È veramente ancora Milano la capitale dell’arte moderna e contemporanea? Oppure solo un agglomerato di ottime gallerie private sostenute da un collezionismo illuminato, informato e intelligente? Cosa manca a Milano per diventare una vera capitale dell’arte di oggi, alla stregua di Londra, Berlino, Parigi, Madrid? Come mai le nostre istituzioni sono così carenti e latitanti? Come mai “la cosa pubblica” a Milano, ma anche in tutta Italia, è in mano a persone disinformate e spesso incapaci? È Milano ancora, dopo l’era di Maurizio Cattelan e Vanessa Beecroft, un luogo privilegiato per i giovani artisti italiani? È Milano solo una piazza di mercato dell’arte o anche luogo di elaborazione culturale? A questi e altri interrogativi cerca di rispondere la nostra inchiesta, interpellando alcuni dei protagonisti della vita culturale milanese di oggi. Abbiamo volutamente scelto persone un po’ speciali, con una particolare vocazione alla contemporaneità e all’attualità dell’arte di oggi, persone (galleristi, critici, collezionisti, artisti) che hanno vissuto o vivono il black out di una città come Milano e di cui si chiedono le ragioni. Dalla nostra indagine abbiamo volutamente escluso i rappresentanti delle istituzioni pubbliche (l’Assessore alla Cultura Vittorio Sgarbi e il suo team di collaboratori, il sindaco Letizia Moratti, il Presidente della Triennale, il PAC, la Fabbrica del Vapore, ecc.) in quanto da noi ritenuti interlocutori non affidabili, né culturalmente all’altezza delle nostre esigenze. Per questo abbiamo optato per gli operatori privati, da sempre a Milano considerati i più attenti, sensibili, affidabili e da cui sempre la città ha tratto lustro e vitalità. Giancarlo Politi
Carlo Antonelli
Direttore di Rolling Stone
D: Carlo, tu come direttore di una rivista di musica ma anche molto attento ai trend culturali, come giudichi l’attuale situazione artistico-culturale di Milano?
CA: È banale, sconfortante e persino imbarazzante ribadirlo, ma è la verità, e fa male abitandoci: la città versa nelle peggiori condizioni immaginabili. È un movimento complesso, tragico, in corso da almeno una trentina d’anni e culminato in modo terminale negli ultimi dieci, al punto che si ritrova spesso a fare persino confronti con la gloriosa situazione dei primi anni Novanta, scintillante in confronto a oggi. L’erosione di qualunque anticorpo di cultura popolare, la sistematica decimazione del gratuito e del low cost, l’immobiliarizzazione scientifica di qualunque porzione libera e naturalmente, soprattutto, dieci anni di inesistente politica culturale hanno prodotto una frittata difficile da digerire. Poche le realtà vitali: qualche fondazione privata, qualche galleria, teatri piccoli, club rari, bar microscopici, sporadici episodi giovanili spontanei, ma nessun segno di un sistema o di una parvenza di distretto creativo.
Complessivamente si vive in un gigantesco specchio deformante, dove gli sparuti episodi culturali risultano magnificati fino all’inimmaginabile. Sgonfiata quest’enorme macchina di produzione d’aria profumata (portatrice di ricca economia per happy few, inutile dirlo), sul territorio reale rimangono briciole, coriandoli nel migliore dei casi, bucce vuote.
D: Come posizioni Milano rispetto a Berlino, Londra, Madrid, Barcellona, ecc.?
CA: Oltre la zona retrocessione. È un confronto privo di significato. Si tratta di campionati differenti. Di leagues differenti. E senza dubbio Milano non è nella “champions”, questo è certo. L’incredibile errore compiuto dalle amministrazioni pubbliche negli ultimi 15 anni, dettato dalla profonda ignoranza, ha escluso la città dalla competizione culturale e quindi economica. Il margine è ora difficile da recuperare. Inutile dire che in questo persino Roma, Torino, Genova e alcune realtà di provincia hanno guadagnato punti, capendo l’equazione assoluta nel contemporaneo tra i due elementi: cultura uguale economia, appunto. La stupidità più arida qui ha prevalso, autofottendosi. E la corsa ai ripari con i progettoni di designer delle grandi firme architettoniche buttate qua e là, spesso per pura iniziativa privata, non colmerà il divario. Certo cambierà in parte il paesaggio, almeno quello, altrimenti congelato, arteriosclerotico da anni.
D: Secondo te, Letizia Moratti e l’Assessore Sgarbi stanno contribuendo a rilanciare l’immagine culturale di Milano?
CA: Non proprio, non ancora, non abbastanza, non esattamente. Stanno parlando alla macchina di soffiamento, non certo al territorio.
D: E tu, cosa faresti al posto di Sgarbi?
CA: Avendo a che fare col nulla, con la landa piatta del deserto, compirei gesti estremi. L’intervento sulla città non può essere omeopatico. È una operazione da E.R., un elettroshock. Richiede l’iniezione indotta di vita pura, nel centro della città e dei quartieri. Richiede una soda massiccia di gioia, anche grezza, di colore e di divertimento intelligente allo stato brado. Quasi oltre il pensiero, oltre le categorie, oltre il buon senso.
Paolo Zani
Gallerista
D: Cosa manca a Milano perché possa essere considerata una capitale dell’arte internazionale?
PZ: Il vero problema è la selezione delle persone: bisognerebbe puntare su individui che possano contribuire a questo progetto in modo organico ed efficace. L’immobilismo cui le proposte artistiche sono soggette è determinato, ancora una volta, dalla mancanza dei nostri politici che, nella mediocrità attuale, difendono, senza imbarazzi, le loro piccole necessità di condominio. Queste persone non vanno all’estero, non cercano di cogliere ciò che sta accadendo, in maniera anche entusiasmante, fuori dal nostro Paese. In molti casi non c’è corrispondenza tra il potere di gestione e promozione dell’arte e competenza. Per attirare l’attenzione internazionale sulla nostra città è necessario, innanzitutto, avere un programma di proposte particolarmente attuale, fresco e dinamico. I nomi di artisti famosi, accostati senza validi criteri e presentati in luoghi istituzionali possono forse essere seducenti per un pubblico di terzo livello, ma non certamente per gli addetti ai lavori e per un pubblico più attento, quello che è pronto, per passione e competenza, a muoversi e seguire i flussi che collegano diverse realtà geografiche. Al momento, purtroppo, Milano è alla periferia di questo network. Il supporto da parte di privati che sostengono con costanza questo tipo di eventi è una peculiare caratteristica della nostra città che però rende evidente la distanza con la parte pubblica, della quale, per inciso, non si può fare a meno. Si parla del museo da fare, della fiera che non decolla, di altre mancanze basilari. Prima però è necessario dare fiducia a persone che vogliano rischiare in prima persona, gente che da una parte abbia la forza, la lungimiranza di credere che il cambio generazionale sia una necessità del nostro sistema, non solo milanese e non solo dell’arte.
D: I giovani artisti a Milano. Tu che giri veramente il mondo, visiti studi e frequenti giovanissime gallerie propositive, come giudichi la produzione artistica giovanile a Milano?
PZ: Torino è importante per quel che riguarda la proposta istituzionale, Milano per la presenza di artisti. Ultimamente si sente parlare di queste peculiari caratteristiche in relazione ai due centri più interessanti per quel che riguarda l’arte contemporanea in Italia. Sottolineando la straordinarietà di altre situazioni esistenti a Napoli, Roma e Palermo, confermo che nella nostra città si continua a lavorare in questo senso. Effettivamente Milano ha continuato negli anni a rappresentare un luogo di preferenza per gli artisti. Però non basta avere talento, come tu hai sempre detto: è anche fondamentale la capacità stessa dell’artista di promuovere il proprio lavoro fuori dall’Italia. Questo fa davvero la differenza: gli artisti più dinamici hanno maggiori possibilità di promuovere il loro lavoro a un livello più ampio. Questa è una caratteristica difficile da trovare nei giovani artisti italiani e Milano non fa eccezione. In questo momento colgo una significativa attenzione da parte del “sistema anglosassone dell’arte” su quello che sta accadendo nel sud d’Europa, nell’area mediterranea, in Italia. Varrebbe la pena sostenere con forza questo tipo di interesse, difendendo e sviluppando sinergie che stanno nascendo, come i giovani curatori europei — provenienti da questi Paesi — che ricoprono ruoli significativi a Berlino, Londra e New York.
D: Milano, città difficile ma anche generosa. Tu saresti sopravvissuto a Torino, Bologna o Roma?
PZ: Credo di sì, dal momento che il lavoro del gallerista deve essere fatto di movimento e non di attesa (anche se il problema della sopravvivenza è qualcosa di molto interessante in generale e tuttora mi appartiene con forza). Il numero dei collezionisti italiani, quelli bravi, non è alto, e attraverso luoghi di aggregazione, come le fiere, è possibile lavorare in modo significativo anche fuori delle grandi città. In questo senso l’esperienza di via Ventura ha certamente dato, alla mia vicenda personale, una speciale valenza nata dal fatto di avere sperimentato questa forma di collaborazione tra diverse realtà confluite in un luogo unico. Confermando che la strada delle sinergie e delle necessarie rinunce per un fine comune possa dare risultati interessanti. Risultati che non si possono negare neppure in relazione all’associazione Start, a cui va dato il merito di aver dato ufficialità sempre più internazionale all’inaugurazione della stagione delle gallerie milanesi.
D: Cosa vorresti avere e cosa vorresti eliminare, per quanto riguarda il circuito dell’arte, qui a Milano?
PZ: A Milano esistono alcuni elementi per tentare di richiamare pubblico e attenzione. Certamente eventi, anche estemporanei, utili. Penso per esempio al week end per collezionisti organizzato tre volte all’anno a Berlino, dove un numero impressionante di curatori e collezionisti passano freneticamente da una galleria all’altra. Vorrei in generale continuare a coltivare l’entusiasmo, che è in alcune persone, e usarlo contro chi è staticamente così deleterio.
Lia Rumma
Gallerista
D: Cara Lia, in un certo qual senso tu sei la vera Gagosian italiana. Grandi artisti, tutti bravissimi e attualissimi, sempre prima a “cooptarli” nella tua galleria appena si affermano con una forte valenza sul mercato internazionale. Cosa pensi dei collezionisti milanesi? Sono abbastanza rapidi nelle decisioni e attenti ai cambiamenti?
LR: In generale la situazione del mercato in Italia è di gran lunga migliorata negli ultimi anni. Certamente se si riuscisse a sviluppare un sistema di strutture pubbliche capaci di interagire efficacemente con il privato e con gli addetti ai lavori, si potrebbero ottenere risultati migliori ed essere più competitivi con i mercati internazionali. Milano è una città di grande potenziale, i suoi collezionisti sono sicuramente attenti ai cambiamenti dei linguaggi dell’arte e aperti a nuove proposte. Tuttavia si avverte la mancanza di un sistema pubblico che sostenga la ricerca e gli scambi con l’estero.
D: Come mai Milano, capitale indiscussa del mercato d’arte, non riesce a esprimere una grande fiera di livello internazionale?
LR: Questa è la domanda che ci poniamo tutti. Penso che una fiera che si pone l’obiettivo di raggiungere risultati positivi e visibilità internazionale non possa prescindere dal contesto culturale in cui essa si trova. A tutt’oggi Milano, che da anni ha lanciato la sua grande sfida sulla moda e il design, non ha ancora lanciato una vera sfida sull’arte contemporanea. Eppure è una città che ha avuto una storia recente molto importante con artisti come Fontana, Manzoni, Castellani, ma oggi sembra essersi arroccata su posizioni di tale prudenza da perdere ogni gusto del rischio e di scommessa sul futuro. Oggi il contesto culturale di Milano è assai contraddittorio: da un lato c’è un lavoro eccellente delle gallerie private che puntano fortemente allo sviluppo dei nuovi linguaggi dell’arte, e dall’altro un sistema istituzionale carente e inadeguato a interagire e a potenziare la ricerca e lo sviluppo di nuovi mercati. La fiera di Basilea, che può essere un esempio a cui tutti noi dovremmo guardare, è il frutto di un contesto culturale ed economico perfettamente integrato ed evoluto al punto tale da renderla un riferimento nel mondo. La fiera di MiArt, a mio parere, ha pensato a strutturarsi come tale con molto ritardo rispetto ad altre iniziative simili e dunque a tutt’oggi con tempi e modalità non adeguate a renderla sufficientemente competitiva con le altre fiere internazionali.
D: Sembra che i collezionisti italiani siano molto attivi e addirittura aggressivi nelle principali fiere internazionali (Art Basel, Frieze, The Armory Show). Ritieni che l’offerta delle gallerie italiane sia insufficiente oppure si tratta semplicemente di manie esotiche?
LR: I collezionisti italiani sono sempre più attenti e veloci. Amano inserirsi nel contesto internazionale e questo mi sembra un fatto positivo e una spinta per le gallerie italiane a essere più competitive. Naturalmente la lingua batte dove il dente duole: continuiamo a perdere terreno e continueremo a farlo se il nostro Paese non crederà abbastanza nel proprio prodotto artistico. Il problema non è da addebitarsi al lavoro delle gallerie italiane, che oggi hanno raggiunto livelli altamente professionali, bensì a quello scollamento tra strutture pubbliche (musei, fondazioni, curatori, ecc.) e addetti ai lavori privati che non aiuta un reale dialogo con l’estero e uno sviluppo adeguato del nostro mercato.
D: Pensi che una città come Milano offra abbastanza a un giovane artista e a una galleria di arte contemporanea?
LR: Finché a Milano non si realizzeranno quelle giuste premesse a uno sviluppo adeguato, sia del contesto culturale che di quello economico, non potrà mai esserci un’autonomia tale da farci pensare di essere abbastanza autosufficienti al pari di altre città quali New York o Londra.
Marco Scotini
Critico d’arte e curatore, Direttore Arti Visive NABA
D: La Milano della Moratti e di Sgarbi. Qual è il tuo giudizio sullo stato dell’arte a Milano?
MS: Pare che per l’attuale classe dirigente italiana non ci sia stata altra scuola di formazione migliore del “Maurizio Costanzo Show” e che questa non abbia incontrato migliore polo direzionale che quello di Milano. Dopo Zecchi e dopo Sgarbi chi ci dovremo ancora aspettare? Ma intanto abbiamo a che fare con uno Sgarbi che dopo una mostra su “urina & sangue” di Serrano promette una grande mostra sulla “merda d’artista”. Uno Sgarbi che mixa Grazia Toderi e Luigi Serafini al PAC in attesa di una mostra di Roberto Innocenti o di chissà chi altro. Uno Sgarbi che sogna un “neo giudizio universale” fatto da graffitisti e che affida un progetto su una ideale Milano neo babilonese a Luigi Settembrini. Non credo si debbano avere matches buonisti con lui, come finora e a più riprese ha fatto Bonami, ma neppure scontri aperti. Finirebbero per rientrare all’interno di un disegno mediatico. Dopotutto Sgarbi deve pur rappresentare qualcuno. Anzi è il paradigma della cultura italiana, non solo di quella nazional-popolare.
D: Cosa rappresenta Milano nel contesto artistico-culturale nazionale?
MS: Milano ha la capacità di generare innovazione grazie al carattere privato e autonomo di certe istituzioni: gallerie, riviste, collezionisti, scuole. Invece, non saprei cosa dire del suo ruolo a livello internazionale.
D: Quale ruolo sta svolgendo la NABA in tale contesto?
MS: Vedo la NABA come un mondo autonomo e parallelo in via di definizione; non solo un luogo di formazione ma anche di produzione di arte e cultura. Basta uno sguardo ai nomi dei guest degli ultimi quattro anni e ai suoi progetti artistici relativi a problemi pubblici e realtà sociali per capirne la tangenza con un disegno di ricerca internazionale piuttosto che con la realtà locale.
Mariano Pichler
Collezionista
D: Con Lambretto ma soprattutto con via Ventura hai cercato di creare un polo artistico culturale di qualità a Milano, una lontana parente di Chelsea a New York. Come giudichi i risultati ottenuti?
MP: I risultati ottenuti sono sintetizzati nel sondaggio da te condotto sulle migliori gallerie italiane secondo i giovani artisti (Flash Art n. 262), dove nelle prime sette posizioni ben tre gallerie si trovano in via Ventura. Dunque un risultato positivo dovuto soprattutto alla qualità e alle proposte delle gallerie. Inoltre, nell’area si insedieranno altre gallerie, un negozio di design sperimentale e finalmente un caffè-ristorante.
D: So che hai individuato un nuovo affascinante spazio in via Farini, quasi davanti alla redazione di Flash Art, dove si sposteranno delle gallerie e dove alcuni artisti (Caravaggio, Roccasalva) avranno il loro studio e la loro abitazione. Via Farini 57 (questo è l’indirizzo del nuovo spazio) vuole diventare una seconda via Ventura?
MP: Il recupero di via Farini 57, sede della ex Fabbrica Presbitero di penne e matite, è gia di per sé inserita in un contesto di sinergie arte-cultura. Da tempo la redazione di Flash Art e l’associazione culturale Viafarini costituiscono insieme ad alcune gallerie insediate in zona una realtà importante e riconosciuta. Via Farini 57 e via Valtellina 32 diventeranno sicuramente un’altro tassello di questo nuovo “Polo Nord”.
Gianluca Winkler
Direttore Generale dell’Hangar Bicocca
D: L’Hangar Bicocca è uno dei rarissimi spazi cittadini con una programmazione di qualità e di attualità. Chi decide la programmazione dello spazio e con quale cadenza?
GW: Per il momento le scelte espositive dell’Hangar Bicocca sono state espresse da un gruppo di professionisti che comprende oltre al sottoscritto, anche Adelina von Fürstenberg, Martin Caiger Smith (curatore presso l’Hayward Gallery) e Federica Schiavo. Le scelte espositive, oltre alla qualità e attualità, rispondono anche al criterio della sensazionalità proprio per promuovere lo spazio presso i vari pubblici.
D: Dopo le inaugurazioni con un bagno di folla, anche di qualità, l’Hangar Bicocca, come la maggior parte degli spazi espositivi milanesi (vedi il PAC), vede diminuire vorticosamente il numero dei visitatori. Come lo spiega?
GW: Non abbiamo investito quanto di solito si investe in comunicazione. Dopo i “bagni di folla” delle inaugurazioni, in genere abbiamo una media di 150 visitatori al giorno e circa 300 per ognuno dei giorni del week end. Credo, inoltre, che l’Hangar soffra un poco del particolare provincialismo snobistico dei milanesi, per i quali Bicocca — a meno di 20 minuti dal centro cittadino — sembra più lontana di Lugano.
D: In ogni caso, l’Hangar Bicocca è ormai un po’ la nostra Kunsthalle, che noi milanesi amiamo e appreziamo. Quali sono i programmi, i progetti e le prospettive per il futuro?
GW: Il primo passo è la costituzione della Fondazione Hangar Bicocca. A seguire avverranno la costituzione del Comitato Scientifico (8 membri, metà italiani e metà stranieri), l’appointment del direttore artistico (che non sarà un curatore) e l’implementazione del progetto “Education” (in due mesi ci hanno risposto 1630 scuole di tutto il territorio italiano!). La decisione di non avere per il momento un curatore fisso è un modo per rompere le righe con quanto visto fino ad oggi. Ad esempio la prossima mostra — il progetto “Emergenze” che vedrà coinvolti diversi artisti che usciranno dallo spazio espositivo (Jenny Holzer sui muri della città, Kentridge sulle pagine de Il Sole 24ore della domenica) — è curata da Bartolomeo Pietromarchi. Per ora siamo impegnati con i lavori di ristrutturazione dello spazio, ma riapriremo la parte “alta”, dove ci sono le torri di Kiefer, a gennaio 2008 con una grande mostra di Kosuth. A ottobre abbiamo invece in programma una retrospettiva sull’arte indiana, in collaborazione con la Provincia di Milano. Siamo tra le pochissime istituzioni che invece di comprare mostre all’estero le produciamo e le esportiamo.
D: L’Hangar Bicocca è uno spazio esclusivamente privato oppure al suo funzionamento (e finanziamento) partecipano anche le istituzioni pubbliche? E gli sponsor privati chi sono?
GW: L’Hangar sarà gestito da una fondazione di diritto privato, con fondi provenienti da aziende private. Il pubblico non partecipa economicamente, ma da subito abbiamo cercato di avere ottimi rapporti con il Comune, la Provincia e la Regione. Per ora abbiamo lavorato con diverse aziende sponsor, i cui loghi sono apparsi su tutta la comunicazione delle varie mostre. La Pirelli Re è una delle aziende che dall’inizio ha creduto e sostenuto il progetto.
Claudio Guenzani
Gallerista
D: Arte e sistema dell’arte: secondo te, c’è abbastanza offerta, dal punto di vista privato e istituzionale, per un appassionato di arte contemporanea qui a Milano?
CG: È evidente che non esiste praticamente alcuna forma di “offerta istituzionale” per un appassionato di arte contemporanea a Milano. Forse per un appassionato di cultura in generale. Questo è il primo “mistero” milanese. Dopo anni di frequentazione del sistema dell’arte milanese, confesso che non ho ancora capito, non riesco a capacitarmene. Forse ormai la dimensione fisica di Milano, un “grande villaggio” rispetto alle metropoli mondiali, è un primo grande freno. A noi è sempre piaciuto immaginare Milano come una metropoli europea, ma non è così. Inoltre, nella storia del provincialismo italiano (nel senso di “guerra” fra localismi) Milano è stata portatrice di interessi, economici soprattutto, ma non culturali. Ad altre città italiane spetta eventualmente un primato o almeno un interesse privilegiato riguardo la cultura, sicuramente non a Milano.
D: Secondo te, la città offre abbastanza opportunità al giovane artista di oggi?
CG: Non esiste più una netta distinzione tra pubblico e privato. La presenza di così tanti soggetti privati e pubblici nel mondo fa sì che le opportunità più grandi per gli artisti si misurino in base alla presenza di molteplici iniziative private e pubbliche di tipo diversissimo. Tutte le grandi città europee hanno istituzioni e fondazioni che si occupano esclusivamente di assegnare case/studi ad artisti che lo richiedono e decidono di trasferirsi lì per un determinato periodo. Ciò significa che queste città investono sulla presenza di giovani artisti che possono produrre dibattito e innovazione culturale. Questo è un esempio semplice che mostra però chiaramente un atteggiamento: come possiamo pretendere l’arrivo di “immigrati” della cultura se non gli offriamo niente?
D: I collezionisti italiani sono tra i più presenti e aggressivi sul mercato internazionale (a Frieze sono secondi solo agli americani, a Art Basel uguale). Le gallerie italiane e milanesi non offrono abbastanza?
CG: È vero: i collezionisti italiani sono numerosi e particolarmente attenti. Esistono in Italia sia una radicata e grandissima tradizione al collezionismo sia, evidentemente, abbastanza soldi per coltivare questa passione. Questo ha fatto sopravvivere fino ad ora il sistema dell’arte in Italia, ma mancano sia le istituzioni che un giorno potrebbero “ricevere” alcune collezioni private attraverso le donazioni, sia una “cultura generale della gestione e promozione del patrimonio culturale” italiani. Niente istituzioni e niente scuole qualificate significa niente personale preparato e niente dibattito serio intorno a questi problemi. Il rischio vero è che grandi opere e grandi collezioni abbandonino appena possibile l’Italia. Sono per il libero mercato e non voglio inutili barriere protezionistiche: mi piacerebbe una situazione almeno “di parità” con il resto del mondo per il nostro sistema dell’arte. Altrimenti diventeremo come l’Egitto: un grande Paese dove la gente viaggerà per rimpiangere e visitare le sole glorie di un pur grande passato remoto.
D: Ti sei dimesso dal Consiglio direttivo di MiArt, come mai? E perché, secondo te, Milano non riesce a organizzare una fiera d’arte all’altezza delle sue ambizioni?
CG: Questo è il secondo “mistero”: perché non si riesce a fare a Milano una fiera d’arte dignitosa? La mia esperienza personale a MiArt mi ha insegnato che di nuovo non si può produrre niente di positivo senza un progetto illuminato. MiArt è nato come un progetto commerciale, voluto da un ente commerciale per produrre guadagni economici, da subito. Mi risulta che molte fiere d’arte nel mondo hanno investito generosamente per molti anni prima di produrre utili. Milano è stata di nuovo incapace di immaginare un progetto di più lungo respiro, più innovativo, magari più lento e costoso. Di nuovo la logica del guadagno immediato a tutti i costi non riesce a produrre a Milano, in campo culturale, nulla di positivo.
Barbara Casavecchia
Critica d’arte, curatrice e giornalista
D: Come giudichi il ruolo di Milano nell’arte contemporanea italiana e internazionale?
BC: Periferico. È sempre la stessa solfa: ci sono ottime gallerie, fondazioni, collezioni, riviste, scuole, associazioni, spazi non profit, free press, tutti privati, ma non c’è una visibilità pubblica dell’arte contemporanea che ne accrediti il ruolo di propulsore culturale ed economico. Il tormentone del museo latitante non tramonta, anzi, ogni amministrazione regala nuove gag. Il PAC è tornato allo sbando, la Triennale preferisce i blockbuster, forse, dopo secoli d’agonia, la Fabbrica del Vapore aprirà a fine anno. Non c’è coordinamento, strategia, investimenti pubblici. Eppure a Torino, Bologna, Venezia, Roma e a Napoli ci riescono. O almeno ci credono.
D: Secondo te, i programmi e i progetti del sindaco Moratti e dell’Assessore Sgarbi corrispondono alle aspettative dei giovani artisti e del sistema dell’arte cittadino?
BC: Quali progetti? Quali programmi? Le conferenze stampa sembrano dei match d’improvvisazione teatrale. L’unico cruccio dell’Assessorato sembra quello di mantenere i riflettori accesi, intrattenendo il gentile pubblico con tante parole.
D: Cosa pensi del panorama giovanile dell’arte a Milano?
BC: Che la forza sia con te.
D: Tu al posto di Sgarbi? Cosa faresti come prima cosa?
BC: Per carità. Mi permetto solo un consiglio: stanziare una somma ragionevole e riunire attorno a un tavolo le diverse realtà competenti del sistema contemporaneo, coinvolgendole in un progetto comune serio. Per esempio un Festival come quello epico del Nouveau Réalisme, o un padiglione temporaneo con programmazione a raffica affidato a un curatore/trice internazionale per evitare inciuci campanilisti. A Milano l’energia c’è ancora: metterla in moto, farne scorrere un po’, sprecarne persino, darebbe la sensazione che i nostri serbatoi non sono tutti in secca.
Massimo De Carlo
Gallerista
D: Come re di via Ventura e come galleria principe nel panorama italiano, come giudichi il programma culturale, privato e istituzionale della città?
MDC: Milano non vive un buon momento, ma non è solo colpa della politica e delle istituzioni culturali, è anche colpa dei milanesi.
D: Secondo te, il panorama artistico di Milano può essere paragonato a quello di Berlino, Londra, Barcellona, Madrid?
MDC: Credo che Londra, Berlino e Madrid non siano esempi calzanti perché sono realtà urbanistiche completamente diverse e quindi non paragonabili.
D: E come giudichi il panorama artistico giovanile milanese rispetto a quello internazionale?
MDC: È interessante. Non dimentichiamo che comunque da Milano sono partiti Maurizio Cattelan e Vanessa Beecroft. E- molto tempo prima Rudolf Stingel. Se uno è sveglio capisce subito che Milano è un ottimo punto di partenza.
D: Se tu fossi al posto di Vittorio Sgarbi e di Letizia Moratti?
MDC: Cercherei di valorizzare meglio le istituzioni che già ci sono e darei a ciascuno di questi luoghi una missione forte da adempiere attraverso la nomina di curatori molto bravi e motivati, se possibile italiani.
Gianni Caravaggio
Artista
D: Milano e l’arte contemporanea. Secondo te, Milano oggi offre abbastanza a un giovane artista e al pubblico appassionato di arte contemporanea?
GC: Come molti sanno a Milano manca un museo di arte moderna e contemporanea di livello europeo. Fino a quindici anni fa c’era almeno il CIMAC (Civico Museo d’Arte Contemporanea), ma oggi quel collezionismo di arte moderna che va dal Futurismo a Fontana è frammentato e in parte occultato. L’istituzione di un museo sarebbe importante soprattutto dal punto di vista pedagogico. Sono cresciuto vicino a Stoccarda e da adolescente potevo usufruire della Staatsgalerie che possiede un’ottima collezione, dal Rinascimento ai giorni nostri. Detto questo, penso che un artista debba scegliere una città per volerci vivere e poterci lavorare bene e non per motivi strategici perché alla fine è il lavoro a essere la migliore “strategia”.
D: Ritieni che il collezionismo milanese sia attento e aperto nei confronti delle nuove proposte?
GC: Per me il collezionista che rappresenta per eccellenza tale caratteristica è Paolo Consolandi. Ha una curiosità inesauribile, è presente a quasi ogni inaugurazione milanese e sostiene l’arte contemporanea — l’arte dei giovani artisti — facendosene una causa non solo culturale ma morale. Lui dovrebbe essere un esempio per ogni giovane collezionista. Poi c’è ACACIA, presieduta da Gemma Testa, il cui intento è di sostenere l’arte giovane.
D: Ti piacerebbe vivere in un’altra capitale dell’arte? Quale?
GC: Potrei immaginare di vivere a Berlino, per un’affinità culturale e per una parte della mia storia personale, e a Parigi perché è una città bella ed interessante. Ma per ora preferisco l’Italia.
Patrick Tuttofuoco
Artista
D: Come artista attivo in Italia e all’estero, come giudichi la realtà artistica-culturale di Milano?
PT: Non è certo il momento più felice per Milano e tanto meno per l’Italia. Milano è sempre ostile con chi la vive, ti chiede tantissimo e ti dà molto poco. Con questo non voglio mettermi a ripetere il solito tormentone tutto italiano sulla precarietà e poca rilevanza del nostro Paese in un contesto internazionale, anche perché esistono molte realtà produttive, a Milano e non solo, e molte persone che lavorano seriamente tenendo aperto il più possibile il dibattito e la ricerca. Detto ciò, penso che molto lavoro in questa città sia fatto dalle ottime gallerie che sono attivissime e dalle fondazioni che riescono a traghettare energie economiche in progetti culturali.
Patrizia Brusarosco
Direttrice di Viafarini
D: Patrizia, tu dirigi uno spazio (Viafarini) dedicato ai giovani artisti. Come giudichi la politica culturale della città?
PB: La giudico timida. Viafarini, essendo uno spazio non profit con attività di documentazione e di servizio per l’arte, gode del sostegno delle istituzioni pubbliche, collabora con il Comune di Milano e ora anche con la Provincia. Il sostegno delle istituzioni esiste, ma la politica di interventi adottata dovrebbe essere più incisiva come accade in altre città italiane e straniere. Sono convinta che Milano potrebbe e dovrebbe fare molto di più.
D: Pensi che Milano oggi esprima adeguatamente l’arte contemporanea italiana e internazionale? Il programma espositivo nelle gallerie private è all’altezza di quello delle principali città europee?
PB: Lo sforzo delle gallerie e delle fondazioni dà risultati apprezzabili, ma non confronterei Milano con le altre città europee. Nel suo piccolo ognuno cerca di dare il meglio, consapevole del fatto che in Italia lo sforzo è maggiore e che realizzare i propri progetti è più difficile. Per fare un esempio di come viene percepita all’estero la situazione italiana posso dire che Viafarini ha recentemente ricevuto un premio dall’American Center Foundation, dedicato alla promozione dell’arte contemporanea. È molto interessante che di recente gallerie private, così come collezionisti e fondazioni operino finalmente in rete per rafforzare il sistema dell’arte contemporanea a Milano e in Italia.
D: Tu al posto di Sgarbi. Quale sarebbe il primo provvedimento? E il secondo?
PB: Eleggerei un direttore artistico per il PAC scelto fra i curatori italiani in base alla qualità del curriculum, stabilirei dei fondi per il sostegno di iniziative private d’eccellenza, per le organizzazioni non profit, per i progetti dei giovani artisti. Organizzerei dei bandi per borse di studio o residenza all’estero, cosicché i giovani artisti possano viaggiare e confrontarsi con la diversa realtà culturale straniera.
Paolo Curti e Annamaria Gambuzzi
Galleristi
D: Cosa offre oggi, secondo voi, Milano a un appassionato di arte contemporanea? L’offerta tra pubblico e privato è sufficiente?
PC/AG: La mancanza di un museo d’arte contemporanea è un tema già dibattuto a lungo, ma ritengo che le gallerie milanesi propongano programmi di respiro internazionale e offrano un ampio ventaglio di proposte culturali al pubblico.
D: Voi siete profondi conoscitori del mercato, non solo dell’arte ultimissima. Come mai i collezionisti italiani (milanesi) “pesanti” sono tra i più attivi sui mercati internazionali? A Frieze i collezionisti italiani sono secondi solo agli americani. Le gallerie private milanesi (italiane) non offrono abbastanza?
PC/AG: Le gallerie milanesi offrono molto, ma la curiosità di un collezionismo attento non conosce confini. D’altra parte molti collezionisti stranieri comprano nelle gallerie milanesi/italiane.
D: Milano capitale dell’arte contemporanea. Perché non è mai riuscita a esprimere un museo di arte contemporanea e una fiera d’arte adeguata?
PC/AG: Per quanto riguarda la fiera, paradossalmente perché le gallerie private sono forti; per quanto riguarda il museo, perché nessun amministratore a Milano ha mai nutrito un vero interesse per l’argomento.
Pietro Roccasalva
Artista
D: Come giovane artista emergente, cosa pensi della politica culturale della città di Milano?
PR: L’attenzione che la città dedica all’arte è molto inferiore rispetto a quella rivolta ad altri ambiti della cultura. Basti pensare che non esiste un vero museo d’arte contemporanea come a Torino — una città dove la sensibilità e l’attenzione per l’arte contemporanea sono forti e tra le più prestigiose (Castello di Rivoli, Sandretto Re Rebaudengo) del Paese.
D: Ritieni che Milano offra abbastanza opportunità a un giovane artista oggi?
PR: Qualche opportunità rispetto al resto d’Italia la offre sicuramente. Quello che invece manca è l’impegno e il sostegno delle istituzioni pubbliche, un problema che riguarda un po’ tutto il Paese.
D: Pensi che la mancanza di spazi istituzionali forti (un museo o spazi pubblici all’altezza dei migliori in Europa) sia limitativo per un giovane artista oggi?
PR: Sì, è senz’altro limitativo.
D: E l’offerta delle gallerie private è all’altezza della città?
PR: A Milano c’è un buon circuito di gallerie, il migliore d’Italia per quantità e qualità. Quello che credo sia insufficiente è il numero di gallerie giovani, in grado di sperimentare e investire su artisti esordienti. D’altra parte mi rendo conto degli sforzi che richiede intraprendere un’iniziativa del genere: Milano è una città molto dura e le difficoltà che incontra un giovane artista sono sicuramente le stesse che può dover affrontare un giovane gallerista.
MOUSSE Magazine
Alessio Ascari ed Edoardo Bonaspetti
D: Complimenti. In poco tempo siete diventata l’unica free press possibile, anzi attendibile in Italia. Come avete fatto a inserirvi così velocemente in un tessuto connettivo difficile e arduo come quello dell’arte contemporanea?
MM: Mousse è la rivista che avremmo sempre voluto leggere, e siccome non arrivava abbiamo deciso di farcela da soli. Forse è proprio l’intraprendenza a essere stata premiata. Il pubblico dell’arte è stato ricettivo e fin dal primo numero il feedback è stato ampiamente superiore alle nostre aspettative. Siamo ancora gli ultimi arrivati, e paradossalmente vorremmo continuare a esserlo per tutta la vita perché è la condizione più libera e adrenalinica che ci sia. Per quanto riguarda Milano, è stato abbastanza naturale partire da qui: è la nostra città e la conosciamo bene, è una città storicamente all’avanguardia, attenta alle tendenze e alle novità.
D: La vostra presenza oltre che a Milano, in quali altre città italiane è avvertibile?
MM: A partire dal numero di aprile, Torino, Bologna, Roma e Napoli saranno un po’ invase, come abbiamo fatto con Milano. E speriamo che l’accoglienza sia altrettanto calorosa.
D: Come e con quali criteri procedete alla distribuzione di Mousse?
MM: Uno dei nostri principali obiettivi è intercettare un pubblico misto, trasversale, non necessariamente inserito nel circuito dell’arte contemporanea. Un’immagine fresca e uno spirito meno rigidamente specialistico possono conquistare anche i più scettici e oltre che nelle gallerie, nei musei e nelle fondazioni, Mousse puoi trovarlo un po’ ovunque.
D: Pubblicità molto rarefatta, miratissima e credo, conoscendo le gallerie presenti, a prezzi politici. Come riuscite a finanziarvi?
MM: Crediamo che anche la pubblicità sia un contenuto e che contribuisca a precisare qual è la nostra identità. Secondo noi questa scelta è stata capita e apprezzata, ci sono realtà che credono in Mousse e ci sostengono, e fortunatamente sono sempre di più.
Enzo Cannaviello
Gallerista
D: Caro Enzo, cosa pensi della Milano dell’arte di oggi, della politica culturale di Letizia Moratti e di Vittorio Sgarbi? Milano è, secondo te, una capitale culturale europea (come Berlino, Londra, Parigi, ecc.)?
EC: È troppo presto per giudicare la politica culturale dell’Amministrazione Comunale di Milano, ma credo che si continui a “volare basso”. Per quanto riguarda l’arte contemporanea però, penso che siamo piazzati meglio di Parigi e almeno terzi in Europa dopo Berlino e Londra, se si pensa al grande numero di appassionati che conta questa città.
D: Tu, Enzo Cannaviello, per un semestre Assessore alla Cultura al posto di Sgarbi. Quali sarebbero le iniziative e i provvedimenti più immediati che prenderesti?
EC: Come avvenne per le aiuole cittadine, darei la possibilità a sponsor privati di riempire le mura “vuote” di questa città con mosaici, bassorilievi, pitture murali, ecc. E poi, sempre ricorrendo ai privati — che, in compenso, potrebbero contare su una pubblicità permanente — riempirei di sculture (una ogni 20 metri) il percorso pedonale che va dal Castello a San Babila come un museo all’aperto. Ovviamente tutte queste opere stabili dovrebbero essere scelte da un’apposita e qualificata commissione. Sposterei poi nelle nuove torri in costruzione nel centro direzionale il comando dei Vigili Urbani di piazza Beccaria e l’ufficio elettorale di corso di Porta Romana per collocare, in quei due edifici, due musei d’arte contemporanea.
D: Roma e Torino sono meglio di Milano sul piano della cultura contemporanea? Qual è la tua opinione?
EC: Ma non esiste paragone! Quale città italiana riesce a schierare quaranta gallerie di qualità, tutte legate all’arte contemporanea, come avviene con Start? Ma, a parte le gallerie (che in questa città sono circa 280), il sistema dell’arte qui è molto più completo che a Roma e a Torino, dove però prevalgono le attività pubbliche. E comunque queste attività sono compensate da molte Kunsthalle, che rendono più viva l’atmosfera culturale di Milano e mi riferisco a Trussardi, Prada, Pomodoro, Forma, PAC, Spazio Oberdan, Bicocca, Triennale Bovisa, ecc.
D: Milano offre abbastanza ai giovani artisti di oggi? Di cosa soffrono secondo te gli artisti?
EC: Storicamente Milano ha sempre aiutato gli artisti, soprattutto attraverso i privati: la maggior parte dei giovani artisti riesce a “sopravvivere” soltanto con il suo lavoro, ma purtroppo è difficile venirci ad abitare, perché le case sono le più care in Italia.
D: Come mai Milano, da sempre capitale del collezionismo e del business in arte contemporanea, non riesce a esprimere una fiera d’arte adeguata alle sue ambizioni?
EC: Le risposte a queste domande sono molteplici, ma tutte si possono riassumere con le seguenti domande: hanno mai fatto nulla gli abitanti di questa città per promuovere il turismo? Hanno mai valorizzato e pubblicizzato i loro tesori artistici? La città ha mai pensato di acquisire o accettare le innumerevoli collezioni d’arte che le hanno offerto i suoi abitanti, e che rifiutandole sono finite in altre città?
Federico Luger
Gallerista
D: Milano e l’arte contemporanea. Tu come giovane galleria emergente e ambiziosa, già frequentatore di fiere internazionali, come ti senti a Milano?
FL: Milano è una città ricettiva, di alto livello professionale, con mostre interessanti e con molta competizione. Quello che manca è un museo di arte contemporanea, un centro di riferimento espositivo per la città che funga da trampolino di lancio per i nostri artisti all’estero. Persino Caracas, la mia città di origine, ha vari musei e collezioni pubbliche di alto livello. È impressionante che Milano, una città così ricca, sia così povera sotto questo aspetto.
D: Ritieni che a Milano, rispetto a Miami o Città del Messico, città che tu frequenti, offra maggiori o minori opportunità sul piano del collezionismo?
FL: Per ora non ho notato grandi differenze. Le occasioni migliori in Italia le ho avute più che a Milano in altre città del Nord.
D: Se tu potessi scegliere, dopo Milano, dove vorresti aprire una galleria?
FL: A New York, 25ma strada a Chelsea, con un paio di venditori cinesi nello staff.
Paola Manfrin
Art Director
D: Paola, si dice che Milano sia la capitale dell’arte contemporanea in Italia. Tu che ne dici?
PM: Chi lo dice? Non mi sembra, Torino ci supera di gran lunga, ha un museo d’arte contemporanea (Castello di Rivoli) e la collaborazione tra pubblico e privato è ottima (Fondazione Sandretto).
D: Cosa pensi della programmazione pubblica offerta dalla città in genere e specialmente dall’Assessorato di Vittorio Sgarbi? Rappresenta Milano?
PM: Sgarbi è bravo sul moderno (Lempicka, Boccioni), ma Milano dovrebbe essere rappresentata dal contemporaneo e in questo non è puntuale. Con Serrano e adesso con i graffiti al PAC siamo decisamente in ritardo con la scena internazionale. Comunque, ci sta provando.
D: Ritieni che l’offerta delle gallerie private milanesi sia superiore a quelle torinesi e di altre città italiane? È soddisfacente per le richieste della città?
PM: Sì. Abbiamo le gallerie migliori d’Italia, mentre a Torino le gallerie sono troppo giovani. E, per le richieste della città, c’è una programmazione sorprendentemente fitta e ci metto dentro anche Bovisa, la Triennale e l’Hangar Bicocca.
D: Tu che lavori a stretto contatto con Maurizio Cattelan (un ruolo determinante in Permanent Food) come ti sembra la nuova scena artistica milanese?
PM: Recentemente ottima, vedi Paola Pivi con la Fondazione Trussardi, un evento a livello internazionale riportato dalla stampa più autorevole del settore e non, cosa che non è avvenuta per altri artisti non italiani.
Riccardo Crespi
Gallerista
D: Sei una delle nuovissime gallerie emergenti e rampanti del panorama milanese. Come ti appare questo panorama rispetto ad altre città che hai frequentato?
RC: Le gallerie di Milano offrono un buon panorama del mondo dell’arte contemporanea ma restano pur sempre delle attività commerciali legate ai vincoli che ne conseguono. Questo accade anche nelle altre città del mondo, anche se il mercato italiano non è ancora paragonabile a quello di altri paesi, in cui il più grande volume di affari consente alle gallerie investimenti molto maggiori. Inoltre, l’alto costo degli affitti degli spazi e della gestione in genere non consente le attività di pura sperimentazione per giovani, come invece succede ad esempio a Berlino.
D: Cosa potresti suggerire alle istituzioni per illuminare questa città un po’ triste?
RC: Le fondazioni, per lo più private, realizzano progetti molto interessanti, ma non possiamo certo paragonarle ai grandi musei presenti nelle capitali europee. Altrove, più che da noi, grandi collezionisti creano da soli raccolte d’arte museali. Non vorrei essere troppo polemico, ma certamente non si può dire che oltre alle attività private si vedano dei grandi sforzi da parte dell’amministrazione pubblica. Vorrei sottolineare che in un Paese turistico come l’Italia, dare più attenzione all’arte non è solo un’idea per utopisti e sognatori, ma esempi come il Guggenheim di Bilbao con l’impatto che ha avuto sul turismo della zona, Montecarlo che si sta muovendo per offrire uno spazio all’arte, e tanti altri casi, convalidano l’idea che possa essere una strategia vincente. Per migliorare si dovrebbe costruire il tanto discusso museo d’arte contemporanea. In questa edizione del MiArt l’Assessore Sgarbi ha promesso che comprerà dei lavori. È già qualcosa.
D: Pensi che il gruppo di gallerie milanesi più attive riesca a offrire un panorama abbastanza attendibile dell’arte contemporanea oggi?
RC: Complessivamente le gallerie di Milano credo offrano un buon panorama del mondo dell’arte contemporanea. Il sistema dell’arte italiano ha certamente molte lacune, spesso non è in grado di promuovere e proteggere artisti e gallerie, è carente di musei, a volte statico, ma è anche vero che le leggi del grande business anglofono rischiano spesso di compromettere la spontaneità e la profondità della ricerca del lavoro artistico, privilegiando logiche più commerciali. In questo senso, in Italia il sistema mi sembra un po’ più puro.
ALTOFRAGILE
Giulia Mainetti, Lapo Gavioli, Francesco Rovaldi
D: In cosa consiste esattamente il vostro lavoro? Potreste essere considerati una agenzia per l’arte?
A: Altofragile è uno studio di servizi e di consulenze per l’arte contemporanea che si occupa delle principali fasi della storia di un’opera: la produzione, l’organizzazione di eventi e mostre e la creazione e la gestione di archivi informatizzati per collezioni d’arte, gallerie e fondazioni.
D: In una città come Milano c’è abbastanza spazio (e lavoro) per una struttura così nuova e in un certo senso sofisticata?
A: A Milano, visto il numero di gallerie d’arte, di fondazioni e di artisti attivi, il lavoro potenzialmente non manca.
D: Come riuscite a ottenere il lavoro? Siete conosciuti dagli specialisti dell’arte in città?
A: Ci sembra che il nome Altofragile cominci a girare. Sicuramente l’esperienza come assistenti di Massimo De Carlo è stata l’occasione migliore per intessere i primi importanti rapporti con figure che ci hanno dato fiducia quando abbiamo fondato lo studio.
D: Mi pare di aver capito che nelle vostre scelte siete abbastanza selettivi. Se vi chiamasse Sgarbi ad allestire una sua mostra cosa fareste?
A: Ovviamente accetteremmo, ma sarebbe più eccitante se ci chiamasse Damien Hirst! Abbiamo cercato di dare da subito un’identità forte e definita allo studio, in base a quelle che sono le nostre capacità e competenze attuali per cui abbiamo escluso qualsiasi velleità curatoriale o di promozione degli artisti, includendo d’altronde servizi che denotassero una certa flessibilità strutturale, assolutamente necessaria nel nostro ambiente.
D: Come giudicate il panorama artistico culturale della città?
A: Siamo ben consapevoli dei limiti e delle carenze di Milano rispetto alle altre città europee, ma crediamo che quando si tocca il fondo non si possa che risalire, e quindi siamo fiduciosi.