La straordinaria forza visiva, tattile e comunicativa dell’opera di Matthew Day Jackson è il corollario di un radicale ripensamento del ruolo dell’artista al crepuscolo dell’ottimismo modernista di un secolo finalmente davvero trascorso. Proprio sulle pagine di Flash Art (in conversazione con Bill Arning, in F.A. Int., January-February 2010) MDJ ha dichiarato la personale consapevolezza di vivere in uno scarto generazionale, ma al tempo stesso di sentirsi in bilico in una fase storica compiutamente e paradossalmente sottratta all’ansia del superamento di un’epoca in favore di un’altra, in una condizione immune e forse disillusa rispetto all’ideologia del progresso, disincantata nei confronti di una sempre crescente specializzazione dei saperi. Senza ricorrere a stratagemmi combinatori per riunire eterogenei versanti disciplinari né dichiarando nuovi postmodernismi, MDJ pratica la fine della fiducia nei sistemi, contesta l’inindagato affidamento all’architettura dei valori, delle scienze, delle arti e fa di se stesso l’occasione per chiedere quali bisogni sopravvivano nella mitologia dell’artista e dei suoi prodotti.
La prima conseguenza di un tale atteggiamento è la sottrazione dell’arte a un proprio specifico e a una tradizione prossima a un’autoreferenzialità che la metta a rischio di insensatezza. MDJ non aggiunge tasselli alla disciplina artistica, non segna una progressione nell’alveo di percorsi neoconcettuali, ma chiama in causa il tema più generale dell’immaginazione come leva per muovere a una sorta di archeologia dell’umanità. Nel suo recente In Search of…, un’opera che è prematuro tentare di definire come video o cine-documentario o adottare qualsivoglia etichettatura categoriale, vengono assunti i cliché dei format televisivi e, più in particolare, si propone un remake dell’omonima serie che, tra la fine degli anni Settanta e nel corso dei post-ideologici anni Ottanta, aveva abituato i telespettatori americani a prendere confidenza con i misteri dell’Universo attraverso programmi di intrattenimento di carattere pseudoscientifico. Con ironica distanza (ossia in una peculiare tele-visione) siamo ricondotti alla mediatizzazione delle domande fondamentali dell’uomo che una voce profonda fuori campo potrebbe sintetizzare pronunciando i comuni motti. “Chi siamo? Da dove veniamo? Cosa cerchiamo?”. In Search of… è tecnicamente ineccepibile, plausibile come tutto il nostro sapere odierno, estraneo alla verifica empirica, ma retoricamente fondato. Si narra di filmati della NASA che rivelerebbero strane coincidenze che alimentano l’ammissibilità di congetture sui caratteri antropomorfi di geografie e di fenomeni atmosferici, si evocano civiltà scomparse e se ne analizzano i reperti per interpretarne un senso che ancora potrebbe rivelarsi a noi contemporanei, si indaga sulla sparizione di un giovane artista, Matthew Day Jackson, e si entra nella casa dei suoi genitori per cercare indizi nel tentativo di comprendere dove possa essere finito e se quel suo stesso svanire non sia forse l’opera più ambiziosa che ci sta proponendo. Tale episodio costituisce l’ambigua soglia che apre non solo al rapporto di In Search of… con tutte le opere che MDJ convoca nella realizzazione delle proprie mostre, ma disvela il proposito di una ricerca infinita, moltiplicata dagli sguardi indagatori del pubblico che cerca di dirimere i propri dubbi sull’autenticità di quel che guarda e dei riflessi che le opere restituiscono a tutti coloro che, già frequentando una mostra d’arte, sono alla ricerca di qualcosa. Tutto il sapere è proiezione di bisogni: l’antropomorfismo rivela il desiderio di immaginare, ossia di porre-in-immagine l’esperienza di forze e universi da addomesticare a propria somiglianza; la creazione di oggetti artistici è la sottrazione dell’inerzia delle cose al mondo per restituirle a esso in una dimensione simbolica che è la concentrazione delle nostre aspirazioni e delle nostre convinzioni; in questa odissea della materia da “animare” in prospettiva umana e nella peripezia tra natura e cultura si ritrova l’invenzione stessa dell’arte, la testimonianza di un’eccedenza rispetto all’effimero, la necessità di continuare a immaginare e interpretare il nostro essere qui e ora alienandoci in opere ed esperienze stra-ordinarie per fare ritorno a noi stessi. In Search of… è il viaggio allegorico e il tentativo di documentare tale movimento. Offre chiavi interpretative per riconoscere il portato simbolico delle altre opere che MDJ realizza e che presenta in contemporanea a questo filmato che pure è un’opera. Insieme coglie l’occasione per introdurre elementi biografici relativi all’artista stesso e ripercorrere la genesi di The Lower 48, una serie di scatti fotografici realizzati in un viaggio compiuto in quarantotto Stati americani, “alla ricerca” di immagini antropomorfe nei profili di montagne e scogliere per individuare caratteri psicologici nella natura. Commentando tale lavoro del 2006 MDJ ha sottolineato come questi “ritratti di rocce” abbiano la caratteristica di riportarci alla ineluttabile necessità di cercare sempre un nostro riflesso in quel che vediamo e, contemporaneamente, di dare concretezza a una propria visione dell’artista come “esploratore”, impegnato a operare in un atelier che sia un illimitato spazio fisico dove ritrovare “paesaggi” che si rivelino come “la parte di noi che è al di fuori di noi”. Su questo stesso principio si fonda l’interesse di MDJ per gli eroi della Guerra Fredda, per quei combattenti che senza battaglia hanno sfidato il proprio contendente al dominio del mondo sublimando il conflitto sulla Terra a favore della conquista dello spazio. La civiltà post-atomica, infatti, ha considerato gli astronauti come moderni cavalieri che hanno manifestato la supremazia delle superpotenze nel gareggiare in tornei astrali evitando l’apocalittico ricorso ai propri ordigni nucleari. Andare in orbita attorno alla Terra e la conquista della Luna sono divenute le massime manifestazioni di forza e di orgoglio. Spingersi dove nessun uomo è mai andato, divenire extra-terrestri è la vera sfida all’ignoto che origina mitologie paragonabili solo agli sforzi di Prometeo e al varcare le colonne d’Ercole. Eppure, come in ogni Odissea, il dolore della distanza (una residuale nostalgia) ci restituisce sempre al nostro mondo e alla nostra umanità. Le imprese di Aldrin e Armstrong ci appassionano, ma le immagini più suggestive rimangono quelle che dallo spazio inquadrano la Terra. La NASA ci ha insegnato a guardare il nostro pianeta da un punto di vista esterno, dall’occhio di un dio superiore. Solo al di là di noi stessi si può ricostruire la nostra immagine intera. Su tale sforzo titanico e il correlato ritorno all’uomo si basano tutta la poetica di MDJ e ogni incontro con le sue opere che sempre si pongono come un limitare tra assoluto e vita concreta. Ecco perché MDJ realizza regolarmente degli autoritratti dell’artista “morto all’età della mostra”. L’occasione di un’esposizione è sempre il compimento di un’esperienza offerta contestualmente agli universi di cui le opere si fanno riflesso e indizio. Ogni mostra è un termine e una destinazione: chiude un’indagine e un’età dell’artista, che cambia pelle per una nuova dimensione esperienziale. Tali autoritratti sono da intendersi come suicidi transitori perché consapevoli del portato palingenetico dell’arte. Più in generale, però, MDJ affronta il tema della morte collegandola alla concatenazione di tempi, memorie e mutue influenze per le quali tutto continua a vivere in altro e in altri e quel che temiamo come definitivo è sempre una soglia iniziatica.
Otto statue lignee di astronauti si sostituiscono ai portatori del feretro di Philippe Pot, rinnovano il rituale alluso al celebre gruppo scultoreo che il Louvre conserva attribuendolo a Antoine Le Moiturier: sono i cavalieri di un culto esoterico che consegnano a un’oltre-morte le reliquie di un corpo assemblato dall’incontro di materiali eterogenei, come fosse lo scheletro androide di un viaggiatore che abbia attraversato l’intera storia dell’umanità. La bara di vetro e la peculiare disposizione di luci al suo interno lo moltiplicano in infiniti riflessi, proiettano il misterioso personaggio al di là della sua presenza fisica, in una virtualità che lascia percettivamente scorgere dimensioni potenzialmente interminabili dell’esistenza. La costruzione di quest’opera (The Tomb) impiega materiali e tecniche già in precedenza adottati da MDJ per lavori in cui lo spettatore potesse progressivamente osservare il proprio riflesso sparire nell’avvicinarsi a strutture di vetri e neon ispirate alle formule geodesiche di un architetto visionario quale Buckminster Fuller. Le teorie e le costruzioni proposte da Fuller hanno oggi una diffusa influenza su molti artisti delle ultime generazioni. Il suo credo utopico, la sensibilità verso temi ecologici ed energetici, la tensione metafisica proposti in una recente retrospettiva dedicatagli dal Whitney Museum di New York hanno alimentato la leggenda di questo testimone di possibilità umane non riducibili alla convenzionalità scientifica. MDJ ha spesso dedicato a “Bucky” la propria impresa artistica e, per usare le sue stesse parole, “ha messo i suoi occhiali colorati dell’arcobaleno per guardare attraverso il buio”. Ha esaltato il coraggio di andare oltre i propri limiti, si è preso un brevetto da pilota automobilistico e, partecipando a pericolose gare, si è messo alla prova realizzando video e opere che non possono prescindere dall’autentica esperienza compiuta. Riciclando la carcassa di un’auto distrutta da suo cugino, MDJ ne ha proposto una trasfigurazione scultorea inserendo uno speciale basamento e alcuni neon colorati sempre ispirati ai principi combinatori di Fuller. Ha spesso collocato tale lavoro nel cuore delle proprie mostre, come un perno attorno al quale sviluppare percorsi tematici più ampi e collegando l’alimentatore delle luci a pannelli solari da installare sui tetti di musei e gallerie in cui presentare quel che ha intitolato Chariot II – I like America and America likes me riferendosi esplicitamente a Beuys, ossia all’artista che con maggior vigore nel XX secolo ha esortato al superamento delle costrette potenzialità umane.
Collegare lo spazio della mostra a quello cosmologico dell’invisibile e incontenibile energia solare o far calare da sedici metri di altezza uno spettacolare pendolo di Foucault, che, ripetendo l’esperienza scultorea dei ritratti di Mussolini realizzati da Bertelli, ripropone il profilo dell’artista autoritratto e modellato a 360 gradi in un metallo specchiante che, muovendosi senza termine, fa oscillare con sé tutto il mondo attorno, traduce la contingenza della mostra nell’esperienza di un inavvertito ma costante rapporto a forze gravitazionali e astrali che ci impongono la necessità di un orientamento. Il singolo si dispone nei confronti dell’assoluto in una romantica e istantanea percezione della propria potenza, esprimibile nei termini del sublime kantiano come prova dell’incommensurabile rispetto alle dimensioni o alla forza dell’umano. Insieme, però, vi è partecipazione, unione mistica con ciò che manifesta l’incontenibile per le facoltà intellettive e rispetto al quale l’arte e, più in generale, l’intuizione — adottando un’indicazione di Buckminster Fuller — offrono il territorio di accadimento. MDJ propone una continua antropometria di ciò che non ha misura, immerge lo spettatore nell’abbraccio di un enorme quadro che riprende le dimensioni e la disposizione dei pannelli delle ninfee di Monet conservate al MoMA, ma sulla superficie grigia, nell’assoluta mescolanza di tutti i colori, si possono individuare solo i rilievi di pigmento e polvere del cartongesso trattato in modo da evocare la superficie lunare, smarrendo lo sguardo nel campo visivo interamente occupato dalla monocromia dell’opera e obbligandosi a un ideale ricongiungimento con l’astro selenico che non cessa di sollecitare la Terra come suo riflesso e proiezione. Qui MDJ rivela la propria tensione nell’offrire esperienze ora per chiamare in causa l’assoluto nell’omogeneità di una superficie, ora per visualizzare l’intero enciclopedico di oggetti industriali, prodotti artistici, manufatti ed elementi naturali disposti sugli scaffali dei suoi “Study Collection” che non dispiegano pillole farmaceutiche o aspirapolveri, ma che irridono l’ottimismo dell’arte di un trascorso modernismo, perché quel che va in scena è un mondo che esorbita dalla linearità delle narrazioni storiche, che eccede latitudini, longitudini, cronologie e autonomia delle forme. Tutto è in trasformazione e ciò che distrugge crea. Non fa eccezione la guerra o l’apocalissi nucleare, come ne ebbe consapevolezza Robert Oppenheimer nella celebre dichiarazione in cui ebbe da collegare la propria responsabilità nell’invenzione della bomba atomica alla Bhagavad Gita e, in particolare, alle parole del multiforme Vishnu annunciante il proprio essersi assunto il compito ineluttabile di divenire “Morte e distruttore di mondi”. Tutti, concludeva il fisico americano, giungiamo in un modo o nell’altro a una simile conclusione. Nella nostra età post-atomica, nella dismisura di potenze irrazionali e violente, l’arte è una sorta di pi-greco dell’esistenza, l’unità di misura per mettere in regola ciò che sfugge al calcolo e Matthew Day Jackson è l’interprete che porta tale sforzo alla massima tensione.