Un aspetto della società contemporanea con cui anche gli artisti hanno dovuto fare i conti è la capacità, da parte di un sistema sempre più flessibile, di assorbire le spinte “sovversive” o “ rivoluzionarie” che vengono “normalizzate” e rese innocue. Se questo porta, da una parte, a una democratizzazione della società, dovuta alla sua adattabilità e quindi alla — almeno parziale — accettazione di ogni proposta, dall’altra il prezzo da pagare è una omologazione generalizzata e un immobilismo della società stessa che appiattisce ogni risultato, non permettendo nessun tipo di alternativa e di cambiamento. Questo si riflette anche sui rapporti tra artisti e mercato. Il mercato dell’arte ha infatti sviluppato una capacità di adattamento e di assorbimento impensabili precedentemente, e ogni forma artistica, anche di dissenso o di negazione, viene sfruttata da un punto di vista commerciale. È anche per questo che alcuni degli artisti che non hanno rinunciato a un ruolo intellettuale hanno imboccato una strada che conduce proprio all’interno del sistema, usando i media e le tecniche che di volta in volta si rivelano più efficaci; usando, quindi, gli stessi “mezzi” del sistema. Ci si integra anche perché solo dall’interno ci si può far sentire, ma nello stesso tempo si insinua il dubbio all’interno, negando solidarietà al sistema stesso.
Anche Maurizio Cattelan sta percorrendo questa strada che lo ha condotto a realizzare dei lavori dove gli oggetti o le situazioni vengono decontestualizzati, destrutturati, quindi liberati. Il suo lavoro è caratterizzato da una frantumazione dell’opera usando i media, la pubblicità, l’economia e il mercato. È una ricerca ironica e provocatoria al tempo stesso, che può toccare anche tematiche politiche e sociali, ma che non sfocia mai in una presa di posizione ideologica. Si sviluppa quindi un processo capace di rifondare e riorganizzare gli oggetti — o le azioni — ma soprattutto di mettere in crisi un uso univoco del linguaggio che non viene negato ma aperto a un numero teoricamente infinito di contaminazioni.
Roberto Pinto: Hai lavorato spesso, soprattutto all’inizio, in una zona di confine tra arte e design…
Maurizio Cattelan: Non mi preoccupo di definirmi designer o artista, penso di essere sempre un clandestino, in tutte le mie attività. Mi interessa spostare il punto di vista: un oggetto che nasce per una funzione può diventare, tramite una rilettura (o meglio una rifondazione) semantica, un’altra cosa, in grado di stupire, comunque di rigenerarsi.
RP: Una costante che si può riscontrare nel tuo lavoro è il tentativo di entrare nei sistemi per trovarne il punto debole, la frattura per sovvertirne i piani. Anche nel fondare la Cooperativa Scienziati Regionali Romagnoli ti sei basato su questo?
MC: La Cooperativa è nata con un intento critico, ironizzando sul punto di vista di uno “straniero” all’interno del monopolio romagnolo del sistema cooperativistico. Ma subito dopo è diventato il mio alter ego, un modo per fare delle cose senza intervenire in prima persona.
RP: …un modo impersonale di agire…
MC: Piuttosto un messaggio non identificabile con una persona. Per esempio, sostenere con un’inserzione elettorale una flessione sul voto (l’inserzione conteneva la scritta: “il voto è prezioso tienitelo” ndr) diventa quasi la stessa cosa che sostenere un candidato; mentre era molto interessante lasciare il messaggio in qualche modo anonimo, ma possibilista. Sperando che potesse far riflettere sul modo ripetitivo, quasi incosciente, di prendere parte a un rito sociale collettivo.
RP: Anche alla fiera di Bologna hai agito allo stesso modo allestendo uno stand abusivo su cui promuovevi il tuo lavoro. Quale significato volevi dare allo stand?
MC: Sto sostenendo e sponsorizzando una squadra di calcio formata esclusivamente da extracomunitari e ho pensato che la migliore maniera di promuoverla è agire come un extracomunitario, diventando cioè un abusivo; per cui l’idea di questo stand “illegale” è già insita nel prodotto promosso. Fa inoltre parte delle modalità di tutti i lavori che sto sviluppando: insinuarsi nelle maglie che ogni sistema lascia libere, non in maniera provocatoria e visibile ma in modo mimetico, usandone gli stessi mezzi. Ciò che voglio rappresentare è la lotta contemporanea tra il bisogno di essere liberi e uno schematismo sempre più forte. Lo stand non è quindi una performance né un’opera d’arte, è semplicemente uno stand.
RP: Ma il pubblico, in questo caso quello della fiera, come reagisce alle tue provocazioni?
MC: Devo dire che c’è stato anche un sostegno economico, alcune persone hanno lasciato dei contributi per sostenere l’iniziativa, ma è vero che la gente che si è avvicinata era abbastanza perplessa, soprattutto si chiedeva perché un artista volesse promuovere una squadra di calcio. La cosa che mi fa più piacere è che la gente si ponga delle domande, poi se le mie domande sono differenti da quelle del visitatore, non importa.
RP: E gli addetti ai lavori (critici, galleristi, ecc.)?
MC: Mi piace avere un confronto con loro, perché in genere hanno le idee chiare. Questo però, se da una parte mi dà sicurezza, dall’altra mi sgomenta perché non ci sono dubbi, e se non ci sono dubbi non ci sono domande, non ci sono perché, e se non ci sono perché… capisci dove si arriva?
RP: Ma sponsorizzando una squadra di calcio o facendo un’inserzione elettorale, non credi di lanciare anche un messaggio politico?
MC: Non sono interessato alla propaganda, tocco dei contenuti politici perché mi pongo il problema delle differenti categorie della realtà. Credo però di rispondere alla necessità sempre più diffusa di nuovi argomenti morali… anche se alla fine ci si ritrova faccia a faccia con se stessi più che con il sistema. Penso che la vera situazione da scardinare sia quella interiore: più il mio lavoro si rivolge all’esterno più credo parli dei miei problemi, della mia interiorità.
RP: L’arte come autoanalisi?
MC: Ho sempre sostenuto questo punto di vista.
RP: Consideri le tue “operazioni” una sorta di lavoro collettivo, un’opera aperta, visto che coinvolgi (più o meno consapevolmente) altre persone?
MC: Certe “operazioni” avevano proprio questo intento, perché la costruzione e la riuscita del lavoro dipendono anche dal grado di interazione che si stabilisce con le persone con cui vieni a contatto. Cerco sempre di lasciare l’opera senza confini già demarcati, in modo che sia il rapporto con gli altri a completarla.