Sei nata a Torino?
Amo molto quella città.
Ma è là che sei nata?
Non me lo ricordo più.
Apparentemente assente, distratta, ti spiazza con poche parole che vanno dritte al centro della questione e, come cerchi nell’acqua, dilatano lo spazio e ti offrono una nuova prospettiva. Sfugge alla logica corrente perché ne ha una propria, nella quale le regole sono ferree. Non mi aspetto niente da un artista, ma so che inevitabilmente l’esperienza sarà fondamentale per la mia vita, e per quella della mia équipe. “Passate il vostro tempo a levare della carta e a rimetterla, costruire dei muri e distruggerli, installare delle opere e toglierle. È questa per voi l’arte contemporanea? Quando si sa quello che si vuole, non si toglie nulla.
”Conoscendo Marisa Merz ho scoperto una personalità unica perché in lei l’arte e la vita sono assolutamente indivisibili. E non si tratta di retorica. Dopo che sei entrata in relazione con lei, la vita che hai fatto finora diventa straniante. Con tutte le conseguenze che ne trai. Marisa Merz sembra avere allo stesso tempo la consistenza della pietra e della musica. Già nella figura sintetizza quel senso di fragilità e potenza che esprime in ogni suo gesto artistico: l’arte esige una forma di urgenza, di violenza e non ci sono limiti a quello che si fa perché nulla è fisso, perché le cose evolvono e mutano, fortunatamente.
Marisa Merz è una delle figure artistiche femminili più trasgressive e forti del nostro secolo (quello che è finito e quello che è appena iniziato). Inarrivabile e indefinibile, fin dagli esordi negli anni Sessanta non ha mai messo al centro della questione se stessa, non si è mai raccontata o analizzata, rifiuta le interpretazioni psicologiche o biografiche: il suo lavoro è sempre un discorso deciso sull’arte, la storia e la storia dell’arte. Quello che mi affascina di più è la capacità di rinnovamento nella sua ricerca. Anche se non conosciamo la sua data di nascita, dal lavoro esposto e presentato nelle più prestigiose e inattese istituzioni internazionali, il rinnovamento ha una durata meravigliosamente estesa. Marisa Merz passa con disinvoltura dal piccolo formato dei disegni su tela a immensi fogli di carta giapponese (fatta a mano durante uno dei viaggi in Giappone con Mario Merz), dove sperimenta la pittura, anche se la scultura resta un punto fermo quotidiano. Il suo impegno, che ricopre tutta una giornata — dove la notte e il giorno sono mescolati —, provoca vere performance artistiche, alla ricerca continua di nuove forme, di nuove dimensioni e altrettanto inediti procedimenti. Il suo lavoro sul movimento, la sua concentrazione e la sua passione sono esemplari. Rifiuta ogni banalizzazione e mantiene una tensione costante in tutto ciò che fa.
L’ho conosciuta a Villa Medici nel 2000, per la mostra “Le jardin”, a cura di Laurence Bossé, Carolyn Christov-Bakargiev e Hans-Ulrich Obrist, quando Mario Merz depose sul prato di fronte al sagrato della Villa il suo violino in cera, che sarebbe stato ritirato qualche giorno dopo perché il sole romano non lo danneggiasse. Poi, qualche anno dopo, ci siamo riviste al Castello di Rivoli, e mi ha detto che la divertiva l’idea di recarsi sulla mia isola, a Vassivière, aggiungendo che sarebbe voluta venire in macchina per rendersi conto dei mutamenti del paesaggio. Credo che questo le ricordasse un viaggio fatto con Mario Merz a Bordeaux.
Durante i viaggi da Torino a Vassivière (cinque, avvenuti tra maggio e ottobre 2010, l’ultimo dei quali con Remo e Sally Salvadori), Marisa Merz non ha mai smesso di interessarsi e discutere sulla storia della Francia e sulle personalità politiche e intellettuali che hanno contribuito a formarla. Ma è particolarmente affascinata anche dal Giappone come dalla Cina e dalla figura di Matteo Ricci. Abbiamo avuto lunghe conversazioni sulle icone femminili raffigurate nelle chiese che visitava quotidianamente; la sua fermezza e la sua ironia ti colgono all’improvviso e ti sorprendono, come quando, alla proposta di fermarci lungo la strada al ristorante del museo di Saint-Étienne, ha detto: “No, non mangio con l’arte moderna”.
Una volta arrivati a Vassivière, le prime domande avevano come argomento l’architettura di Aldo Rossi, che ha progettato la sede del Centre international d’art et du paysage de l’île de Vassivière alla fine degli anni Ottanta, e il suo rapporto con il paesaggio: Vassivière era un agglomerato di cinque villaggi al posto dei quali ora vi è una diga, un grande lago e delle colline; Marisa Merz si interessava alla sua integrazione con quella prateria così stranamente inclinata. Mi chiedeva come funzionassero la diga e le sue turbine, studiava la geometria che lega questi spazi tra loro. Ed è proprio questa preoccupazione per la geometria che si ritrova nella sua mostra, nelle sue opere per Vassivière (tenutasi dal 15 luglio al 26 settembre 2010, ndr). Marisa Merz ha una passione per quel che costituisce la natura e l’essenza degli spazi nei quali lavora (la distanza tra le cose, la prospettiva, la circolazione dell’energia). Tanto che per lavorare si è ricostruita un atelier, ha sistemato uno spazio nel sottosuolo del Centre international d’art et du paysage dove ha trovato l’equilibrio tra luce e ombra giusto per lei. Questo è diventato il suo luogo di lavoro e un rifugio, un vero e proprio luogo di vita e di lavoro incessante. Vassivière è senza suoni, un giorno nel suo “magazzino” è entrato Wagner per suo desiderio.
All’inizio, mentre stavamo visitando l’isola e si cominciava a parlare della mostra, ha immaginato un’altalena. L’idea mi aveva divertito molto e mi sembrava rappresentasse bene il respiro del paesaggio e il senso di eterno movimento e di scientifica precarietà che sono alla base del suo pensiero. Poi, entrando in intimità con il territorio, ha preferito un’interazione ancora più diretta con le forme stesse del centro d’arte, costruendo un dialogo tra l’esistente, le sue tele e le sue sculture. Al posto dell’altalena, sarebbe stato un prato a entrare nello spazio espositivo.
Sempre coerente con il suo processo creativo, Marisa Merz non ha nascosto il suo categorico rifiuto per qualsiasi imposizione di tipo organizzativo. Non ha permesso che argomenti come la data d’apertura della mostra, di possibili cene, inviti, comunicati o altro turbassero il suo ritmo interiore e il suo lavoro. Per lavorare con lei, infatti, bisogna accettare di cambiare il proprio ritmo, di aspettare i suoi tempi. È necessario ed estremamente arricchente entrare nella sua dimensione che comprende bene il presente ma con un velo di malinconia. “Le automobili hanno ucciso la campagna, ora la gente vuole andare veloce — mi diceva durante un viaggio — ci sono le autostrade e i paesi sono tutti vuoti. Prima, con Mario, ci si poteva fermare dovunque nella campagna. C’erano ristorantini pieni di fascino, è così che ho scoperto il Massif central.”
A Vassivière, Marisa parlava spesso di questa assenza di vita, dei cambiamenti degli spazi urbani, si è confrontata con il vuoto e quel senso di isolamento che provoca l’isola, dichiarando anche di apprezzarne la quiete. “Non esiste altro luogo come Vassivière. Il lago è assolutamente calmo ma altrettanto forte. Il bosco e il lago sono lisci.”
Per il suo atteggiamento e il suo rapporto con il mondo dell’arte, Marisa Merz mi ricorda spesso Gino de Dominicis: entrambi hanno fatto della loro stessa esistenza un’opera complessa e misteriosa. Sono in qualche modo accomunabili per le loro personalità: hanno coltivato ed elaborato un’idea nobile e solitaria della creazione artistica. Non hanno mai smesso di lavorare alla loro opera, scegliendo un’impostazione esistenziale che li ha resi refrattari al mondo. Sono apparsi poco in pubblico, hanno rifiutato di appartenere a una corrente artistica specifica e non hanno mai ceduto alla facilità delle confidenze personali. Trovo che il loro lavoro sia caratterizzato da una discrezione e un’intensità che hanno contribuito alla creazione di un’opera affascinante nel suo complesso, che rende omaggio alla bellezza e riguarda mondi segreti.
Lo spettatore è invitato e rapito dai tableaux vivants di Marisa, dei quali non dà la chiave, ma i cui elementi, caricati di una memoria insieme collettiva e personale, fanno perdere l’equilibrio al nostro conscio. Lo stralcio di conversazione riportato di seguito, avvenuto tra Marisa Merz e il mio assistente Frédéric Legros a Torino, nella casa dell’artista, racconta molto:
MM: “Dopo tanti anni non sono mai riuscita a piantare un chiodo nel muro, penso che sia una questione di energia. L’energia del martello che deve forzare l’oggetto in un solo punto. Il muro che resiste e deve scansarsi.”
FL: Sicuramente il chiodo ha la sua volontà e bisogna comprendere tutti gli elementi.”
Il fascino del processo mentale di Marisa Merz sembra risiedere nella continua ricerca di un punto di equilibrio tra le cose e i sentimenti, consapevole dell’impossibilità di mantenerlo. Custode di segreti e visioni, inflessibile eppure capace di dolcezza, sa che il mondo è suscettibile di aggiustamenti continui. Esprime con gentilezza e potenza il tormento e la magia del femminile, traduce il linguaggio del quotidiano, parla dell’infinitezza di ogni cosa con la lievità dei saggi e dei bambini. I non detti, con lei, assumono il valore di un’affermazione, perché Marisa Merz traccia un contorno e poi lo cancella. Non ama i convenevoli, è refrattaria alle modalità del sistema e ha un approccio critico e meticoloso anche rispetto agli stereotipi linguistici, alle parole. La poetica di Marisa Merz è un incantesimo che traduce la realtà in totale evanescenza e credo che, per quanto irraggiungibile, abbia influenzato molti. Appartiene al mondo ma ne è anche distante, ha fatto della sottrazione una sorta di credo che però è pronta a smentire con la stratificazione, la somma, perché con la realtà intrattiene un rapporto dialettico serrato. Lucidissima, ne comprende le contraddizioni, la complessità, ma non si lascia mai distrarre o sedurre. Il rigore è un suo tratto distintivo, ma ha uno sguardo indulgente verso il mondo solo se decide di averlo: “Quel che bisogna misurare non è la dimensione della tela, ma è la propria memoria. L’arte è una cosa mentale”.