Fino alla prima metà del 1996, stranamente non si sentiva parlare molto di Martin Kippenberger. Venivano pubblicati uno o due libri all’anno, con una regolarità divenuta ormai quasi ovvia; poi, improvvisamente, iniziò ad arrivare un invito dopo l’altro: esposizioni museali a Copenhagen, Esslingen, Mönchengladbach, Ginevra, per non parlare delle ancora più numerose mostre in galleria. A Lipsia furono avviati i preparativi per la costruzione di una nuova entrata al suo MetroNet di scala mondiale. Per concludere con la comunicazione da Berlino dell’assegnazione del premio Käthe Kollwitz, e della relativa mostra. Il sistema Kippenberger era apparso come in un attacco a sorpresa, andando a colpire nelle più disparate città del mondo dell’arte europeo. Ma la primavera dell’anno successivo portò un’altra notizia: la sera del 7 marzo, Kippenberger moriva a Vienna.
Martin Kippenberger aveva appena compiuto 44 anni, ma la sua arte aveva tutta la dinamicità e l’insolenza proprie della gioventù, anche se già nel 1983 aveva voluto significativamente estromettere tutti i relativismi e le incomprensioni legati alla giovinezza con l’Abschied vom Jugendbonus (Addio ai vantaggi della gioventù). Ora, guardare a quest’arte come a una cosa del passato è difficile. Vederne la massiccia assimilazione nel museo, questa tomba dell’arte, non è meno spiacevole; e anche amaro, visto che finora l’ingresso ai musei tedeschi le era stato interdetto quasi senza eccezioni. Stavano tutti alla larga dal turbamento e dall’imprevedibilità di questo artista, ma il rifiuto, l’ignoranza e la malevolenza non l’avrebbero più avuta così facile dopo la sua ultima stagione. Poi però era arrivata la morte, e i suoi numerosi nemici, quelli dei musei o della stampa, potevano ora addirittura fregiarsi con la smentita del loro gioco pusillanime.
Giusto una settimana dopo la morte di Kippenberger, in occasione dell’assegnazione dei premi alla Akademie der Künste, s’inaugurò a Berlino una mostra a cui l’artista aveva collaborato in prima persona. E nonostante fosse visitabile proprio nelle settimane in cui uscivano ovunque i necrologi della sua vita, questa mostra ebbe scarsa attenzione e pochissimi visitatori. Rispetto alle mastodontiche esposizioni museali era sicuramente atipica — ventiquattro dipinti a olio, una serie di quattordici litografie e un tappeto — ma senza dubbio stupefacente e sconvolgente.
Tutti i quadri erano imperniati su un unico tema, La zattera della Medusa, il famoso dipinto di Théodore Géricault presentato al pubblico nel 1819 e oggi parte della collezione permanente del Louvre. Un quadro che abbiamo tutti davanti agli occhi in modo più o meno chiaro, una di quelle opere che in genere si vedono per la prima volta in giovane età per poi — secondo me — riaffacciarsi successivamente alla memoria con tutta la mostruosità e il terrore di cui sono pervase. Opere di tal genere non si riesce a spiegare, perfino a comprendere, perché esistano, perché non siano vietate ma anzi ammirate; soprattutto resta un mistero come sia stato possibile realizzarle. Quadri come La zattera della Medusa funzionano sempre in rapporto a quel “resto” inesplicabile di cui l’arte, se si presenta in tenera età, instilla il germe per far sì che si propaghi a ogni generazione. Forse bisognerebbe estrapolare qualcosa da questa sorpresa quando, in seguito, l’impossibilità di concepire un evento come quello immortalato da Géricault si traduce nel domandarsi se sia opportuno avvicinarsi in questo modo a uno sguardo così tragico, o se piuttosto l’intera faccenda non stia accadendo davanti ai nostri occhi spalancati come fosse un incantesimo inscenato, con la cornice del quadro che non viene sommersa dagli abissi minacciosi del mare e la possibilità di suggerire all’uno o all’altro naufrago di salvarsi la vita con un balzo coraggioso sulla salda cornice. Segue tutto il XIX secolo, col suo atteggiamento teatrale e quel mondo affettato delle sculture e del pompier che si risolve in una specie di fumetto tridimensionale, i cui eroi seguono il filo dei propri pensieri e altre idee dalle sale dei loro quartieri museali. Il film del XX secolo irrompe da qui, dispiegando i grandi formati delle sue camere del terrore, finendo poi per appendere come un avanzo la pittura a un canovaccio con cui, nel migliore dei casi, tutta la ricchezza e lo splendore del riproducibile potrebbe solo essere lustrata.
Il quadro di Géricault è un po’ diverso, non nacque nemmeno come rappresentazione del mondo del Louvre, che ora invece lo esibisce come uno degli esempi più rappresentativi della sua epoca. Fu acquistato dopo la morte di Géricault per il prezzo di un piccolo quadro di genere; tale era infatti il valore del riconoscimento attribuito all’epoca dai contemporanei alla grande tela. Ma la pittura che ci sta a cuore ha trasportato la sua storia attraverso due secoli sul crinale del dramma sociale, in quel punto che dal centro appare oltre la frontiera dell’incomprensibile, anche di quella incomprensibilità che permane quando in seguito ci si chiede perché mai ci sia ancora la pittura.
Il catalogo Kippenberger Géricault (Copenhagen 1996) contiene un testo di Dieter Bachmann, pubblicato per la prima volta sulla rivista Du, n. 2, 1994, in cui si racconta la scandalosa storia della zattera della Medusa, nonché quella del dipinto. Martin Kippenberger sapeva perciò benissimo quali difficoltà aveva dovuto fronteggiare Géricault quando aveva scelto questo tema per un quadro storico in rappresentanza della protesta nei confronti delle speranze andate deluse trent’anni dopo la Rivoluzione. In realtà, il resoconto del naufragio oggi è sconvolgente come lo è il quadro, solo in un altro modo. Bisogna in ogni caso menzionare alcuni dati: sulla zattera di sette metri per venti presero posto centocinquanta persone, immerse nell’acqua fino ai fianchi, che inizialmente avrebbero dovuto essere recuperate da quattro scialuppe di salvataggio, su cui stavano i benestanti di quella traversata. Questi, però, si dimenticarono subito delle loro promesse e recisero le corde per poter raggiungere la terra in maggior sicurezza, abbandonando così la zattera alla violenza del mare. Per dodici giorni la zattera andò alla deriva in mezzo al mare. Sanguinose rivolte contro le gerarchie ancora in vigore costarono la vita a molti, mentre altri morirono affogati o di fame, finché non rimase più acqua né cibo, nemmeno quando, rimasti solo in trenta, si rassegnarono a mangiare carne umana e bere urina. Il settimo giorno, poiché le condizioni della metà degli uomini erano troppo disperate, si decise che fosse meglio dividere il resto delle provviste fra chi era ancora in forza e consegnare gli altri alla morte. Quando l’Argus arrivò in vista della zattera perduta erano ancora in vita in quindici: è questo il momento al limite tra speranza e disperazione immortalato da Géricault. Il dipinto descrive infatti uno scenario di visi e corpi drammatico, ma anche una profonda commozione. Nell’arte degli ultimi cinquant’anni dove è possibile rintracciare un’immagine tanto priva di bellezza che raffiguri le vittime di un evento avvolto da così grande clamore? Sarebbe da nominare Goya, ma chi altri?
A Copenhagen, gli organizzatori della mostra “Metropolis” proposero a Martin Kippenberger di esporre il suo Happy End für Franz Kafka’s Amerika (Lieto fine per America di Franz Kafka) insieme a una copia del XX secolo del dipinto di Géricault, delle stesse dimensioni dell’originale. Alla fine del 1996, sugli annunci e sulle cartoline d’invito apparvero alcune foto in bianco e nero che mostravano Kippenberger a torso nudo, contro un disadorno sfondo bianco, in pose singolari e palesemente studiate, l’espressione del volto stranita, leggermente pallido o affaticato. Queste fotografie misteriose si ispiravano proprio al tema della zattera. L’artista aveva assunto quegli atteggiamenti ambigui presentandoli attraverso il mezzo fotografico, che già poco dopo la morte di Géricault avrebbe incominciato a porre altrimenti la questione della riproduzione in pittura. L’immagine di Géricault si frantuma una prima volta in questo istante privo di colore, per essere nuovamente analizzata in numerosi disegni tratti da fotografie dove viene sviscerata col pastello, insistentemente e quasi faticosamente, nonché riprodotta per essere poi ripresa come frammento. Qui Martin Kippenberger si fece ispirare anche dai molti studi con cui Géricault aveva lentamente sviluppato il suo progetto del quadro. Si era perciò allontanato dal modello e al contempo riposizionato all’interno dell’atelier dell’inizio del XIX secolo. I diversi punti di vista dei disegni sono poi traslocati nei ventiquattro dipinti a olio esposti a Berlino. Come da prassi Kippenberger aveva inizialmente suddiviso le tele in più campi di colore, a partire dai quali la spazialità pittorica sommariamente orientata richiama i segni più elementari del moderno, rammentando il cielo e l’orizzonte, il prima e il dopo, o l’astrazione e l’immersione nel colore da cui lo sguardo si spinge parimenti oltre la sorveglianza e la veduta, quasi affinando il proprio gioco alternato che dalla tela punta verso l’esterno, così che lo spettatore se ne sta lì davanti leggermente spiazzato oppure rivolge lo sguardo altrove sulla tela, dove la superficie colorata chiude lo spazio, e, nel migliore dei casi, guarda attentamente il disegno infantile di una nave come fosse una novità. Gli schizzi preparatori ne mantengono chiaramente l’impronta espressiva; resta uno svisceramento scoperto, quasi uno scassinamento, che si risolve alla fine in un modello predeterminato, per esempio la grande testa impietrita, una delle pose di Kippenberger; oppure si contrappone alla nudità, che scompare sotto un lenzuolo. Di nuovo, un’immagine dell’artista che si è ritratto in ogni figura.
È difficile non considerare il fatto che da tutto il dipinto traspare un’idea di morte. Si dovrebbe aggiungere che Géricault — il quale si dice sia riconoscibile proprio in uno dei naufraghi — morì solo pochi anni dopo la conclusione della Zattera, all’età di trentatrè anni. Secondo le testimonianze concordi dei suoi più stretti amici, Kippenberger si mise a lavorare a questa serie in modo spensierato, riuscendo a impossessarsi della drammaticità dell’immagine originale proprio perché non la sentiva propria. Gli piaceva in quanto rappresentazione non del tutto precisa, il cui significato non si rivela completamente nel turbamento. Per questo nella mostra il quadro di Géricault appare come un ricordo scomposto in tante immagini. È smontato, o “subdipinto”, ritorna pittura, una pittura scomposta in gesti isolati che ne indicano il recupero sotto forma di frammenti, e a partire dall’impianto non narrativo moderatamente esagerato depongono a favore della possibilità della pittura.
Il tappeto al centro dello spazio espositivo verteva sul tema di un’altra ricostruzione: lo schizzo della zattera, compiuto successivamente da due sopravvissuti. Nel loro disegno avevano di nuovo accuratamente legato le travi l’una all’altra, differenziandole secondo le dimensioni e marcandone i tagli trasversali e i rafforzamenti laterali; il tutto ben ormeggiato. Così, fra i nodi di un tappeto verde pallido, si trovava intessuta un’altra immagine della Zattera, quella rimasta.