“Dopo che nel 1961 ho trasformato la pittura, cioè lo specchio metaforico, in una vera e propria superficie specchiante, le immagini dell’arte sono diventate ‘oggettive’ e sono entrate nella vita”, così Michelangelo Pistoletto descrive il momento cruciale, la sostituzione del supporto pittorico con lo specchio vero e proprio. “Il quadro è uscito dalla cornice, la statua è scesa dal piedistallo. Da allora il mio lavoro, cioè l’atto estetico, ha cominciato a penetrare negli spazi della vita stessa”. Così, in un continuo incrocio tra vita e arte, vive Pistoletto. Dopo il successo della personale da Ileana Sonnabend a Parigi (1964), Leo Castelli gli chiede i nuovi quadri, ma l’artista non accetta la condizione di trasferirsi a New York. Dall’invenzione dei quadri specchianti al progetto “Love Difference” il suo lavoro si è sempre allargato al mondo, ha sempre incluso l’altro, tanti altri, tutti gli altri. Così la grande mostra al MAXXI di Roma, curata da Carlos Basualdo, dal titolo “Da Uno a Molti”, analizza il periodo che va dal 1956 al 1974. Ma il museo presenta anche una seconda mostra, “Cittadellarte”, nome dell’omonimo laboratorio creativo fondato a Biella dall’artista in un ex lanificio e destinato al confronto e a ospitare giovani artisti in residenza, oltre che ad allargare la partecipazione. Annullare la distanza, praticare la differenza: questo è il progetto di Pistoletto. Gli altri vengono di volta in volta inclusi nel suo progetto artistico, a partire dalla sua famiglia: la moglie Maria, le figlie. C’è un elemento molto importante che determina la connessione arte-vita da cui parte tutto il lavoro di Pistoletto: il rapporto con il padre, affrescatore e restauratore, presso il quale svolge il primo apprendistato. “C’è una foto di mia madre che mi teneva in braccio quando avevo tre anni e dietro c’è l’autoritratto di mio padre.
Più avanti, quando ho voluto fare il mio autoritratto ho usato il ritratto che mi fece mio padre da piccolo. Non ero ancora in grado di farmi un autoritratto e utilizzavo la mano di mio padre. Più che un destino in avanti c’è un destino all’indietro, voglio dire che utilizziamo il passato in base a quello che il passato ha prodotto. Nel mio lavoro, mio padre diventa mio figlio e io divento padre di mio padre”. Se questo rapporto lo porta con naturalezza a entrare nell’arte, sarà attraverso un altro personaggio che scoprirà la cultura moderna: diventa così allievo di Armando Testa nello studio della grafica pubblicitaria. “Testa guardava in modo diretto e quotidiano l’arte moderna. Era dotato di una grande capacità di sintesi, che è il dono principale della pubblicità”, dice l’artista. “Quando Armando ha visto il mio specchio con il cappio, un pezzo di corda appeso nel vuoto, mi ha detto: ‘Hai fatto un capolavoro!’. Lui aveva comprato un mio specchio dove non c’erano figure, ma un pluviale vicino al bordo, un quadro specchiante che aveva lo spirito dell’essenzialità.” Pistoletto inventa nuove aperture, si confronta senza preclusioni con ogni tipo di linguaggio: collabora con Gianna Nannini; costruisce un calciobalilla specchiante e gioca a biliardino con personaggi del mondo del calcio. In una ex sala di registrazione della Nannini a Milano l’evento sonoro era costituito da un sibilo intrecciato a una vocalità; lo spazio era recinto da superfici specchianti in alluminio su cui appariva la figura stessa della cantante; al centro l’installazione L’Orchestra di stracci, realizzata con materiali usati dall’artista in molte opere degli anni Sessanta. Posati a terra, i bollitori emettevano vapore, calore e un vero e proprio suono su cui si innestava la voce della Nannini che modulava la parola “mamma”. Nannini usava la voce come unico strumento musicale realizzando una vera e propria scultura vocale che riverberava sulle pareti riflettenti dell’alluminio conduttore di suono. “Gianna ha penetrato il materiale fisico con il materiale sonoro” afferma Pistoletto.
L’esperimento sonoro è stato riproposto la sera dell’inaugurazione al MAXXI, che per l’artista è un luogo importante, tanto da sostenere che “deve essere sempre di più il tempio dell’arte a Roma. La spiritualità dell’arte è l’altra metà della spiritualità. Dopo aver eliminato tutte le forme simboliche tranne lo specchio, ora torno a lavorare sul simbolo: quello che chiamo ‘Terzo Paradiso’ è il simbolo del finito e dell’infinito”. La mostra, dunque, è anche la dimostrazione del buon uso che si può fare di uno spazio complesso come il MAXXI.