I danzatori sono in piedi, immobili, in diversi punti dello spazio. Il collo è rilassato e la testa è piegata lievemente verso il basso; lo sguardo riposa, inclinato verso il pavimento. Ogni corpo si focalizza sull’esperienza di essere solo e, simultaneamente, in compagnia – inserito in un ambiente popolato ad alta densità. L’esperienza di solitudine estrema è condivisa con gli altri corpi, a loro volta soli e socializzati.
Questo scenario – riflesso del paradosso dell’intimità e dell’espropriazione proprie a ogni legame comunitario – è il protocollo di base di una delle pratiche collettive che Michele Rizzo (Lecce, 1984; vive ad Amsterdam) ha sviluppato nel flusso della ricerca per Higher (2015–17), progetto coreografico e di movement research a lungo termine che ambisce a convogliare l’ipnotica esperienza esistenziale del clubbing, la sua qualità di movimento e il “macchinario” estetico e sociale del club, prima nello studio da danza, poi nel black box e infine nello spazio di trasmissione del workshop.
In Higher la performance è concepita come una sfida di traduzione in cui Rizzo cerca di riprodurre, con lacune e residui, un immenso training affettivo, percettivo e coreografico, attivato negli anni fuori dagli istituti e dai teatri, frequentando – tra il leasure e la sperimentazione – club quali il Trouw, il De School o il Cruquiusgilde di Amsterdam o il Berghain di Berlino. Un training che non insegna a muoversi, ma induce piuttosto a guardare muoversi, muovendosi. Un training denso in cui si impara a osservare i corpi vivi dei propri club buddies e degli estranei che, improvvisamente intimi, si muovono intorno e modificano la propria morfologia in un gioco di visione palpante, seduzione e reclutamento.
Nello spazio del movimento – stiano essi articolando precise grammatiche o siano disarticolati o a volte semplicemente presi da uno statico “essere in vita” – i corpi nel club emergono per Rizzo come sostanze parlanti, veri e propri “traduttori somatici”, come li qualifica Paul B. Preciado nel suo Manifesto contra-sessuale (Il Dito e La Luna, Milano 2002). In quel dispositivo di scrittura generica che è il muoversi, la specifica pratica del clubbing rappresenta per Rizzo una dimensione complessa, una sintesi di dispersione estrema e concentrazione radicale: performare per se stessi per raggiungere un flow ego-centrico e contemporaneamente performare per gli altri per mantenere in tensione la connettività, sempre da rilanciare. Questi corpi in flow cedono i diritti di proprietà univoca su loro stessi e affidano la propria manipolazione al potere “architettonico”, come lo definisce Rizzo, della carne degli altri, che a prescindere dal desiderio individuale scolpisce, fuori e dentro.
Formatosi alla SNDO – School for New Dance Development e nel Dirty Art Department del Sandberg Institute, entrambi ad Amsterdam, Rizzo fin da subito cerca di spingere con convinzione la sua pratica oltre l’ambito gergale del dance making. Nella soglia coreografica, Rizzo pensa al corpo mobile come un’entità materica che si può scolpire e alla danza come quello strumento di modificazione collettiva dell’umano, che il movimento fa trasumanare.
L’ambizione della pratica di Rizzo trova infatti un wording preciso e adeguato in una conferenza pronunciata da Julia Kristeva nel 2013 a Stoccolma, “Going Beyond the Human through Dance”, in cui il radicale e necessario gesto post-umano e post-antropocentrico del “trasumanar” dantesco, dell’“eccedere l’umano”, viene affidato alla danza piuttosto che alla teoria. La danza per Kristeva si rivela uno strumento critico più esigente dei motivi languidi dell’accelerazionismo o del capitalismo cognitivo: la soglia della danza fornisce nuove narrative e nuovi linguaggi alla “commedia umana” rifiutando di cedere alla malinconia sistemica imposta dall’ipertrofia tecnologica o dall’astrazione della finanza virtuale.
Seguendo le aperture di Kristeva, Rizzo concepisce la danza come una dimensione che inchioda l’immaginazione – teorica e sensoriale – al corpo, impedendole di volarne fuori: lo spazio coreografico diventa speculativo, campo d’azione di corpi senza interpretazione, assertivi, che affabulando futuri e presenti alternativi capitalizzano sull’alienazione del movimento. L’azione “scultorea” della danza – riorientata dal clubbing – permette a Rizzo di intravedere nel movimento de-funzionalizzato e programmato la possibilità di aprire stati di trance, ovvero luoghi ricavati nelle pertinenze di quel corpo attuale che noi siamo, dove si accede a un infinito potenziale e a una virtualità sensoriale.
Higher e il suo naturale prolungamento, Spacewalk (2017), nascono da una volontà di esplorare la pratica artistica come strumento di attualizzazione di quello spazio “ulteriore”, virtuale, in costruzione, a cui il corpo accede grazie al gate dell’alienazione e del flow. Già nel 2013, con il progetto M, Rizzo si avventurava in fantasie e desideri di sdoppiamento del sé: doll iper-realistici o figure di gabber dormienti, scolpiti come avrebbe fatto Rodin, rispondevano a un’ossessione per la creazione di “altri sé” speculari, incarnazioni temporanee delle altre possibilità virtuali di ciò che noi sembriamo essere qui e ora.
In uno spirito di coerenza con la demoltiplicazione del sé, anche nelle sue incarnazioni eventuali, Rizzo si approccia, nella sua pratica, a ciò che non sa fare. Come se mettesse in atto l’esercizio del prayer channeling che, in un’operazione speculativa simile alle sessioni d’incubazione onirica nei templi di Ascelepio, convoca sul proprio corpo delle skills con l’idea di averle. Come se tutte le immagini mentali di una particolare abilità potessero trasferirsi sul corpo, e attualizzarsi. Come se…