Entri nella stanza e non succede nulla, o quasi: vedi solo una persona che aspetta appoggiata a una parete. Ogni tanto cambia posizione. Ma al secondo, al terzo sguardo noti che la sua espressione, i suoi gesti tradiscono una forma di angoscia, una pressione nascosta. Ti sembra preoccupata. Un movimento impercettibile ti fa capire che è la parete, in realtà, ad appoggiarsi a lei, che il muro è dietro il muro che vedi, e quello aggiuntivo potrebbe crollare da un momento all’altro, per una distrazione del suo reggitore, che resta lì preda della tensione, la stessa che hai tu, una tensione conoscibile soltanto negli abissi marini (Senza Titolo, 2007).
C’è qualcosa nel lavoro di Matteo Rubbi che ti ricorda la situazione dei pesci degli abissi, buissimi. Anche loro non possono mai sentirsi a proprio agio, schiacciati da tutti questi strati scricchiolanti, circondati da una pressione insostenibile, con gli occhi che schizzano fuori dalla testa, gli ossicini delle orecchie che si schiantano. E lo stesso vale per quei poveri sembianti di pianeti, quelli della performance Sistema solare (2008), quelle persone che girano credendosi lanciate a velocità supersoniche nel vuoto siderale, soggette a forze attrattive al di là del loro controllo, guidate da spinte potentissime che ne mettono in tensione ogni microscopica particella, tutti quei vortici.
La protagonista della performance Qualcuno su un tetto (2006) li conosceva, quei vortici di fibrillazione che attraversano ogni lavoro di Rubbi; conosceva la loro insostenibile capacità di trascinarti. Li conosceva, su quel tetto che era sopra le cose; e chi passava vedendola lì, quella ragazza in cielo senza una ragione, forse immaginava qualcosa, percepiva gli stravolgimenti tellurici che la tenevano lì inchiodata e mobile, in alto.
Come anche la Macchina bussante (2007), quell’automobile ansiosa, in trappola, che tenta di entrare in un posto che non è per lei, proietta tutt’intorno la sua luce, il suo tremore, sfiorando col suo muso uncinato un vetro fragilissimo, un vetro debole a ogni assalto, un vetro tenue di ghiaccio, di neve. È una pressione intollerabile, totale, di cui sono preda lavori e spettatori, di cui sono preda lo spazio e Matteo Rubbi: una pressione che “potrebbe conoscere forse solamente un sasso se, a un certo punto della sua caduta, decidesse di impegnare tutte le sue energie per sfuggire alla forza di gravità e, invertendo di colpo la sua traiettoria, precipitare verso l’alto” (Antonio Moresco, Lettere a Nessuno).
Ecco: precipizi verso l’alto.