La parabola artistica del duo di documentaristi Massimo D’Anolfi (Pescara, 1974) e Martina Parenti (Milano, 1972) comincia nel 2007 con I promessi sposi, un film-inchiesta sulle giovani coppie in procinto di sposarsi, e continua con Grandi speranze (2009), Il castello (2011), Materia oscura (2013) e L’infinita fabbrica del Duomo (2015), documentari che indagano obiettivi ed eventuali formalizzazioni della progettualità umana, siano queste utopie od opere concrete. Lo scorso settembre, al Festival del Cinema di Venezia, D’Anolfi e Parenti hanno presentato il loro ultimo film, Spira Mirabilis (2016), un’esplorazione della volontà propria dell’uomo di superare la propria caducità attraverso le “grandi imprese”. Nell’intervista che segue D’Anolfi e Patenti analizzano Spira Mirabilis, nel contesto di una più ampia riflessione sul senso del filmare.
Andrea Bellini: Partiamo dalla fine della storia che stiamo per raccontare. Quest’estate, un po’ a sorpresa, il vostro ultimo film, Spira Mirabilis, è stato invitato in concorso al Festival del Cinema di Venezia. A me è sembrato che il film sia stato accolto con grande entusiasmo in sala. Voi che impressione avete avuto? Raccontatemi del vostro primo red carpet.
Massimo D’Anolfi e Martina Parenti: L’intera giornata della presentazione è stata un tour de force di interviste – quotidiani, radio, TV –, fino alla vera e propria conferenza stampa al Palazzo del Cinema. La conferenza è stato un momento interessante. Forse sono vestigie del passato, ma in un festival come quello di Venezia le conferenze stampa restano gli unici spazi pubblici di incontro e scontro tra chi i film li fa e chi ne scrive. Nei festival è sempre più difficile riuscire a parlare di cinema. Sono diventati delle macchine ben rodate che frullano persone, film, abiti, per partorire titoli, fotografie e rumore di fondo. Il red carpet è il simbolo perfetto di questo spettacolo. Per fortuna la presentazione di Spira Mirabilis è stata alle due del pomeriggio; era molto caldo e quindi tutto è stato piuttosto rapido. In poco tempo ci siamo trovati all’interno della Sala Grande: era gremita. I protagonisti del film erano con noi, la proiezione bellissima, il suono avvolgente; e alla fine gli applausi non finivano più.
AB: Spira Mirabilis è un film in cinque movimenti sul tema dell’immortalità, un film che racconta le grandi ambizioni del genere umano, la sua capacità di sognare e di superare la morte grazie alla cultura, all’arte, all’utopia. Mi colpisce il fatto che il vostro film precedente, Materia oscura, un documentario sul Poligono Sperimentale di Salto di Quirra in Sardegna, si ponga invece come un film malinconico, nel quale domina un sentimento di morte, direi di sfiducia nel genere umano. È così? Vedete anche voi i due film come contrapposti?
MDA & MP: Materia oscura è un film sulla stupidità e la cecità dell’uomo, un film caustico, con rari momenti di pietas. Si conclude di notte, con una batteria di missili sparata nel mare apparentemente incontaminato della Sardegna. I missili illuminano il cielo come i fuochi d’artificio di una festa popolare, lo stupore innanzi all’incanto della morte. Spira Mirabilis riparte da quella notte: in cielo non ci sono più missili, ma i lampi e i tuoni di una tempesta in lontananza. Al centro dell’inquadratura una nativa americana, una donna sacra, illustra a sua nipote una cosmogonia in lingua Lakota. Più che contrapposti vediamo i due film in continuità. L’uno inizia dove finiva l’altro.
AB: Come è nata l’idea di un film sul tema dell’immortalità?
MDA & MP: Volevamo abbandonare il sentimento di sfiducia che accompagna Materia oscura e provare, invece, a raccontare la parte “migliore” degli uomini. Volevamo fare un film anti-cinematografico, un film fuori da una specifica situazione di conflitto. Dopo aver incontrato la turritopsis nutricola, la piccola medusa immortale studiata da Shin Kubota, un ricercatore dell’Università di Kyoto, abbiamo capito che parlare d’immortalità e accettazione della morte sarebbe stato il nucleo del nostro nuovo progetto. Abbiamo intuito fin da subito che la tensione verso l’immortalità avrebbe dovuto essere declinata in vari modi. Il film, infatti, è nato attraverso un processo di accumulo e assonanze tra storie che ci facevano compagnia da tempo e nuovi orizzonti – un viaggio tra gli elementi della natura e la tensione dell’uomo che cerca di superare i propri limiti.
AB: A differenza dei vostri lavori precedenti – penso, appunto, a Materia oscura o a Il castello, dedicato all’aeroporto di Milano Malpensa, esplorazioni di luoghi fisici e contesti precisi –con Spira Mirabilis vi spingete oltre la questione del luogo e come all’inseguimento di alcune idee – tentate di indagare un pensiero astratto… Sentite anche voi questo scarto rispetto al passato? Considerate quest’ultimo film come una sorta di punto di partenza per un modo per voi diverso di fare cinema?
MDA & MP: Spira Mirabilis è un “film mondo” in cui abbiamo provato a sperimentare linguaggi, sguardi e sonorità nuovi. Con questo film decade per noi l’idea dei confini e delle proporzioni: da un lato esploriamo i pensieri, i sogni, i desideri, e li vediamo riflessi nel lavorio continuo dei nostri protagonisti; dall’altro, il piccolo si mescola con il grande, il dettaglio con l’universale, per creare una scrittura elastica, che vada oltre il reale e si avvicini di più all’astrazione. Spira Mirabilis è un film di tensioni, risonanze ed empatia. È inevitabile che d’ora in avanti la nostra ricerca proceda da qui.
AB: Un fatto che invece trovo coerente, se penso a Spira Mirabilis e al resto della vostra produzione documentaristica, è il metodo di lavoro. I vostri film sono fondamentalmente dei prodotti artigianali, opere fatte con pochi mezzi. In questo senso mi sembra che ci sia una forte relazione tra il vostro modo di girare e l’attività degli esseri umani che raccontate in Spira Mirabilis: l’attività incessante degli artigiani che fabbricano bizzarri strumenti musicali o quella dei restauratori delle sculture nella Fabbrica del Duomo di Milano…
MDA & MP: Sì, crediamo profondamente nell’artigianalità del nostro mestiere. Anche i protagonisti di Spira Mirabilis sono degli “artigiani” – e in loro infatti ci siamo specchiati e ritrovati. Sono storie che raccontano l’atto di costruire una relazione tra ciò che vedi e ciò che modelli. Noi stessi definiamo spesso il nostro cinema “anti-narrativo”; ma a voler essere precisi i racconti di Spira Mirabilis sono più che integri, tutti i personaggi seguono un percorso, in una forma aperta che non li inchioda a formule preconfezionate. Spesso anche i documentaristi usano i personaggi per generare, ad esempio, il momento comico, o quello folclorico, o quello lirico – per tutelare una ricetta. Scardinare questo meccanismo è l’unico atto politico che noi compiamo. Cerchiamo di creare delle piccole crepe per trovare nuovi modi di raccontare la realtà. Il nostro compito è quello; non è mirare alla perfezione della forma. È nella manualità e nell’artigianalità del fare che si colloca il nodo profondo del film.
AB: Dal punto di vista formale mi sembra che il vostro cinema “documentaristico” rappresenti anche un tentativo di riflettere sul senso stesso del fare cinema. La mia sensazione è che, mentre raccontate la cosiddetta realtà, vi poniate il problema di cosa sia il cinema e di come sia possibile rinnovarlo. È così? Esiste questa dimensione analitica nel vostro linguaggio cinematografico?
MDA & MP: Crediamo che, al giorno d’oggi, non possa esistere altro approccio al cinema se non quello che stimola un’interrogazione sul cinema stesso, sul senso delle immagini e sul senso del filmare. È tempo di mettersi in ascolto, di trovare nuovi modi di raccontare la realtà. Bisogna usare tutti i mezzi disponibili per trovare la morale profonda del proprio lavoro. I film possono essere una camera analitica per leggere meglio la vita. Cerchiamo sempre di andare oltre la realtà frequentando luoghi visibili e luoghi invisibili, luoghi reali e luoghi immaginari. Bisogna liberarsi dall’oppressione che ci vuole tutti uguali e smetterla di essere al servizio del sistema che induce alla produzione di merce di consumo, merce che non disturba e che per dir più compiace gli spettatori. Cerchiamo di mantenerci aperti e proviamo a lasciare delle tracce per il futuro. Il dubbio e l’inquietudine sono ottimi compagni di viaggio.
AB: Penso che uno degli aspetti più interessanti del vostro modo di fare cinema nasca da una sorta di felice contraddizione: da un lato c’è il tentativo di mettere in evidenza l’aspetto oggettivo della realtà, dall’altro questo elemento oggettivo sembra marcare la soglia di un mondo più misterioso e complesso. Sentite anche voi queste due differenti forze confrontarsi nella vostra opera?
MDA & MP: Antonio Neiwiller, un grande drammaturgo e regista italiano, diceva: “Il passato e il futuro non esistono nell’eterno presente del consumo. Questo è uno degli orrori con il quale da tempo conviviamo e al quale non abbiamo ancora dato una risposta. Bisogna liberarsi dall’oppressione e riconciliarsi con il mistero. Due sono le strade da percorrere, due sono le forze da far coesistere. La politica da sola è cieca. Ma il mistero, che è muto, da solo diventa sordo”. Noi tentiamo di procedere su questa traiettoria, in mezzo a questa “contraddizione”. Il confronto tra queste due forze e lo spazio su cui s’instaura ci appare come una sorta di triangolo vitale, tra noi, i luoghi, le cose e le persone che filmiamo, e gli occhi di chi guarda i nostri film. A nostro avviso in questa triangolazione abita tanto la possibilità di un agire politico quanto la potenza del mistero.
AB: Il Centre d’Art Contemporain di Ginevra vi ha sostenuto nella produzione di Spira Mirabilis. Il film è parte dell’edizione in corso della Biennale de l’Image en Mouvement (BIM) [in corso fino al 29 gennaio 2017]. Come vivete questa graduale ibridazione tra cinema e video arte, questa tendenza alla sovrapposizione delle figure del regista e dell’artista?
MDA & MP: La sala cinematografica è un luogo inventato dall’industria, un marchingegno per fare soldi. La cinepresa, la videocamera, invece, sono strumenti che consentono di guardare il mondo con occhi nuovi. Gli strumenti non hanno valore di per sé, ma è l’utilizzo che se ne fa a determinarlo. Noi non ci sentiamo né registi né artisti; semplicemente attraverso l’uso di una macchina che registra immagini e suoni cerchiamo di fare cose necessarie per noi e per gli altri. Non amiamo i confini e troviamo superflue le distinzioni tra cinema e video arte. La proiezione di immagini in movimento e la visione collettiva ci hanno sempre affascinato – sono azioni che possono e devono accadere indifferentemente in una sala cinematografica, in una fabbrica abbandonata, in un museo, in una cattedrale o in una piazza.
AB: Immagino che abbiate già in cantiere un altro progetto, il quale magari scaturisce da questo appena concluso. È cosi? Me ne volete parlare?
MDA & MP: Non amiamo parlare dei nostri lavori quando non sono finiti, a maggior ragione in fasi in cui non sono nemmeno del tutto pensati. Però, come abbiamo già detto, ripartiremo da dove abbiamo finito, dai temi dell’accettazione della morte, del coraggio, della libertà, della memoria.