Sara Dolfi Agostini: Era il 1978 e tu eri appena arrivato a Boston per studiare al Massachusetts College of Art.
Jack Pierson: Già nel primo semestre conobbi Stephen Tashjian — Tabboo! — e Kathy, che lavorava al C’est si Bon, un caffè di moda che impiegava un po’ di studenti d’arte. Mark ci lavorava come lavapiatti, io andavo a spillare caffè gratis. Quando mi invitò a uscire, Stephen, che lo conosceva bene, mi mise in guardia: disse che era un tipo estremo, punk rock, ma non servì a molto perché ci mettemmo insieme la sera stessa e a settembre andai a vivere con lui e Stephen.
SDA: Da allora e fino alla partenza di Mark per New York, a metà degli anni Ottanta, sei il soggetto principale della sua produzione artistica. Nel tuo libro Self Portrait (2003), ironicamente, lasci al volto di uomini sconosciuti la rappresentazione di un ipotetico sé. Come ti ha influenzato quella continua attenzione fotografica sul tuo corpo?
JP: Tra noi non era tutto rose e fiori. Mark era arrogante e competitivo, si credeva il migliore, e io a quei tempi ero acerbo, pensavo ancora di mollare tutto da un momento all’altro. La nostra relazione era perturbata da scontri continui, con lui dovevi dimostrare di che pasta eri fatto, subito, altrimenti ne eri sopraffatto. Certo, mi ha dimostrato che le cose possono accadere, senza farmi da balia: lui che è arrivato alla soglia dei trent’anni con quindici mostre all’attivo e lavorava con Pat Hearn, la migliore gallerista newyorkese ai tempi e sua amica intima. Sul versante artistico, ogni fotografia era un “ma perché?” e sembrava inguardabile. Ma c’era dello humour, ed è questo elemento che mi ha accompagnato nella realizzazione della serie “Self Portrait”.
SDA: Uno humour che attraversava tutto il suo immaginario fotografico, con cui sfidava il mondo esterno, sempre inquadrato da lontano, sfumato e inafferrabile. Una provocazione continua, insomma?
JP: Sì, anche nei confronti del sistema dell’arte. Tra le primissime stampe su carta gommata ci sono quei ridicoli chiwawa, che sono poi un’asserzione contro le pretese di una certa intellighenzia; poi nel periodo newyorkese, hai presente quello scatto con il festone azzurro attorcigliato sul lato di un pezzo di carta? La galleria di Pat Hearn era l’epicentro del movimento Neo-Geo (Neo-Geometric Conceptualism), tra le cui fila militavano Peter Halley e il suo amico Philip Taaffe, che faceva un lavoro astratto sulla falsa riga dei dipinti di Barnett Newman con grande successo di pubblico. Mark era allibito dal fatto che si potesse avere successo ripercorrendo una strada già nota e aveva deciso di proporre la sua versione. Era uno scherzo, suonava provinciale: è questo che vuoi? Eccolo. Però guardando quella fotografia, ancora oggi, c’è coerenza con una nuova direzione di austerità che stava intraprendendo a New York, anche se poi, l’elemento geometrico, un irriverente festone, è un retaggio della sua vita da outsider.
SDA: Ancora prima c’era Dirt Magazine, una fanzine concepita a 16 anni con l’amica Lynelle White e diffuso su carta Xerox. Un amalgama di ritagli fotografici, gossip, bugie e volgarità sulle celebrità che abitavano i rotocalchi americani. E una confessione: “Siamo troppo giovani per essere così viziosi (come ci credete voi lettori) e spietati… tutti ci amano”.
JP: Trovai le fotocopie malconce di Dirt Magazine in casa e ancora oggi lo trovo molto divertente, assolutamente isterico.
SDA: La prima mostra invece è del 1981 da The 11th Hour Gallery a Boston, con i ritratti degli amici di sempre. Tu che esci dalla doccia circondato da una drammatica luce ambrata, quel tuo sguardo da gioventù bruciata e Lynelle che fissa il vuoto con la silhouette di Mark armato di macchina fotografica riflessa sullo specchio. Performance o vita reale?
JP: Mark organizzava i set tra le pareti domestiche, e poi c’ero io che abitavo lì ed ero a disposizione. Mi guardava e diceva: “Aspettami, torno subito”. Era la nostra vita quotidiana, guardavamo con occhi languidi agli anni Cinquanta, volevamo essere affascinanti e facevamo di tutto per esserlo, curando nei dettagli la casa, i vestiti, i capelli. Vivevamo una vita teatrale e la documentavamo.
SDA: Poi Mark, al buio della camera oscura, trasformava quelle scene di vita quotidiana in un mondo “altro”, le velava di eterno. Per ore sperimentava tecniche di stampa antiche care ai pittorialisti, come il cianotipo e l’uso della carta gommata, e ne inventava di continuo di nuove, una fra tutte la ormai celebre sandwich print, la sovrapposizione di due negativi, uno a colori l’altro bianco e nero. Chi erano i suoi maestri spirituali?
JP: Tutti noi guardavano a Paul Outerbridge, Mark in particolare amava molto Pierre Molinier; ma avevamo anche le antenne tese sui contemporanei, come la fotografa di moda Shelia Metzner e Mary Ellen Mark, che aveva pubblicato nel 1981 il libro Falkland Road, dedicato alle prostitute di Bombay.
SDA: Con le Polaroid, invece, l’apprezzamento dell’immagine era immediato e lo scatto più intimo. Penso ai tuoi bronci e all’altalena di emozioni che affiorano nei vostri volti. Mark ha affidato proprio alla Polaroid la sua autobiografia fotografica e non ha mai smesso di rappresentarsi neanche di fronte agli effetti pervasivi dell’incedere dell’AIDS, sempre orgoglioso del suo narcisismo. A tal riguardo, in un articolo apparso su Artforum, hai scritto: “Penso che stesse cercando di riscrivere una nuova vita”. Credi che la fotografia fosse per lui una via di fuga dalla realtà o una sua esaltazione?
JP: Non credo che vivesse in un mondo di fantasia con la testa. Tutto rispondeva all’esigenza di dare un tono alla sua vita, mostrando le sue capacità. Le Polaroid stesse non erano un mezzo per far emergere la sua identità, quanto semmai la sua arte, perché Mark era soprattutto un visionario creatore di immagini che abitava il mondo reale. Aveva la sua comunità di amici estrosi e pittoreschi, ma al contrario di Nan Goldin il suo lavoro era creativo e solo in minima parte intimo.
SDA: La sua vita, imprescindibilmente legata alla sua opera, mi fa pensare a una poesia di William Blake che ho ritrovato in What pictures want, un libro in cui il critico americano W.J.T. Mitchell investiga il rapporto tra desiderio e immagine: “More! More! Is the cry of the mistaken soul, less than All cannot satisfy Man” (Ancora! Ancora! È il grido dell’anima smarrita, niente meno che l’Assoluto può soddisfare l’uomo). Le sue fotografie sono compenetrate di desiderio, la sua anima guardava all’infinito ma interrotta dal piacere e abitava in un mondo di corruzione e feticismi terreni. Come viveva questa tensione?
JP: Mark voleva materializzare il sublime, il suo lavoro bruciava di desiderio e di ambizione. Voleva essere un attore hollywoodiano, voleva cantare. Voleva tutto, proprio come l’anima di Blake, e le provava tutte anche se era chiaro che non sarebbero andate a buon fine.
SDA: E tu?
JP: Il mio approccio è sempre stato meno romantico, più vicino al quotidiano. Cercavo di inquadrare un pezzo di reale, lasciando che il mio input fosse ridotto al minimo, come chi ritaglia immagini da una rivista. Ho passato molto tempo a riflettere sul desiderio, oggi penso che il mio lavoro sia piuttosto focalizzato sulla bellezza; la bellezza è frutto del desiderio ed è già lì sulla terra, mio compito è quello di metterla in luce. Se Mark era un creatore, un alchimista, io ero piuttosto un editor. Nel mio pragmatismo, mi sarebbe bastato scattare una fotografia di una celebrità, lui voleva essere la celebrità.
SDA: Visioni antitetiche che si sono incontrate nei film in Super8, The Laziest Girl in the World (1981) e Hello From Bertha (1983), coprodotti con Stephen alias Tabboo! e parte integrante dell’archivio di Mark. In un universo fortemente influenzato dalla cultura drag, da Andy Warhol e da John Waters, emerge un lavoro collettivo e un tentativo di superare l’istantaneità dello scatto fotografico dandovi un tempo narrativo. Resta incerto il grado di improvvisazione e chi facesse cosa…
JP: Se in campo fotografico Mark decideva tutto, per i film scriveva la sceneggiatura — perché che tu ci creda o no c’era eccome —, mentre Stephen si occupava dei set e io aiutavo in regia quando Mark recitava. Questi film erano la summa di tutti i nostri sforzi, ci mettevamo tempo e denaro e io e Stephen ci sentivamo ugualmente partecipi del risultato finale. Mark dirigeva la videocamera ed editava, quindi i film sono suoi, ma il fatto che tutto accadesse in casa ci rendeva assoluti protagonisti. A ispirarci erano soprattutto i B-movies di John Waters, che aveva appena scritto in Shock Value: A Tasteful Book About Bad Taste (1981) la sua ricetta per la trasgressione. Volevamo provocare il pubblico, e per farlo ci inventavamo mitologie dissacranti e rivisitavamo gli anni Cinquanta di Marlene Dietrich in chiave kitsch. Al tempo stesso, ci piaceva l’idea di realizzare uno show, con una durata, e sentivamo la tensione intima che si crea fra tre ragazzi che lavoravano insieme in una stanza.
SDA: L’ultima vasta area di sperimentazione di Mark furono i fotogrammi. Iniziò a Boston, ma vi si dedicò soprattutto nell’ultimo periodo della sua vita, dal 1986 al 1989; l’acuirsi della malattia lo costringeva in casa, per risparmiare l’aveva presa nel New Jersey ed erano pochi gli amici che lo andavano a trovare e si facevano fotografare. Di tutta risposta, lui si rinchiuse a lavorare in camera oscura, ne realizzò una anche nel bagno dell’ospedale. Quale fu il ruolo del caso nella sua vita?
JP: Se intendi elementi inaspettati del caso, furono essenziali. La scoperta del processo delle sandwich prints fu un caso, la fotografia stessa è un esercizio del caso come il fare arte. Se il lavoro funziona sei un genio per le tue capacità, altrimenti è solo un errore. E Mark rivendicava le sue vittorie. Il fatto che abbia sempre trovato un modo per continuare a lavorare, anche solo e malato, è parte del genio. Nei fotogrammi approdarono le immagini pornografiche, che accumulava con fare ossessivo. Ricordo la prima sera che uscimmo insieme, mi portò a casa sua ed era stracolma di questi ritagli bizzarri. Li ficcava dentro a scatole di cioccolatini visualmente stuzzicanti. Gli chiedevo “perché?” e lui rispondeva: “Non posso certo lasciarli per strada dove li ho trovati”. E io: “Ma perché li metti proprio lì?”; voglio dire, ci metteva così tanto impegno a scovarli in giro. Capii che pensava alla reazione degli altri all’insolito ritrovamento: solo quello gli interessava, e non si prendeva alcun credito per l’effetto sorpresa. Così, vicino alle sandwich prints e ai ritratti in bianco e nero, il lato sublime della sua produzione, c’era questo elemento di stravaganza, direi folklore. Come se invece di andare a visitare l’archivio dell’Estate di Mark Morrisroe, andassi a rovistare a casa di uno zio, crepato il mese scorso, e ti chiedessi da dove diavolo arriva questa robaccia. Questo mi piaceva del suo lavoro: era ispido e ambiguo, anche se voleva operare a tutti i costi nel sistema dell’arte.
SDA: Piuttosto che appendersi al muro le fotografie patinate delle icone del suo tempo, scavava metodicamente fra le tracce di una subcultura underground e perversa…
JP: Sì, ma chissà magari poi sarebbe finito anche a fotografare personaggi famosi. Cercò di lavorare per Interview, e per Rolling Stone scattò i ritratti di un gruppo rock sulla cresta dell’onda. Erano fantastiche sandwich prints ma non si riconoscevano le facce dei componenti della band. Il suo modo era troppo artistico, soffocava il soggetto fotografato o così sembrava. Mark era troppo avanti coi tempi.
SDA: E lo sapeva. Non per altro con i fotogrammi si misurò direttamente con un maestro della fotografia come Man Ray, e nella sua devozione per la cultura pop c’era lo zampino di Andy Warhol. Lo ammise mai?
JP: Ai tempi di Boston, Mark era più incline al lavoro di Andy Warhol, e io a quello di Man Ray. La differenza è che lui non lo ammetteva perché voleva fare il diverso, era uno spaccone. Piuttosto avrebbe detto che si ispirava a Doris Day. Mentre io sognavo Parigi, seduto in un caffè a bere assenzio, lui si spacciava per il figlio dello strangolatore di Boston, faceva il duro e si ammazzava di droga. Buffo se ci pensi, all’inizio della nostra conversazione lui era l’alchimista con la sua aura romantica. Allora era piuttosto il contrario; con il passare del tempo ci siamo scambiati. Oggi mi guardo allo specchio e vedo un ragazzotto di campagna che ha trovato un modo per chiamare arte la realtà. Lui è un personaggio tenebroso e dannato, poetico e melanconico. Non so di chi fosse figlio, ma la sua vita fu radicale: a 16 anni raccattava soldi prostituendosi e un cliente gli sparò nel torace, rimase zoppo e lo Stato cominciò a passargli una pensione di invalidità con cui si mantenne fino alla fine. La sua storia è mito, io non ho nulla da raccontarti su quanto la mia vita fosse selvaggia e fuori controllo. Il mio legame con Mark è quanto di più romantico e strampalato si possa dire di me. ?