La piccola tela Kissed (2018) apre la mostra personale di Marlene Dumas (Capetown, 1953) a Palazzo Grassi. Si tratta di un’opera che racconta un gesto tenero, intimo, forse rubato, che è sempre capace di innescare una successione di emozioni. La presa di coscienza della propria sessualità è rivelata dallo stupore per un’erezione nel giovane uomo dell’opera D-rection (1999), dal compiacimento di saper essere eccitanti di Miss Pompadour (1999) o dal gioco di provocare gli impulsi altrui in Turkish girl (1999), ma può essere contemporaneamente anche disperazione, repulsione, angoscia o paura. Come percepiamo noi stessi nel nostro corpo? E come cambia quella percezione in base alla circostanza in cui siamo?
Nel lavoro di Dumas, l’atto erotico non coincide con un’azione sessuale. È piuttosto una possibile relazione tra due individui che cercano di toccarsi, senza un contesto spaziale, e non c’è genere che tenga, ma solo sensi. Ci sono poi alcuni corpi che con il tempo invecchiano e non si curano più di essere osservati. Al primo piano, inquadrata dal loggiato, Spring (2017) è l’immagine potente di una donna non più giovane dipinta con colori accessi, mentre sembra ballare felice nella sua solitudine, e con una bottiglia di vodka tra le mani si bagna e si tocca il pube. È al centro di due opere dello stesso grande formato, Alien (2017) e Amazon (2016), in cui le figure singole e senza uno spazio sono invece ritratte frontalmente, ben erette in piedi e immobili.
Se in una parte della ricerca di Dumas la presa di coscienza della propria sessualità è sempre sentita come un atto di liberazione personale, in altri casi diventa una presa di posizione politica, e riveste anch’essa una profonda dimensione espressiva dell’artista cresciuta in Sudafrica durante il regime dell’apartheid. Al secondo piano, ad esempio, la serie di disegni Great men (2014) è stata presentata, in occasione di Manifesta 10 a San Pietroburgo, in chiara opposizione alla propaganda russa contro l’omosessualità. Si articola in sedici ritratti di uomini che, nonostante il loro indiscutibile apporto alla nostra evoluzione scientifica e culturale, sono stati perseguitati e anche annichiliti per il loro orientamento sessuale, a partire dal matematico Alan Touring condannato per “atti osceni” nel 1952 e costretto alla castrazione chimica.
L’altro aspetto cruciale della produzione di Dumas è, infatti, proprio l’elaborazione di episodi realmente accaduti o di vita ordinaria: cronaca, film, poesie, mitologie, riviste, polaroid scattate personalmente, sono isolate in un fermo immagine e diventano il contenuto su cui e da cui lavorare. Sono “immagini di seconda mano ed esperienze di prim’ordine”, per dirlo con le parole l’artista, che cura in prima persona un ricco pamphlet-guida della mostra.
Tra le oltre cento opere presenti, alcune di queste raccontano momenti strettamente autobiografici, come Underground (1994- 1995), nata in collaborazione con la figlia Helena che ha aggiunto i propri segni colorati e glitterati a una sequenza di volti che Dumas aveva disegnato con inchiostro bianco e nero. Nella stessa sala, My Daughter (2002) è il solo cortometraggio mai realizzato dell’artista, in cui è ripresa la figlia mentre dorme tranquillamente con una cinepresa Super 8 e il sottofondo musicale di Ryuichi Sakamaoto. O ancora Die Baba (1985): ritratto del fratello di Dumas – pastore attivista nella chiesa olandese – eseguito a partire da una foto di quando era bambino. È un’immagine luminosa e ambivalente del viso paffuto di un bimbo ben pettinato che scruta l’umanità con sguardo accigliato, di criticità.
Il sorprendente percorso di visita si chiude con l’accostamento di una più fitta serie di opere di diversi formati, accumunate da un’atmosfera cupa dai toni freddi, a partire da Canary Death (2006), tratta da una fotografia di un giornale in cui il dramma del fallimento delle traversate dei migranti stride con l’idea paradisiaca del Mediterraneo. Nell’ultima sala, un’unica opera: Persona (2020) è un volto disperato in un momento di angoscia restituito con pennellate veloci, basato su uno dei molti gessi preparatori eseguiti da Rodin per La Porta dell’Inferno.