Simone Menegoi: La prima volta che ho sentito parlare di voi è stato in rapporto alla regola, a cui vi siete attenuti per anni, di non inviare alcun materiale fotografico o video delle vostre azioni a curatori, critici e galleristi interessati al vostro lavoro. In cambio, proponevate di compiere delle “dimostrazioni” dal vivo nei luoghi di lavoro o nelle abitazioni di chi vi contattava. Perché questa scelta? Eravate diffidenti nei confronti della mediazione delle immagini, fisse o in movimento? E perché ora fate delle eccezioni alla regola? So che da qualche tempo producete dei video, per le mostre e per il mercato.
Marie Cool e Fabio Balducci: Rispetto al controllo della circolazione di azioni e immagini abbiamo deciso questo comportamento a partire dal 1997, quando abbiamo sentito il bisogno di proteggere il senso di ciò che facevamo. Dapprima abbiamo cercato un confronto diretto con curatori e artisti (e bisogna dire che gli artisti si sono subito dimostrati i più interessati): chiedevamo i loro tavoli per poter eseguire il nostro lavoro, chiedevamo i loro spazi per occuparli con la nostra realtà. Chiedevamo un’esperienza diretta da parte del mondo esterno, da qui il rifiuto della documentazione, che di per sé media. Tutto secondo noi in questa esperienza doveva essere spontaneo, per così dire, utopico. Quando però, intorno al 2006-7, questo aspetto è stato interpretato a torto come dogmatico, abbiamo deciso di produrre la documentazione video. Era una contraddizione da attraversare. E a quel punto abbiamo capito anche che quella contraddizione ci portava la libertà che all’inizio avevamo con la regola. Attenzione: la regola era una disciplina, non una legge.
SM: In termini di medium, come concepite il vostro lavoro? La definizione di “performance” vi soddisfa?
MC/FB: Più appropriati sarebbero forse i termini “scultura” o “disegno”, anche se non amiamo le definizioni, che ci sembrano sempre limitative. Tuttavia nelle nostre operazioni la mobilità (nello spazio) ci pare naturale e indispensabile, così come la pratica costante dell’antitesi: è l’atteggiamento della negazione, in fondo, a definire la nostra attività.
SM: Qual è stata la vostra formazione? Quando avete cominciato a lavorare insieme?
MC/FB: Abbiamo cominciato a lavorare insieme nel 1995, il nostro lavoro si è configurato subito negli stessi termini in cui si presenta oggi. Entrambi sentivamo esaurite le esperienze da cui provenivamo, Marie dalla danza contemporanea, Fabio dalle arti visive e dal cinema, così come il rapporto con i rispettivi luoghi di origine (Marie dal Nord della Francia confinante col Belgio, Fabio dall’Italia centrale).
SM: Nel caso delle azioni, davanti al pubblico c’è sempre e solo Marie. Qual è il tuo ruolo nella coppia, Fabio? Come funziona la vostra collaborazione?
MC/FB: Non lavoriamo insieme che in rari momenti. Abbiamo tempi e dinamiche di riflessione differenti, e questa differenza non permette una collaborazione lineare né tranquilla, ma avendo una chiara idea del senso e della finalità del lavoro, il nostro incontro avviene unicamente per decidere se una certa azione gli è compatibile. L’unicità di Marie in “attività” non è prescrittiva, dal momento che l’attitudine del nostro lavoro non è sistematica. Ultimamente, infatti, altre persone eseguono le azioni al posto di Marie.
SM: Credo di non aver mai visto una delle vostre azioni interpretata da qualcuno che non sia Marie. E fatico a immaginarle senza la sua presenza, senza l’ipnotica precisione dei suoi gesti. Come funziona la delega? Come scegliete le persone che eseguiranno le azioni nel corso di una mostra?
MC/FB: Nel passaggio da Marie a un’altra persona la stessa possibile perdita di precisione ci sembra interessante perché in questa fase della nostra ricerca la questione che vogliamo porre e proporre è se una rivolta individuale possa diventare collettiva. Non scegliamo noi le persone estranee che realizzano l’azione, l’unica preferenza che esprimiamo è che esse non esercitino professioni vicine al mondo della cultura. Normalmente esse vengono dunque proposte da associazioni che si occupano genericamente di collocamento al lavoro. Un’altra ragione che ci ha spinto a cambiare secondo l’occasione l’esecutore materiale dell’azione è stata l’esigenza di non renderla identificabile con l’unicità della figura di Marie, ma di focalizzare il senso dell’azione sul rapporto tra figura umana in senso lato e oggetti della quotidianità odierna del mondo, nella modalità congiunta di resistenza e rivolta.
SM: Parlando di oggetti: molte delle vostre azioni hanno come supporto dei tavoli. Tavoli ordinari, da ufficio. E le vostre opere statiche sono tutte collocate su tavoli, o usano il piano del tavolo come elemento integrante. Cosa significa per voi l’oggetto “tavolo”?
MC/FB: Il tavolo per noi rappresenta la superficie della produzione comune, uno spazio di produttività e di socialità. È però anche un oggetto attraverso cui può esplicitarsi una gerarchia fra persone e fra cose. Noi proviamo a focalizzare la superficie per eccellenza della società odierna, cerchiamo di ostacolare il senso automatico delle azioni che si effettuano su questo spazio quotidianamente. La maggior parte degli oggetti che utilizziamo per bloccare il tavolo sono oggetti praticamente desueti nella pratica attuale del lavoro, desueti come l’individualità singola all’interno della logica sistemica. Non a caso nelle azioni utilizziamo la lentezza: come pratica oppositiva.
SM: Guardo al vostro lavoro come a un esempio significativo del rapporto fra arte e politica. Significativo perché non ovvio, non affidato a dei “contenuti” espliciti. Da una parte, ci sono azioni e sculture rarefatte, che sollecitano un’attenzione di tipo contemplativo, e sembrano presupporre una dimensione silenziosa e protetta — il classico white cube, se volete. Dall’altro, c’è la vostra passione per la rivolta contro l’autorità costituita, politica o religiosa: nell’antologia di testi che mi avete inviato in preparazione a questa conversazione si trovano motti luddisti, citazioni di Ulrike Meinhof, frammenti di eresiarchi gnostici, slogan anarchici… In quale punto si toccano queste due componenti della vostra poetica? Dove, e come, scocca la scintilla con cui si accendono a vicenda?
MC/FB: Bisogna pensare alla rivolta calma di Bartleby (“Preferirei di no”): scialba e povera nella sua forma ma battente. Questa posizione (individuale) ci interessa.
SM: Nel settembre scorso avete esposto in un complesso industriale dismesso alle porte di Bergamo (Contemporary Locus 09, a cura di Paola Tognon). Gli spazi portavano ancora i segni del lavoro che una volta vi si svolgeva. È stato interessante per voi esporre in un contesto così connotato? Che opere avete presentato?
MC/FB: Abbiamo presentato tre azioni: Senza titolo, foglio di carta A4, tavolo da ufficio del 2002; Senza titolo, due rulli di scotch, tavolo da ufficio, ancora del 2002; Senza titolo, riga di plastica da 60 cm, proiettore luce, tavolo da ufficio, 2010, e Senza titolo, scotch, acqua, tavolo da ufficio, 2011. Quest’ultima situazione comporta un tavolo la cui superficie è totalmente invasa da acqua che viene trattenuta entro il bordo, per ragioni fisiche, soltanto da un sottilissimo scotch che lo delimita: un rapporto fra elemento artificiale e naturale, di cui quello naturale, l’acqua, è oggettivamente incontrollabile da istituzioni e potere. Nell’ambiente abbiamo inserito elementi del nostro lavoro come una sedia e delle lenti di Fresnel, non in quanto opere compiute ma come indici di una situazione aperta, non ancora decisa né conclusa. Oggetti in attesa di scelte successive. Lo spazio dell’esposizione ci ha confortato nella scelta di azioni “asciutte”, “secche”, decise qualche giorno prima dell’installazione. Definiamo “asciutta” la tensione che si sviluppa nel nostro lavoro a fianco di quella poetica. Volevamo evitare la seduzione del luogo con la sua particolare memoria; celebrarlo era una contraddizione rispetto alla politica del nostro lavoro. Perciò abbiamo scelto azioni che davanti agli spettatori prescindessero dal carattere del luogo e sviluppassero piuttosto situazioni ermetiche, in linea con la fase attuale della nostra attività, che privilegia appunto la tonalità “secca” rispetto a quella poetica.
SM: Quando presentate delle azioni, di solito queste ultime vengono ripetute per tutta la durata della mostra, durante l’intero orario di apertura. È una scelta radicale, che mette alla prova tanto i performer (in primo luogo Marie) quanto l’istituzione. Cosa vi ha spinto a fare questa scelta?
MC/FB: In primo luogo sentivamo come un grave limite i tempi che l’istituzione ci assegnava: spesso la nostra attività veniva collocata fra una mostra e l’altra. Era evidente da parte dell’istituzione l’indifferenza fra le varie proposte e la focalizzazione sulla vitalità puramente esteriore degli spazi espositivi. Occupare il tempo completo di una mostra è un segnale: in questo modo l’istituzione assume la propria responsabilità nella scelta e nella presentazione del lavoro. Ma la ripetizione delle azioni nella giornata viene esercitata Senza titolo, 2002. Foglio formato A4, tavolo da lavoro. Courtesy Marcelle Alix, Parigi e Contemporary Locus, Bergamo. Foto: Mario Albergati anche per non renderle attivabili soltanto all’ingresso del pubblico, che viceversa deve rendersi conto di entrare all’interno di un flusso in atto.
SM: Le azioni che avete concepito nel corso degli anni restano idealmente attive e possono essere riproposte nelle vostre mostre, da sole o in combinazione con altre. Vi interessa l’idea di “repertorio”, tipica della musica e del teatro?
MC/FB: Il nostro lavoro è più affine al rito, dunque l’idea di repertorio nel senso cumulativo del termine non ci rappresenta. È questa natura del lavoro che permette di presentare insieme azioni nate in tempi anche molto distanti cronologicamente. Peraltro l’idea di repertorio allude alla sistematicità e ci sembra normativa, mentre il carattere di “resistenza” ci sembra il più appropriato per definire il nostro comportamento: è la contrapposizione, l’antitesi l’unico sentimento che ci appartiene.
SM: Le vostre azioni sono — e sono sempre state, per quanto ne so — mute. La parola non compare mai, neppure nei titoli, sono tutte dei “senza titolo”. Perché?
MC/FB: Perché siamo socialmente sordi. E la sordità ci permette di essere metodici.