Il passato è un incubo da fiaba e serve a raccontare il futuro. Nel mondo di Matthew Barney non si può entrare disattenti e veloci, con la mente e i sensi impegnati in altro, ingombri. Non è un posto da toccata e fuga. La sua arte è un tempio dove si accede scalzi e in silenzio, puri come i bambini che ascoltano le favole, senza fretta e disposti ad ascoltare. Dentro c’è la società contemporanea, il nostro tempo impastato di passato e rivestito di futuro, dove elementi alti e bassi si amalgamano, dove la fantasia e l’utopia diventano materiale organico.
Un tempio grande, a più corpi, livelli e stanze, che l’artista americano ha iniziato a edificare alla fine degli anni Ottanta, quando ancora studiava a Yale, e dove ha dato casa alla sua cosmogonia inimitabile. Un nuovo linguaggio che ha travolto con irruenza il mondo della video arte. Al centro, l’uomo, fatto di mente, razionale/irrazionale, ma soprattutto corpo. Un corpo che Barney fa protagonista di tutto il suo lavoro, palcoscenico e contenitore di dimensioni che si elevano sino alla spiritualità più astratta, alla scienza più teorica, ma capace di sprofondare nella carnalità più fisiologica. Un parlare dell’uomo per arrivare a Dio, al mistero della creazione, della vita, che risiede in ogni cellula organica come un’eco. Per Barney il corpo umano è la scultura perfetta, il materiale vivente modellato dal divino. E allora cerca di farlo vivere e percepire in tutte le dimensioni parallele alla realtà, che solo il cinema può aprirgli nella sua illusione ottica. Questo fa Matthew Barney: trasformare il cinema in volume plastico tridimensionale. E, insieme, smaterializzare la determinatezza scultorea in un ologramma cinetico. Per codificare il suo alfabeto immaginifico è partito proprio dal suo corpo di atleta e dagli anni Settanta, con l’ossessione per i linguaggi corporali di Bruce Nauman, Vito Acconci, Chris Burden ma anche la figura a sé stante di Beuys. La performance è il momento in cui il corpo si dà, agisce come scultura vivente, bruciando l’energia vitale in materiale artistico irripetibile. Una “body art” da intendere nell’accezione più classica, in cui c’è sforzo e tensione, messa alla prova dei limiti, sfinimento e consumo psicofisico, giocato in prima persona. Perché dalla carne si risale alla mente, alleata e al tempo stesso concorrente. Matthew Barney, nato nel 1967, negli anni Ottanta è un giovane atleta e gioca a football. L’allenamento è una forma di training familiare, una procedura che forgia i muscoli e l’anima. Un’autodisciplina che comincia ad applicare all’idea di creazione artistica nel suo concetto più astratto. La serie di “Drawing Restraint” nasce in quel momento: 1987 è datato il primo episodio di un sequel che Barney svilupperà incessantemente, come un sottotesto, un quaderno di appunti che farà da cardine a tutta la sua successiva produzione, anche mentre lavora al ciclo di “Cremaster”. Dal 1994 al 2002 “Cremaster” lo consacrerà star internazionale, oltre i confini del mondo dell’arte, verso un culto della persona che gli esplode attorno, superando la cerchia degli appassionati del genere.
È lui stesso la “divinità” del suo mito personale, in cui è riuscito a far convogliare arte, cinema, teatro, moda, design, musica, tecnologia, storia, geografia, scienza e fantascienza, in un pastiche d’après, che tutto usa ma anche reinventa, plasmando una struttura elicoidale dal dna irripetibile. Barney ha creato l’immagine del “contemporaneo”, scrivendo il proprio testo sacro sulla società in corso. “Drawing” è una raccolta di 16 video, inizialmente girati in studio, poi in musei e gallerie di tutto il mondo, come esercizi solipsistici: lui che si mette alla prova, nudo di fronte alla sfida, per superare se stesso, costretto da lacci e meccanismi restrittivi predisposti a bloccarlo. Sperimenta piattaforme inclinate, trampolini, elastici, arrampicate a parete, pesi: l’obiettivo è la creazione di disegni. “La forma non può materializzarsi o mutare senza lottare contro la resistenza” dice Barney, che si è mosso dal principio biochimico dell’ipertrofia, cioè dallo sviluppo muscolare in risposta a una crescente resistenza. Come negli allenamenti sportivi, i muscoli si potenziano andando oltre i loro limiti. Una fatica che richiede autodisciplina e il sacrificio di tutti gli altri impulsi, in una vertigine che spesso diventa ossessione, sete di autocontrollo assoluto, da cui non si torna indietro, pena il decadimento irrimediabile, che insieme alla carne si tira dietro il cervello. Il ritorno all’unità e all’armonia è comunque impossibile, e nemmeno lo interessa. In “Drawing” c’è già tutto: performance, film, disegno, scultura, fotografia. La dedizione al suo progetto artistico è già totale: un’immersione in sé stesso per trovare il valore dell’arte come rivelazione.
Contemporaneamente Barney identifica un percorso della creazione, chiamato “The Path”, che consta di tre fasi, accostabili al processo dell’alimentazione umana. La prima è Condition, cioè il caos, il materiale grezzo e indistinto dell’impulso primitivo, indifferenziato, di natura per lo più sessuale. Segue Situation, il momento dell’elaborazione, come la digestione dopo che il cibo è stato messo in bocca. Infine Production, il risultato finale, l’uscita anale del prodotto: proprio a ribadire la natura fisiologica della creazione, il divino invischiato nella materia deperibile, nell’uomo. Nei disegni di “Drawing”, oltre a schizzi e autoritratti dalle linee spezzate e nervose, compaiono spesso visualizzazioni di questi tre momenti. Alla base di ogni visione di Barney c’è il conflitto, un contrasto continuo tra desiderio e disciplina, tra l’uno e il suo opposto, e poi lo scontro da superare come prova, il pagamento di un sacrificio per un’elevazione che si materializzerà pienamente nel ciclo di “Cremaster”. Un vero romanzo di formazione dal sapore novecentesco, di trama autobiografica, che presenta un’educazione attraverso paesaggi, oggetti e personaggi tutti protagonisti e funzionali alla narrazione. L’individuo ideale viene concepito, cresce, conosce, ama, uccide, soffre e gode, muore, si reincarna, insomma entra nel ciclo biologico della vita e della morte, come in quello spirituale dell’eterna energia.
Barney parte dal muscolo cremastico, quello che fa alzare e abbassare i testicoli in risposta a stimoli esterni. Dopo le prime sei settimane dal concepimento, quando l’embrione è totalmente indifferenziato sessualmente, si decide il genere del nascituro: se le gonadi scendono, si trasformano in testicoli; se salgono diventano ovaie. Qui comincia lo scontro, la rottura dell’equilibrio. Da Cremaster 1 — quello del Bronco Stadium di Boise su cui sono sospesi due dirigibili tenuti in equilibrio equidistante dalla donna Goodyear —, entrano in lotta forze diverse, una miscellanea rutilante dove mitologie di tutti i tempi si metamorfizzano e ibridano, cangianti e stupefacenti, in un testo coltissimo e stratificato che assomiglia al brodo genetico dell’umanità. Nelle forme mutevoli e aperte risiede il principio di verità e bellezza, capace di ibridarsi e progredire, senza tabù, accogliendo le differenze.
Mitologia greca, opera barocca, rodeo western, teatro kabuki, vaudeville, musical hollywoodiani anni Trenta, folklore celtico, rituale massonico, cerimonie shintoiste, candomblè brasiliano, fantasie popolari, esoterismo: Matthew Barney crea un mito contemporaneo che attraversa il tempo della Storia.
Ogni episodio di “Cremaster” è un ipertesto che funziona nella sua singolarità, ma che sa mettersi in cerchio con tutto il ciclo. “Nella mia testa tutti i Cremaster convivono simultaneamente, definendo un corpo connotato dalla molteplicità”, dice l’artista. La numerazione non è cronologica. Per esempio l’episodio numero 3 — la storia ruota attorno all’edificazione del Chrysler Building di New York, monumento Art Décò che, facendo da sfondo a una vicenda di iniziazione massonica, si sdoppia nei piani del Solomon Guggenheim —, pur creato per ultimo, è la traccia narrativa centrale, dove si riflettono le altre quattro sezioni. Il ciclo, in cui ogni film è identificato da colori simbolici, è informato dal principio dell’entropia, cioè la lotta che il sistema mette in atto contro il suo stesso sviluppo, contenendo insieme l’idea di vita e morte, progresso e decadenza. Assistiamo a una divina commedia fatta di passaggi, stadi, stati, evoluzioni, soprattutto metamorfosi, in cui l’individuo forgia se stesso in un’iniziazione ai misteri della vita, sbocciando come una crisalide, cambiando pelle, sesso, storia. Barney definisce l’uomo come materia instabile, perché soggetta a un’esistenza in continuo mutamento e contraddizione.
L’epopea comincia da uno stadio di football, dal west americano e arriva nel cuore dell’Europa, fino a un ponte di Budapest. Dal Nuovo Mondo a quello antico, à rebours. In mezzo c’è la lotta tra libero arbitrio e predestinazione di Cremaster 2, identificata nella figura dell’omicida Gary Gilmore, presentato come discendente di quell’Harry Houdini che per Barney rappresenta da sempre un alter ego. Houdini è il simbolo dell’autodisciplina e della resistenza positiva, capace di liberarsi da lacci, gabbie, costrizioni, grazie a una forza interiore di autodisciplina mentale. Si chiude così il cerchio tra “Drawing” e “Cremaster” nel personaggio di Houdini, dietro cui si cela l’artista. Ma “Cremaster” visualizza come le famose restrizioni fisiche di “Drawing” siano le costrizioni a cui Natura e Cultura sottopongono l’uomo.
In Cremaster 4, poi, sull’Isola di Man va in scena una gara di motociclismo, mentre il personaggio del candidato Loughton è assistito da tre elfi nel suo incessante tip tap. Infine, Cremaster 5, dramma d’amore in cui Ursula Andress impersona la Regina delle Catene che a teatro assiste a un’opera barocca, mentre un cavaliere raggiunge un ponte e si getta nelle acque del Danubio.
Riuscire a tracciare sintesi narrative dei vari “Cremaster” è assolutamente riduttivo, perché altro è l’obiettivo di Barney. L’artista dilata il tempo della narrazione cinematografica, lo frammenta e lo espande in un tempo rituale, in cui riafferma la sua prima vera natura di scultore. Lavora per far diventare il cinema un’installazione plastica. Usa il cinema per un fine scultoreo, con una visionarietà che si fa corpo e corpi, esce dalla pellicola e prende volume, tridimensionalità. Fa scrittura con l’immaginario, e per far questo usa l’enorme potenziale immaginifico del cinema, della sala buia, dove si apre e scende in sala il cinema, dove accade il rito di transustanziazione del cinema.
Le sue creature sono un po’ come i protagonisti della Rosa purpurea del Cairo di Woody Allen. Tutti quei mondi, quei sogni, fiabe, incubi, miti, leggende che l’umanità ha sognato, visto, immaginato e vagheggiato dalla notte dei tempi, diventano carne, sangue, facce e si mescolano con noi. È questa l’arte di Barney, al centro di un incrocio nevralgico dei linguaggi artistici. Ha trovato la pietra filosofale, mescolando i giusti ingredienti nelle giuste porzioni. Non è più cinema, teatro, arte visiva, è l’opera, il segno plasmato da lui, inconfondibile. Come un gioco di prestigio che lascia tracce, il suo cinema scultura vivente non si limita al momento della proiezione. Non tutto rimane nella dimensione cinematografica. Molti segni, pezzi diventano oggetti, foto, sculture a sé, restano fuori, si concretizzano al di qua della pellicola e non rientrano più.
Per questo, a Torino, Barney/Houdini si divide in un progetto che lo vede protagonista di una mostra alla Fondazione Merz, una rassegna cinematografica al Museo del Cinema, un convegno con il Dipartimento di Filosofia dell’Università e un workshop con l’Accademia di Belle Arti. Per due anni Barney si è misurato con il progetto “Mitologie contemporanee”, che cerca di dar materia alla sua figura e al suo immaginario, legandolo fortemente a un territorio fisico, umano e culturale apparentemente lontano dal suo mondo, ma in realtà intimamente legato a quella verticale esplorazione umana al centro del suo lavoro. Sotto l’aspetto visionario e rutilante delle sue opere video, l’artista chiede allo spettatore di entrare nel suo tempo creativo, attingendo al proprio vissuto personale, al bagaglio esperienziale soggettivo, ma anche agli archetipi collettivi ricevuti inconsapevolmente alla nascita, nel famoso brodo genetico, che alberga nello scroto, smosso dal muscolo cremastico, quello che permette l’atto sessuale e la riproduzione della specie. È il tempo dell’opera d’arte, della sua opera d’arte. Si entra nel mondo delle infinite possibilità di metamorfosi della forma. La visione si fa plastica. Dentro, alla fine, ci siamo anche noi.