Getulio Alviani: Un’intervista è come un autoritratto, un modo in cui l’intervistato si fa conoscere con le proprie parole dando un’immagine di sé. Comincerei, quindi, col chiederti cosa Max Bill pensa di Max Bill.
Max Bill: Posso dire che la ricerca del “giusto” è quello che mi preoccupa da sempre, la base su cui faccio le cose più diverse. Ricordo che l’anno scorso, in occasione del mio ottantesimo compleanno, a Zurigo mi hanno dedicato quattro mostre attraverso le quali posso tentare di tracciare l’autoritratto che mi chiedi. Al Museo Nazionale, dove fino ad allora erano stati esposti solo oggetti antichi, sono state esposte le mie sculture in oro. In un altro museo hanno esposto qualche quadro e le mie prime cose del 1925, una mostra, questa, che ho voluto suddividere per gruppi di esperienze, alcune delle quali inedite, in cui ho mostrato le diverse soluzioni che adotto a seconda dei problemi che mi pongo di volta in volta. In un’altra mostra ancora venivano mostrate le varie direzioni delle mie altrettanto varie attività. A quel punto mi sono chiesto cosa volessero fare queste persone che vengono da me dicendomi di voler esporre il Bill pittore, architetto, orefice, scultore, designer, scrittore, politico, eccetera. Bisogna darsi un metodo, non si può far vedere tutto, si può mostrare la mia attività solo per parti e forse posso farlo solo io.
GA: Ma chi è veramente Max Bill?
MB: Un critico che mette subito in attività le sue osservazioni mai fini a se stesse, ma che vogliono essere costruttive. Questa è la mia struttura da cui non posso uscire. Quando arriva qualcuno e mi dice: “si potrebbe fare questo e quello”, sono portato sempre a pensare che in quel modo non si potrebbe fare, e questo è il mio approccio a qualunque problema. In fondo mi domando sempre il perché e il per come faccio una cosa. È una sorta di moralità verso i problemi in generale. Nella politica è la stessa cosa, come in economia, due problemi che studio da sempre.
GA: Ma come ti senti in un mondo che sembra abbandonare la ragione, la spinta razionale?
MB: Queste cose non interessano e con questo disinteresse generale si arriva alla negazione del progresso. Ma non me ne preoccupo, mi dà solo fastidio che gli altri non lo capiscano.
GA: Infatti, oggi si parla tanto di inquinamento acustico, atmosferico, ma di quello ottico, che è enorme, non importa a nessuno.
MB: È vero, è terribile, deriva dai giornali, dalle riviste. Tutto questo crea confusione, sconcerta la gente che però non ne può fare a meno. Il problema è che non si fanno più cose normali, non si può più comprare un oggetto ben fatto perché disegnato da persone che lo disegnano soltanto invece che farlo. Lo scrissi in un articolo in cui attaccavo anche la parola Gestaltung, che ora si adopera dappertutto e che non significa più niente, come non significa più niente la parola design, che ora è solo decorazione. In una conferenza dicevo che il design è utile quanto le acconciature dei capelli, perché servono anche gli acconciatori, ma prima di tutto bisogna avere i capelli.
GA: E perché credi sia avvenuto tutto questo?
MB: Dopo la guerra si pensava che non ci fosse più niente e che si poteva ripartire da zero, dando al mondo tutte le cose di cui aveva bisogno, porte, maniglie, sedie, ma è stato un errore, perché il mondo vuole solo distruggersi. Forse non è così, sono io che non capisco il mondo, ma tutto è diventato commercio, produzione insensata. Se entri in un negozio di lampade trovi di tutto, ma niente che vada bene per leggere. E questo accade perché l’uomo non è più padrone di se stesso, ma è guidato dai negozi, dai vicini, dai giornali: è un’epidemia.
GA: E come ti senti in questo contesto?
MB: A volte ho l’impressione di non aver niente da fare. Faccio comunque le cose di cui ho bisogno, non potrei fare altrimenti, non posso lavorare per la produzione. Ad esempio ho fatto un tavolo su tre ruote per mia moglie, me lo chiedeva da sempre. È venuta fuori una cosa che industrialmente è molto chiara ma non posso correre di qua e di là per farlo produrre. Ne ho fatto uno solo, come una volta disegnai un piccolo sgabello per Ulm; lo realizzammo nella piccola falegnameria che avevamo a disposizione. Ora che è venduto in serie dicono che sono stati gli studenti a farlo, ma non sarebbe venuto fuori senza un disegno determinato e non modificabile.
GA: Ciò vuol dire che è più facile andare verso il bene che il male?
MB: Sì, infatti la normale educazione si sta sempre più deteriorando: i giovani non sono più educati all’intelligenza ma programmati per andare in ufficio. È una legge della produzione.
GA: Allora, come vedi il futuro?
MB: Non ho nessuna idea a riguardo. Vedo il grande spreco di tutto. Ma cosa se ne fa la gente di tutto questo denaro che colleziona? C’è qualcuno che per tradizione acquista arte. E poi cosa se ne fa? Non vale niente, è senza senso. Produco le mie cose per vedere la reazione che provocano, non per guadagnare. Tutto lo sfogo di denaro che c’è oggi in giro è solo una forma di autoesaltazione. Non sono interessato a tutto questo.
GA: Sì, mi pare che il vostro scopo sia da sempre stato di tipo didattico, diretto a mettere in moto il cervello più che l’economia.
MB: Bisogna ritrovare ogni volta il sistema che c’è dentro. Ad esempio in Albers ci sono due sistemi che si ripetono sempre: il dinamismo delle forme e la fissità del quadrato; i due sistemi che in fondo ritroviamo nelle teorie di Paul Klee. Nelle mie opere, invece, c’è un movimento diverso con motivi più ricchi. C’è comunque una varietà, alcune non appartengono alla linea didattica come quelle di Arman per esempio. A guardarle si ha l’impressione che siano opere d’arte, la spiegazione di qualcosa. Lo stesso vale per le opere di Tinguely, che fa qualcosa di nuovo coi rottami. Anch’esse sono espressioni umane e in un certo senso, quando sono fatte bene, sono tutte opere d’arte; e anche se non posso accettarle come tali le accetto come la spiegazione di una situazione.
GA: O di un costume?
MB: No, più di una situazione. Vedi, noi viviamo in un momento molto complesso, per questo sono sempre andato all’origine delle cose. In fondo, un’ascia è sempre un’ascia bella e utile, può avere delle piccole varianti e quando la guardiamo oggi è ancora un oggetto talmente chiaro ed espressivo che è un’opera d’arte. Questo è il motivo per cui mi interesso delle cose della Storia, cose fatte nel miglior modo possibile anche dal lato estetico.
GA: Un modo per cui anche i materiali hanno una loro importanza?
MB: Certo, cerco sempre un materiale che si presti al meglio per quello che voglio fare. Tendenzialmente uso materiali che durino il più a lungo possibile, come il granito piuttosto che il marmo. Ci sono però delle varianti, come nelle Mezze sfere intorno a due assi (1965-1966), in cui una è nera, una rossa e una grigia, ma con la stessa forma. Il materiale varia, ma la forma è sempre definitiva.
GA: È il metodo delle varianti di colore secondo il principio della permutazione caro a te e ad Albers.
MB: È vero, i colori possono cambiare, le forme mai, perché trovarne una nuova è difficile, non succede ogni giorno, e quando accade non posso più cambiarla. Infatti, quando vendo una cosa di un certo tipo vorrei subito riaverla, e così la rifaccio. Per questo modello ho trovato un granito egiziano di Assuan e sarà l’ultimo che farò di questo tipo. Comunque ci sono cose che possono essere realizzate con vari materiali, altre per cui non è possibile, come il memoriale che ho realizzato per il nostro amico Arthur Leiwa, fatto fare in pietra chiara normalmente impiegata per costruire le case di Israele. Al museo di Tel Aviv ci sono anche due mie opere in acciaio (Unendliche Spiralflache e Konstruktion aus Funfzehn Prismen in Vier Langen) che feci nel 1973-1974 per la hall del grattacielo della Rapid American. Per queste opere avevano progettato delle nicchie laterali all’atrio, ma gli uffici non furono mai realizzati e ora le sculture sono a Tel Aviv, dove la sistemazione è anche migliore di quella prevista originariamente in America: sono appese davanti a una rampa di scale e chi sale può vedere benissimo.
GA: Sono due opere diverse strutturalmente ma con una soluzione concettuale simile.
MB: Entrambe sono fatte con elementi costruttivi: una è basata su un insieme di blocchi mentre l’altra è formata da un’unica linea. Tempo fa feci qualcosa di simile per un casinò, un’opera sullo stesso tema appesa al centro della sala da gioco: si sviluppa su tre piani e si può vedere da tutte le direzioni, gira su se stessa ed è formata da due spirali che si incrociano. È divertente perché una spirale va velocemente verso il basso e l’altra lentamente verso l’alto, un movimento che rispecchia un po’ quello che succede in un casinò.
GA: Con questo condurre preciso la costruzione delle opere sei giunto a ottantuno anni, e dato che ogni tua opera rappresenta un problema, vorrei che mi indicassi cinque opere che rappresentano l’essenza dell’arte di Max Bill.
MB: Sì, cinque possono bastare.