Elena Tavecchia: Con quali tipologie di lavori hai iniziato?
Matteo Callegari: Durante il mio Master all’Hunter College di New York ho iniziato a lavorare con la tecnica di transfer — che permette di trasferire un’immagine su tela, creando uno strato trasparente — e ho utilizzato per la prima volta l’immagine del bubble wrap. Per il mio “Thesis Show” poi, ho realizzato il primo Skeleton Painting. Lo sviluppo vero e proprio di questi due tipi di lavori è avvenuto simultaneamente, dopo aver finito gli studi. Nei “Bubblewrap Paintings” c’è un dialogo tra processualità, velature e illusione. Negli altri lavori invece, cerco di arrivare a una versione ridotta e scheletrica di un quadro, mantenendo tutti gli elementi costitutivi come il supporto, il disegno, la preparazione della superficie e la gestualità nell’applicazione del colore.
ET: Il rapporto con il tempo e lo spazio sembra svilupparsi su due percorsi paralleli nei tuoi lavori, generando un dialogo e a volte una contrapposizione tra profondità e superficie, immediatezza e durata.
MC: Gli “Skeleton Paintings” hanno una temporalità immediata, sono molto performativi: è il risultato di un’azione diretta che si inscrive in un determinato momento. Proprio per questo, dal punto di vista dello spazio, i quadri si sviluppano sulla superficie, e si spingono verso l’esterno. I “Bubblewrap Paintings” invece, sono il risultato di un processo molto articolato. Sulla superficie c’è un’accumulazione di micro-gestualità: le singole bolle hanno dei colpi di luce dipinti a mano, in diversi colori; questo processo rende i quadri più meditativi, con una dimensione temporale più estesa. Combinano elementi pittorici figurativi, strati trasparenti, e l’illusione della tridimensionalità, data dal transfer; così si crea uno spazio che ha profondità, al cui interno lo spettatore può spingersi.
ET: Quanto è importante la ripetizione per te?
MC: La ripetizione è essenziale, perché mi consente di minimizzare le scelte nella fase iniziale di un lavoro e di concentrarmi sulle molteplici variazioni che si possono applicare agli elementi fissi. Le energie vengono concentrate sullo sviluppo del quadro più che sulla selezione della sua struttura.
ET: Quanto pensi che le regole che ti imponi come punto di partenza nella realizzazione di un quadro influenzino il risultato finale?
MC: Le regole iniziali creano una struttura, anche concettuale, nel lavoro; questo per me è importante, perché mi permette di non lavorare in maniera completamente arbitraria e allo stesso tempo fornisce un elemento contro il quale posso agire, generando una tensione. Ad esempio negli “Skeleton Paintings” la preparazione della tela demarca lo spazio d’azione, ma in alcuni punti la regola viene ignorata: la pittura continua il suo percorso oltre i limiti imposti dal gesso. La regola, nella sua presunta rigidità, diviene un elemento verso il quale può essere indirizzata un’azione, e mi interessa lo spazio che si crea in questa dinamica di resistenza.
ET: C’è un margine di dialogo e di imprevedibilità tra le regole che ti imponi e quello che ti aspetti di ottenere?
MC: Per me è importante che un quadro si possa sviluppare in maniera organica; i miei lavori hanno sempre un punto di partenza preciso, ma onestamente non so mai come andranno a finire. L’importante per me è non aspettarsi mai niente. Alla fine quello che voglio ottenere è uno spazio aperto.
ET: Un’apertura di significato intendi?
MC: Sì, i quadri devono creare uno spazio mentale in cui ci si possa muovere, sviluppando un’esperienza personale. Per questo il lavoro deve rimanere aperto, deve essere qualcosa che lo spettatore possa utilizzare, portandovi le proprie esperienze.
ET: La disposizione dei quadri nella mostra da Ramiken Crucible a New York nella tua prima personale nell’aprile 2013 mi ha colpito. Mi è sembrato un elemento determinante nella chiave di lettura della mostra. Vuoi parlarmene?
MC: La mostra nasce da un problema che mi sono posto, ovvero come relazionare due gruppi di quadri autonomi — che possono essere incontrati singolarmente dallo spettatore — con l’esigenza di creare un’installazione che si articoli in maniera dinamica rispetto a uno spazio espositivo specifico. Il fronte della galleria consiste in una larga vetrata che si affaccia su un parco. Così ho deciso di lavorare seguendo questo elemento e disponendo i quadri lungo la dimensione longitudinale della galleria. I lavori sono stati installati a due a due fronte e retro e fissati a dei pali di legno al centro, con un quadro più grande sulla parete di fondo. In questo modo, entrando si vedevano solo gli “Skeleton Paintings”, mentre uscendo si vedevano i “Bubble Wrap Paintings”. L’installazione poteva suggerire che i due tipi di lavori fossero le due facce della stessa medaglia. Le pareti ai lati erano vuote, mettendo così in risalto lo spazio della galleria.
ET: Mi interessa il dialogo tra astrazione e figurazione presente nel tuo lavoro. Nei tuoi quadri è difficile tracciare una distinzione netta tra i due aspetti, che sono come due livelli paralleli e coesistenti.
MC: Effettivamente i miei lavori iniziano sempre da un’immagine, un elemento figurativo che poi viene filtrato e trasformato in un quadro. I filtri vengono applicati in maniera diversa nei due lavori. Negli “Skeleton Paintings” l’immagine viene filtrata, ridotta, proiettata, scomposta in due colori e poi rinforzata dall’elemento performativo. Negli altri quadri l’immagine, di per sé una fotografia di una scultura, viene resa in una versione monocroma, proiettata, dipinta, e sovrapposta nel passaggio finale, quando l’ultimo strato con la tecnica del transfer viene trasferito sulla tela. Questi processi non cancellano mai completamente l’immagine di partenza, dunque i lavori hanno sia una componente figurativa e una astratta. I due elementi sono presenti simultaneamente, abbiamo due linguaggi che si intrecciano, trasferendosi l’uno nell’altro in maniera fluida; questo movimento rinforza la sensazione che in una pittura dove i limiti corrispondono a quelli della nostra mente, ci siano infinite possibilità.