiali, le forme, i colori e le relazioni dinamiche che si sviluppano nelle opere. Continuando ad approfondire lo studio della metodologia lavorativa dell’artista, non va dimenticata la funzione che ha la riflessione scritta. Caso piuttosto raro nel panorama italiano, la scrittura per Gastini ha un ruolo molteplice, che va dalla progettualità precedente l’esecuzione delle opere, alle riflessioni che ne accompagnano la realizzazione, fino alle potenziali conseguenze. Sulle pagine di questa stessa rivista nel giugno del 1973, Gastini scriveva:
“La questione è quella della pittura, della pittura e del dipingere. Dire pittura, dire dipingere significa porsi in una discontinuità, concentrare l’attenzione, concentrarsi; l’attenzione stacca il gesto, l’azione distanzia lo spazio indifferenziato, lo spazio oppone un altro spazio, a sua volta discontinuo. […] La questione è obbligare l’altro spazio, la pittura, a rivelarsi”. [Flash Art no. 41, giugno – settembre 1973, p. 21.]
Le prime importanti occasioni di questo disvelamento maturano già dal 1967, quando Gastini rivoluziona la sua ricerca con un deciso abbandono di tele e pennelli, per accogliere invece materiali nuovi, tra cui smalti, vernici industriali e soprattutto supporti plastici, come il plexiglas o il nylon, la cui aerea trasparenza si articola in pionieristiche installazioni ambientali, come ben si vede da una significativa foto di documentazione scattata in quello stesso anno nello studio dell’artista a Torino. Le opere-installazioni emanano un’energia inedita, nella quale i supporti trasparenti veicolano l’incontro dialettico tra parete e pavimento, oppure si insinuano nello spazio tridimensionale aggettando a cascata o pendendo come bacchette dal soffitto. Queste energie si condensano in lavori come Cascata (1967), Linea d’aria (1968), 12 aprile (1969). Altro passo fondamentale sono i graffi sui plexiglas di poco successivi (tra cui Due e Tre, 1972), opere nelle quali il segno inciso sul supporto e la conseguente ombra che ne risulta, complicando intenzionalmente la percezione dell’opera, approfondisce quell’interesse per lo spazio tra l’opera e il muro già anticipato nell’installazione del 1970 citata all’inizio di questo articolo. In quell’arco di anni, l’artista produce anche le note “macchie”, fusioni in piombo e antimonio che migrano su muri e ambienti. Per la sua mostra “(in) Spazio” presso il Salone Annunciata, Milano, nel 1971, scrive:
“La concentrazione sulla macchia significa attirare contemporaneamente attorno alla macchia uno spazio più ampio dello spazio che ci circonda, uno spazio fisico più uno spazio mentale. La macchia li porta tutti e due: nasce prima del supporto, compie un percorso da una spazio (questo) reale a uno spazio (altro, continuamente) virtuale”.
E ancora aggiunge:
“ Il progetto di disposizione delle macchie sul supporto può essere ricombinato a piacere, perché il progetto non è nell’energia della macchia, ma nella definizione di una potenzialità, di una virtualità. La pittura è sempre virtuale”.
“La pittura è sempre virtuale”: grande è la tentazione di interpretare quest’affermazione di Gastini come una visionaria anticipazione della massiccia rivoluzione digitale che sarebbe arrivata negli anni Ottanta, quando la diffusione a livello domestico dei primi computer avrebbe modificato per sempre il concetto di spazio. Tuttavia, senza cedere a speculazioni eccessive, è chiaro che l’intera ricerca di Gastini, scandagliando in profondità idee come quella dello spazio “dietro”, dello spazio “in mezzo” e dello spazio “potenziale”, ha elaborato una concezione della pittura come ambito ramificato e onnicomprensivo, da percepire con la mente e con il corpo. Ecco quindi che le molteplici evoluzioni del lungo percorso di questo artista – penso alla successione di opere-chiave come il reticolo puntiforme di Disegno (1972), la quadreria azzerata di Project (44 units) (1977), o ancora le carte strappate di Paesaggio (1978), per arrivare poi nei due decenni successivi all’esplosione materica del colore, all’uso del legno, dei tondini in ferro e delle lose antiche, e in tempi recenti alle installazioni permanenti o al ciclo Matera (2014 – in corso) – manifestano una capacità di riscoprire continuamente la pittura nella più assoluta libertà, anche con virate repentine e innovazioni stilistiche radicali, come pochi altri artisti si sono concessi. “Mi hanno sempre attratto le cose in bilico, siano questi pensieri, azioni, materiali, segni che stanno per muoversi, cose mai ferme, attrazioni o repulsioni, cose come in sospensione, in attesa”, scrive nel 2002 per una personale alla Galleria Lorenzelli, Milano. Soprattutto, si può dire che la pittura “virtuale” di Gastini, possa essere intesa come la ricerca costante di un concetto pittorico multiforme e dinamico, un’ideale che lo stesso artista sposta sempre un po’ più in là, in modo che l’insieme delle opere ne trasmetta l’energica presenza, senza però rivelarne l’esatta natura. “Questa è la pittura”, scrive ancora l’artista; “una pittura che non dev’essere catalogabile, che deve sbilanciare per essere vera, e che deve sfuggire alle intenzioni, anche alle mie”.