Raffaele Gavarro: Mi racconti dell’inizio? Dei tuoi primi lavori con la tua famiglia nella casa di Molfetta?
Michele Zaza: Era l’inizio, appunto. C’ero io, la mia famiglia, la casa dove vivevo. Mi è sembrato naturale iniziare dalle cose che avevo intorno, che mi appartenevano e alle quali appartenevo. I miei archetipi. Ma è sempre stato così. Quando i miei sono mancati, ho continuato a lavorare con le persone che erano parte e sono parte della mia vita.
RG: Qual era, alla metà degli anni Settanta, la tua percezione della scena dell’arte italiana e mondiale?
MZ: La scena era contrassegnata da molteplici fermenti di ricerca improntati su una matrice fortemente dialettica, in cui il confronto tra America ed Europa portava sollecitazioni di nuove avanguardie multilinguistiche: Land Art, Conceptual Art, Arte Povera, Body Art, Fluxus, per citarne alcune. Ricerche non meramente finalizzate alle logiche del profitto, ma orientate all’esperienza dei concetti e dei contenuti, identitari e antropologici. Tutto ruotava intorno alla dissacrazione e alla negazione dei miti imperanti, nonché sulla loro sostituzione con una nuova mitologia conforme alle esigenze di rinnovamento. L’artista poneva la sua situazione esistenziale come situazione di libertà. In questo contesto critico-creativo il mio lavoro acquisiva una sua riconoscibilità e peculiarità non assimilabile a correnti o etichette in atto, praticando una diversità identitaria, nell’ambito della condivisione ideologica.
RG: E quale è oggi? Puoi indicarmi le differenze più rilevanti?
MZ: Nell’era della globalizzazione culturale la ricerca artistica ha dissolto i confini dell’asse America-Europa. L’arte vive una fase di transizione verso una cultura emergente di tipo planetario. Lo sviluppo digitale, la velocità della comunicazione, la facilità e praticità dei collegamenti, lo stile di vita delle ultime generazioni cresciute e improntate sulla base di impalcature consumistiche e di profitto, favoriscono un enorme processo di ibridazione, di fusione e di trasformazione delle identità culturali. Non esistendo più movimenti o gruppi di carattere linguistico-ideologico, l’arte diventa di frontiera, ovvero uno spazio, fisico e mentale, dove si compenetrano idee e valori estetici delle più svariate razze e culture. In un mondo multietnico gli artisti, più autonomi e determinati, scoprendo e rivendicando di volta in volta le proprie radici, la propria storia, il senso della propria appartenenza, chiedono di essere riconosciuti e di affermare il proprio punto di vista sul mondo contemporaneo. Inoltre le mitologie individuali, all’interno del mondo globalizzato, conservano la diversità e l’unicità. In questa direzione penso di aver dato un contributo fin dagli anni Settanta.
RG: Hai detto più volte che non sei un fotografo. Ed è molto chiaro. Ti chiederei invece del tuo rapporto con la performance implicita alla messa in scena che precede la realizzazione delle tue immagini fotografiche.
MZ: Non sono un fotografo, né faccio performance. Almeno non nel senso ortodosso di questo linguaggio. Ma il mio corpo e quello delle persone che sono nello spazio dell’opera naturalmente agiscono al suo interno.
RG: Mi interessa anche capire meglio, in questa ottica, l’utilizzo del video.
MZ: Il video costituisce una dilatazione linguistica rispetto all’immagine fotografica che detiene un diverso valore temporale. Se nella sequenza fotografica si ha una visone di totalità narrativa, in cui ogni minima variante è colta e compresa in uno sguardo unificante sempre presente, nel video il movimento e il suono, la materia del flusso vitale, conferiscono alla percezione una successione lineare che induce a memorizzare i passaggi non più presenti. Al contempo però il video permette, per quanto riguarda il mio lavoro, uno spazio vivente più magico e più coinvolgente: è lo spazio video, con il suo battito cardiaco, un contenuto umano fondante, dove la carnalità dei volti partecipa al divenire dell’esistenza. Il movimento e la ripetizione dei gesti hanno senso nel mio lavoro soltanto in virtù di un aumento del processo di trasfigurazione dei corpi, e anche della trasformazione onirica dello spazio. Un valore aggiunto nel tentativo di inglobare l’altro.
RG: Ultimamente hai usato maggiormente il colore. Come se attraverso esso trovassi un più ampio respiro, e anche una maggiore forza espressiva. Qual è la tua idea di pittura?
MZ: Lo spazio è il deposito della progressione del tempo, delle percezioni emotive, dei momenti evocativi. È il “luogo” dell’essenza fisica e psichica. Il colore diviene l’espressione figurativa e rivelatrice degli impulsi e delle esperienze emozionali. È il superamento della materia e della sua corruttibilità. Il colore si fa elemento di sublimazione e assolutezza, fino a diventare un elemento base per una nuova cosmologia. La pittura è una “cosa” indefinita legata ai corpi, alla storia, all’esistenza. Il gesto creativo non è presa sul tragico, ma è presa esclusiva “sul serio”.
RG: Mentre al Pecci di Prato montavamo i tuoi oggetti in legno sulle due pareti, mi hai detto che non sapevi bene dire cosa fossero. Ripensandoci, mi ricordano quei segni infantili e antichi, che se li fai sul blu diventano uccelli, mentre se il fondo è terrestre diventano cespugli o rilievi. Ma possono anche essere come un’astrazione ritmica nello spazio.
MZ: Sono corpi simbolici, stereotipi che non rimandano a entità figurative. Questi elementi plastici e talvolta tattili hanno una valenza archetipica, con richiami al cielo, al sole, alla terra e al corpo. Essi proiettano infiniti significati, dischiudono l’immaginazione in una continua visione onirico-cosmologica. Nello spazio espositivo questi elementi lignei vengono ripetutamente relazionati con i volti che appaiono e scompaiono dietro l’apertura e la chiusura delle mani. Sia gli uni (le sculture) che gli altri (i volti) ripetono gli stessi movimenti, offrendo alla fruizione una visione unitaria e in sintonia, pur sempre “idealmente” cosmica.
RG: Spesso nelle tue riflessioni, e negli scritti che le hanno fissate, parli di libertà e verità in relazione all’arte. Naturalmente è semplice comprendere il senso superficiale di questa associazione. Ma ti vorrei chiedere più profondamente se pensi di averle mai raggiunte, anche solo per un istante.
MZ: In questi ultimi anni ho sempre parlato di corpo ideologico e della sua libertà. Il corpo ideologico in quanto corpo pensante e creativo assume la configurazione di una realtà variabile, divenendo luogo critico e di resistenza alle logiche proprietarie. Il che conduce al carattere costitutivo dell’esistenza, cioè al suo essere progetto, anzi, meglio ancora “auto-progettazione”. L’esistenza diventa auto-progettazione a partire dal fondamento dell’autocritica e dell’analisi dei contesti. La libertà e la verità non rimangono concetti astratti ma realtà da vivere quotidianamente. Vivere la verità significa vivere la verità della speranza e della propria esistenza. “L’arte dell’esistenza” concede di superare tutte le barriere del quotidiano e di entrare in un rapporto immediato e incondizionato con l’essere creativo. Non è ammissibile vivere la verità e la libertà per un istante. Soltanto per volontà lungo tutta la vita.
RG: Il mio testo per il tuo libro edito da Maretti editore inizia con la descrizione di Dissidenza ignota, un’opera del 1973 composta di dieci foto in cui tua madre è seduta di fianco a un tavolo dove su dell’ovatta è poggiata una pistola. In ogni foto ce n’è una che racconta della vita quotidiana di tua madre, tranne nell’ultima in cui la foto nella foto è vuota. Come dico nel testo, questo lavoro mi ha consentito di creare una relazione emotiva, di ritrovare un filo con il tuo lavoro. Vi ho riconosciuto un Sud che mi appartiene. Quel muro, quella porta, la povertà dell’ambiente, la donna vestita di nero, il suo attendere paziente e silenzioso, e anche la pistola, la violenza che contiene e quella che impedisce. Come racconto la cosa mi ha emozionato e mi ha permesso di risalire alle fonti del tuo lavoro, riuscendo a comprenderlo spero più a fondo. Oggi vivi tra Molfetta, Roma e Berlino, ma mi piacerebbe sapere qual è il tuo rapporto con il Sud.
MZ: Nietzsche dice: “Che cosa chiede un filosofo a se stesso innanzitutto? Di superare in se stesso il proprio tempo, di diventare senza tempo”. Mi sono sempre chiesto e continuo a chiedermi di superare in me il recinto del mio territorio d’appartenenza. È il territorio che abita il mio corpo e il mio corpo non ha steccati, è mobile, risiede ovunque. Il mio rapporto con il Sud, e il Mediterraneo in generale, è idealistico. Essendo un viaggiatore sulla via di una costante trasformazione e arricchimento spirituale, “il mio Sud” vive idealmente mondi diversificati, dato che il mio corpo crea mondi estranei e magici a misura.
RG: A proposito del Sud e delle sue materie, il pane è una presenza costante nel tuo lavoro, ma anche la terra e l’ovatta. Puoi raccontarmi cosa hanno rappresentato per te nel corso degli anni questi elementi?
MZ: Il pane è l’archetipo dell’alimentazione e rappresenta la conquista primaria dell’esistenza, soprattutto per un artista nato e cresciuto nella povertà e nell’essenzialità. Nel percorso del mio lavoro, invaso da vocazione di riscatto e redenzione, l’elemento del pane passa da valore di alimento a valore espressivo. Visivamente ho presentato piatti vuoti e pareti domestiche, muniti di elementi archetipici e molliche di pane. La terra nell’opera fotografica appare come un campo di coltivazione e di germinazione di piante ludico-astratte fatte di pane. Inoltre nell’iterazione del quotidiano l’ovatta viene utilizzata per rappresentare l’orizzonte del cielo e della nuvola, la leggerezza e la levitazione, ma anche come personale sollievo e rimedio contro le ferite del lavoro.