Alla sua seconda installazione dopo l’anteprima berlinese al Deutsche Guggenheim, la mostra “All in the present must be transformed: Matthew Barney and Joseph Beuys” — allestita questa volta nella sede veneziana della Collezione Peggy Guggenheim in occasione della Biennale — è una lezione di stile curatoriale come un abito di ottima fattura sartoriale: non cerca l’exploit, parla un linguaggio classico ma rivela sintesi ed eleganza nella concezione e nell’allestimento e, soprattutto, nel dosaggio di elementi noti, chiarezza nella costruzione, freschezza e fascino.
Tutto il lavoro di Barney è a tal punto pervaso di analogie strutturali con l’universo di Beuys che l’idea di intrecciarne i percorsi creativi è, appunto, semplice e vincente. Che i due artisti condividano l’enfasi sul concetto di metamorfosi, la concezione della scultura come residuo performativo, la promozione di una mitologia personale in cui il protagonismo diventa simbolico e la tendenza a una narratività complessa e a circuito chiuso, è una verità che quasi non richiede verifica. Eppure la mostra, contenuta negli spazi esigui della sede veneziana che a stento trattengono la magniloquenza di entrambi, è una coreografia sapiente di correttezza storica e intuizione critica, verticalità e orizzontalità, dispersione e coesione, ascesi e sensualità, disordine e amore per la forma, tutte coppie di opposti attorno cui si articolano tanto le personalità di entrambi i protagonisti quanto l’allestimento stesso.
Vetrine, sculture e grandi installazioni, video e una magnifica selezione di piccoli disegni sono tra loro accostati secondo una modalità di confronto serrato che potrebbe quasi apparire didattica, eppure questa semplicità ha un respiro allestitivo raro, è un’ammissione di come si possa articolare il discorso critico con chiarezza e invenzione, anche e soprattutto quando in campo ci sono due personalità il cui peso riconosciuto genera una paradossale, eppure comune, sensazione di sovraesposizione.
Se la doppia coppia di vetrine che occupa l’ingresso costituisce una sorta di ouverture su memoria, classificazione e ordinazione dell’esperienza, la pompa di miele (Honigpumpe am Arbeitsplatz), del 1977, di Beuys, che occupa la prima sala a destra, e l’installazione Chrysler Imperial (2002) di Barney nell’ala sinistra, costituiscono un asse per tutta la mostra, un paradigma di opposizione, vischiosità, definizione scultorea, cristallizzazione e metamorfosi.