Il doppio e il sosia occupano una posizione preminente nel lavoro di Maurizio Cattelan. Dagli identikit della polizia di Super-Noi alle migliaia di autoritratti in Spermini, passando per le piccole sculture di Mini-me e le altre numerose figure in miniatura, l’opera di Maurizio Cattelan è popolata da un esercito di fantocci che indossano i lineamenti dell’artista come una maschera.
È un ego frammentato quello ritratto da Maurizio Cattelan, un ego che tuttavia sembra dilettarsi dei suoi sintomi: uno schizofrenico felice — se mai ne esistesse uno — che accoglie le infinite possibilità offerte dalle sue molteplici personalità.
Alcuni critici hanno paragonato questa performance del sé a un’irriverente mascherata carnevalesca, con Cattelan che interpreta la parte del buffone. Altri hanno descritto il suo lavoro come una forma sperimentale di sociologia che immagina la vita quotidiana come un teatro in cui impersonare una molteplicità di ruoli.
In ogni caso, Cattelan sembra ricordarci che — come i bambini in Tess dei D’Urberville — siamo troppi, perché ognuno di noi ospita una moltitudine.
Osservando We, non si può fare a meno di pensare a Gilles Deleuze e Félix Guattari, i due filosofi che hanno celebrato entusiasti la dissoluzione del sé.
Viene in mente anche il dipinto di Henry Fuseli The Nightmare, inquietante dramma ambientato in una camera da letto in cui un mostro visita i sogni di una bellezza dormiente in abiti succinti.
O forse We è un ritratto dell’artista nel momento in cui affronta lo spettro di se stesso — in stile Alighiero e Boetti. We non è più un ritratto dell’artista da giovane — o da cucciolo, come direbbe Dylan Thomas: ora Cattelan si mostra alle prese con Maurizio, a litigare con se stesso. È il materiale perfetto per la trama di un racconto su una crisi di mezza età — un classico alla Woody Allen, con la consueta dose di riferimenti freudiani.
Ma c’è anche qualcosa di vagamente religioso in questo doppio ritratto: forse sono gli abiti, oppure la posa dei corpi che richiamano il Cristo del Mantegna. O forse è il letto stesso, con il suo design austero e il legno che odora di chiese e sacrestie.
We è una deposizione, un’allegoria dell’inazione — dopotutto, è la prima volta che Maurizio Cattelan ritrae se stesso in un ruolo passivo. Probabilmente è questo che rende We un’opera toccante, piuttosto che semplicemente umoristica. Con le sue proporzioni distorte e ridotte, installata all’interno della spartana architettura di un mattatoio in periferia, We è una scultura che si visita come un vecchio amico ricoverato in ospedale, con lo stesso senso di familiarità, imbarazzo e paura.