Un’opera in quattro mosse
Un cassone di metallo della spazzatura pieno di quadri sbrindellati. Difficile dimenticare lo choc entrando nella prima sala di “Painting 2.0. Expression in the Information Age”, la mostra curata da Manuela Ammer, Achim Hochdörfer e David Joselit al Museum Brandhorst di Monaco nel 2015. Influenzato dal viziaccio italiano dello storicismo, pensavo ingenuamente che una mostra sulla pittura all’era informatica si sarebbe aperta con una quadreria, una retrospettiva sullo stato della pittura fino a quel momento. Invece m’imbattevo in un container rigurgitante quadri lacerati pronti, come sembrava, per andare al macero, portati via da uno chiffonnier dei nostri giorni.
Si trattava di Heavy Burschi (Heavy Guy) di Martin Kippenberger (1953-1997), esposta nel 1991 al Kunstverein di Colonia e al San Francisco Museum of Modern Art. All’epoca, quando ho visto l’installazione alla retrospettiva della Tate Modern di Londra nel 2006, non ero pronto per lasciarmi coinvolgere da un’opera così complessa che ha il potere di rimettere in gioco il destino della pittura al di là dei discorsi – quasi sempre gli stessi – sulle sue presunte morti e rinascite.
L’artista tedesco chiede a Merlin Carpenter, suo assistente di quegli anni, di realizzare cinquantuno copie dei suoi dipinti basandosi sulle riproduzioni disponibili sui cataloghi. Insoddisfatto del risultato finale, che trovava troppo accurato poco bad painting, Kippenberger decide di distruggerli dopo averli fotografati, riprodotti in dimensione reale, incorniciati e affissi sulle pareti circostanti, grandi come le fotografie della scuola di Düsseldorf. Ridotti a brandelli, gli originali sono gettati in un cassone di metallo della spazzatura, la cui forma ricorda un’opera precedente, Memorial of the Good Old Time (1987), con un sacco di gomma nera riempito d’aria attraverso un aspirapolvere.
La pittura è qui ridotta a un vortice di passaggi e trasformazioni che possiamo isolare in quattro mosse: a) i dipinti realizzati da Kippenberger; b) le riproduzioni fotografiche dei dipinti nei cataloghi; c) le copie realizzate dal suo assistente – e qui torniamo alla pittura in quanto imitazione non della natura ma di altra pittura. Se l’artista stesso non ne fosse l’istigatore, si tratterebbe di un plagio, di certo è un détournement perverso della missione storica di un assistente. Del resto Kippenberger aveva già chiesto a Werner, pittore d’insegne stradali, di realizzare dei dipinti a partire da una serie di fotografie con l’artista in posa (Dear Painter, Paint for Me, 1979-81); d) c’è infine la distruzione dei quadri in quanto medium, supporto fisico della pittura. Tale gesto tuttavia non coincide con la distruzione dell’immagine (image), che continua a vivere attraverso le copie grazie alle quali l’artista riafferma la propria soggettività. Riprendo questa distinzione terminologica da W.J.T. Mitchell: “Picture è un oggetto materiale, qualcosa che si può bruciare o rompere. Image è ciò che appare in una picture, ciò che sopravvive alla sua distruzione – nella memoria, nella narrativa, in copie e tracce preservate negli altri media”1. Così Kippenberger distrugge gli originali (picture) per mostrare delle copie come veri dipinti (image), senza mancare di mostrare quello che resta degli originali alla rinfusa in un cassone.
La pittura e le sue ipoteche
Nel complesso, Heavy Burschi (Heavy Guy) è un condensato di temi cari all’artista tedesco che, col suo tipico sarcasmo e una disinvoltura che raramente si associa alla pittura, mette in scena una spirale abissale in cui la copia e l’originale, le opere riprodotte e distrutte si sovrappongono e si confondono le une con le altre. Heavy Burschi (Heavy Guy) è infatti il risultato di una serie di passaggi intermediali in cui la pittura è coinvolta in un gioco di specchi con la fotografia e il libro d’arte, in cui una cannibalizza l’altra, in cui ciascuna diventa intercambiabile. Nella sua installazione la pittura, storicamente associata a una superficie piatta e delimitata, sconfina nella scultura e nell’installazione.
Performance, happening e teatralità influenzano la pittura di Kippenberger. Vi s’immischiano temi postmodernisti quali la riappropriazione e la citazione, il pastiche e l’ironia. Che Heavy Burschi (Heavy Guy) mostri lo stato della pittura all’epoca del postmodernismo? Senza dubbio, ma non è ancora abbastanza.
Credo che Kippenberger non solo dipingesse negli anni Ottanta ma (e non è la stessa cosa), fosse realmente consapevole di dipingere negli anni Ottanta. Consapevole ovvero di vivere un periodo volto alla “morte percepita della pittura” e non a una sua rinascita secondo la vulgata comune, Italia inclusa. Molti s’illudevano che, per rendere contemporanea la pittura, bastasse accompagnarla dall’aggettivo “nuova”, col risultato di scindere la novità da ogni spinta avanguardistica: “La loro ‘novità’ (newness) consiste proprio nella loro attuale disponibilità storica, non in qualche innovazione effettiva della pratica artistica”, come osservava Benjamin Buchloh a proposito dei Neo-espressionisti tedeschi2. Una critica sferzante in cui smascherava l’abuso della novità, la mossa da retroguardia, spia di un’amnesia estetica o di un’ignoranza storica nei riguardi della pittura del XX secolo – un ritorno al modo in cui la pittura era percepita nel periodo interbellico.
All’epoca di Kippenberger pesavano sulla pittura almeno due ipoteche, a partire da quella austera di matrice post-minimalista e concettuale. La posta in gioco per un artista contemporaneo è l’arte e non la pittura (è questa, come noto, la posizione di Joseph Kosuth); interrogarsi ancora sulla natura della pittura comporta invece una mera accettazione dell’arte così com’è, ovvero della tradizione europea fondata, tra l’altro, sulla dicotomia pittura-scultura.
La seconda ipoteca è legata, per semplificare, all’institutional critique: il ritorno alla pittura – con quelle pennellate vigorose, quegli impasti pesanti, quel vocabolario proprio all’espressivo se non, generalmente, a un’essenza del pittorico – si salda a una politica culturale conservatrice e reazionaria, come osserva ancora Buchloh, nonché alla riaffermazione dello sguardo maschile e della costruzione classica della differenza sessuale (la pittura degli anni Ottanta è essenzialmente un fenomeno maschile).
Un tedesco in Firenze
A lungo Kippenberger è stato assimilato ai Neo-espressionisti tedeschi, nonostante sia stato uno degli artisti tedeschi più cosmopoliti e nomadi che, incapace di fermarsi in un solo posto per un lungo periodo, poteva vivere per mesi in un hotel. Il suo successo postumo, espositivo e di mercato, è legato a un cambio di prospettiva che ha fatto emergere la matrice concettuale, a lungo incompresa, della sua pittura. Una meta-pittura che commenta se stessa e che non ha paura di andare contro se stessa.
Su questi aspetti insiste Isabelle Graw, critica d’arte, co-fondatrice e direttrice della rivista “Texte zur Kunst”, in un libro che ripensa la pittura al di là della specificità del medium e in un confronto serrato con l’arte post-internet e l’economia digitale3.
Abilissimo a tenere a debita distanza Gerhard Richter e Joseph Beuys, a scongiurare Anselm Kiefer attraverso Marcel Broodthaers, Kippenberger ha un percorso unico almeno quanto il suo coetaneo Mike Kelley. La spinta concettuale dispiegata in Heavy Burschi (Heavy Guy) innerva già le sue prime prove, da The Mother of Joseph Beuys (1984), che somiglia in realtà a un autoritratto, alla registrazione in tre versioni della pièce sonora di Beuys Ja Ja Ja Ja Ja, Nee Nee Nee Nee Nee (1968) nel 1995.
Più complesso il rapporto con Richter, sospeso tra rispetto e trasgressione come osservava Mike Kelley. Uno di voi, un Tedesco in Firenze (1976-77), una delle prime opere di Kippenberger risale al 1976 quando, a soli ventitré anni, trascorre nove mesi a Firenze per diventare attore, sulla scia di Helmut Berger, l’attore promosso da Luchino Visconti. Nel frattempo realizza un dipinto al giorno (50 × 60 cm o 60 × 50 cm), in bianco e nero con uno stile alla Richter, ispirandosi a fotografie prese in giro, cartoline, immagini di giornali e riviste, copertine di dischi, e fa capolino persino la pittura classica (un ritratto di Botticelli). L’idea è di dichiarare la serie completa quando le tele, accatastate una sopra l’altra, abbiano raggiunto la sua altezza (1,89m). Il corpo dell’artista – “Kippi” era attento a costruire la sua immagine pubblica e, su suggerimento di Sigmar Polke, a includerla nella sua opera – diventa qui il modello, il prototipo su cui la pittura deve misurarsi.
Il progetto fallisce o è lasciato incompleto, fa lo stesso, per pochi centimetri. Restano più di novanta dipinti corrispondenti a tre mesi di lavoro. Se una parte di questo ciclo viene esposto sulla parete a forma di griglia come i 48 Portraits (1971-72) di Richter, una volta impilata una tela sull’altra le immagini sono sottratte alla vista e non resta altro che il bordo bianco. La pittura s’impone così nella sua oggettualità come in un’opera di Supports/Surfaces. Al collettivo francese mancava però quello spirito caustico che spinge Kippenberger a trasformare un monocromo grigio di Richter, regolarmente acquistato, in un tavolino e a rivenderlo secondo le quotazioni di mercato del primo, molto più modeste (perlomeno allora) di quelle dell’artista più giovane (Modell Interconti, 1986).
Kippenberger rappresenta insomma un caso di frontiera, sospeso tra espressionismo e pop, ascrivibile a una linea a volte fatta risalire a Picabia per la sua profanazione della pittura e della sua aura.
Naufragio
Ma ritorniamo a Heavy Burschi (Heavy Guy). Delle quattro mosse, la più dirimente è senza dubbio la quarta, quella della distruzione. Kippenberger ne conosceva bene la grammatica visti i suoi trascorsi punk, quando, nel 1979, fonda il gruppo Grugas, in cui suona la batteria e poi la chitarra. Malgrado le apparenze, Heavy Burschi non distrugge la pittura come genere: “è una tomba monumentale che si congeda dalla pittura e gli rende omaggio” come suggerisce Graw4.
Rispetto ai dipinti contro cui Niki de Sainte-Phalle spara con la carabina facendoli sanguinare (Tirs, 1961-63), Kippenberger lega la pittura a un gesto violento ma lo dissocia dall’aspetto performativo: le tele sono distrutte prima di essere esposte. La pittura si destruttura e assieme si dissemina ma (e questo è il punto) sempre di pittura si tratta, presente in tutte le sue componenti quali il colore, i soggetti dipinti e la struttura portante della tela (picture). La distruzione non è un finale di partita ma un gesto che, in quanto tale, crea sempre un resto, uno scarto che può essere artisticamente re-investito.
Come abbiamo visto, Kippenberger era insoddisfatto delle copie realizzate dal suo assistente: “Questa specie di dipinti o di commenti sono davvero troppo buoni, fatti fin troppo bene, da farli diventare kitsch. Così ho deciso di trasformarli ulteriormente in una sorta di doppio kitsch”, come confessa nel 19915.
Se in Heavy Burschi (Heavy Guy), come in molte altre sue opere, alligna una tensione nichilista – per Kippenberger insita all’atto di creazione –, la distruzione può essere ancora messa in scena. Perché la distruzione non nega la sfera visiva ma fa ancora immagine – e non un’immagine qualsiasi ma una delle più icastiche che si possa immaginare. È la stessa logica della cancellatura, lontana da quella dell’annientamento o della scomparsa, tale in quanto lascia un segno aperto all’intenzionalità artistica.
Nessun pictor optimus, in finale, può redimere la pittura. Prima di scomparire Kippenberger preparava una replica de La zattera della Medusa di Géricault, di cui restano le foto in cui l’artista, affaticato da una vita sfrenata, posa come i naufragi del dipinto. E che s’identificasse con loro è forse più di un’illazione. Se Beuys era solito dire che “ogni uomo è un artista”, Kippenberger gli rispondeva ironico: “ogni artista è un essere umano”.