Mimmo Paladino: La prima scultura che avevo in testa era una specie di casa-capanna fatta di elementi scultorei, solo che poi ci sarebbero voluti anni per poterla realizzare.
Giancarlo Politi: Avevi avuto esperienze di scultura precedentemente?
MP: Prima di questa mai, tranne certe primissime cose, oppure certi quadri che potevano avere un che di scultoreo, ma senza l’idea della materia tradizionalmente scultorea, come il bronzo di ora; c’era invece qualcosa che aveva più a che fare con l’ambiente. La mia prima scultura vera è stata questa, il giardino chiuso.
GP: Nel momento in cui sei passato dal quadro alla scultura, qual è stato lo scatto?
MP: Queste cose si concretizzano perché c’è qualcuno che ti spinge materialmente a farle; oltretutto sono delle imprese costose già in partenza. Mazzoli finanziò il progetto, così prese forma; io cominciai ad andare in fonderia e a manipolare questa terra. Questa scultura in particolare comporta anche un problema ingegneristico, ma con le altre ho sempre lavorato come quando lavoro a un disegno, partendo da un punto per arrivare a un altro, cosa che in scultura normalmente non si fa. Allora è come un disegno, perché queste sculture non lavorano con lo spazio intorno ma sempre giocando sui profili: hanno un davanti e un dietro, un lato e una geometria, mentre una scultura farebbe circolare di più l’aria intorno, verte sulle tre dimensioni. E poi anche perché l’idea della scultura è l’idea che probabilmente avevano gli antichi, e per antichi intendo gli etruschi: non fare cioè un oggetto che potesse sfidare delle leggi di proporzioni o che avesse più a che fare con l’arte, ma che avesse a che fare con il senso del magico e del religioso — il che è diverso dal dipingere, perché la pittura ti offre l’idea della finzione, mentre quella cosa ce l’hai davvero davanti, te la costruisci, te la materializzi.
GP: Come hai imparato la scultura?
MP: Come ho imparato a fare la pittura! (ride) Per il bronzo si lavora in realtà la creta, che è molto malleabile; poi quando la scultura viene fusa hai sempre delle sorprese. E allora io la dipingo, che significa in fondo nascondere la materia che è sotto, a parte poi annullarne il sapore, il senso scultoreo: non è per essere più pittore, è un fatto di togliere qualunque possibilità di aggancio alla bella forma e alla bella materia che è quella del bronzo. Invece ci metti sopra questi colori, oppure vai a patinarla con delle tecniche che normalmente non si adoperano.
GP: E i mosaici?
MP: È un po’ come la scultura: si crea una certa parentesi di sorpresa. Non realizzo direttamente il mosaico. La realizzazione diventa un fatto tecnico come la fusione per la scultura in bronzo, e così come intervengo sull’aspetto finale della scultura patinando o graffiando a modo mio, la stessa cosa faccio con il mosaico.
GP: Che differenza c’è tra fare una scultura e fare un quadro?
MP: Anche solo due anni fa non sospettavo di poter affrontare più sculture in un periodo di tempo così breve, probabilmente per delle mie idee sulla scultura, che non ho mai amato, ti dirò. Il fatto invece di poter realizzare delle sculture ti crea una serie di stimoli che probabilmente in pittura si sono assopiti, perché è un territorio già esplorato: le sorprese, pur essendoci ancora, sono lì che dormono. La scultura mi ha permesso anche la rilettura di tante sculture del passato che non avevo mai guardato.
GP: Ma non ti sembra che recentemente il pittore abbia lasciato più spazio allo scultore? Anche nei quadri, voglio dire.
MP: Io lo vedo anche come un ritorno a cose che avevo fatto prima e che sono state viste poco. Quei quadri del ’78-’79 avevano soprattutto materia scultorea, perché giocavano su superfici e oggetti.
GP: Non sei preoccupato dal fatto che questo materiale scultoreo possa dare alle opere più staticità?
MP: In quelle superfici monocrome dove non esistevano rappresentazioni o figurazioni che offrissero delle letture, e soprattutto oggi con la scultura, c’è sempre l’idea dell’inganno. In realtà il disegno è fin troppo trasparente, cioè il mio amore per la trasparenza nel disegno è totalmente leggibile. La trasparenza nella scultura è una trappola, come se volessi affermare che in realtà non esiste corposità intorno alle cose ma soltanto trasparenza. In Schnabel il peso è leggibile, i miei lavori invece sono pesanti ma non hanno peso: qualunque sforzo faccia per fare una cosa evidente, questa ha una trasparenza. Questo per un certo momento è stato un problema per me, perché anche se avessi voluto adoperare il volume, per esempio, nei quadri — parlo proprio anche di un volume dipinto — mi ritrovavo sempre a fare la linea. Perché la mia idea del mondo e dell’arte è quella di trasparenza, di cose che si possono attraversare.
GP: Da una partenza diciamo quasi astratta sei arrivato a un’iconografia estremamente tipica.
MP: Non è del tutto vero, perché se posso indicare un punto di partenza, dopo la fase di lavoro fotografico, è un quadro con immagine. Non ho più ripetuto quel quadro, perché c’erano ancora intorno all’arte gli allarmi di una morale che ci proveniva da un’arte troppo vicina in quel momento, per cui questo influsso mi proibiva di continuare su questa strada; però avevo capito che quel quadro per me rappresentava un punto importante, e il titolo è significativo: Mi ritiro a dipingere un quadro. Poi seguirono lavori che, come tu dici, non avevano iconografia, ma è pur vero che accanto a quei lavori — dico pubblici perché i quadri combattono con l’esterno — sotterraneamente esisteva una serie di disegni che avevano moltissima iconografia, la stessa che ora rientra nella pittura. Probabilmente mi sono liberato da questi fantasmi che mi arrivavano da un’altra arte, questa iconografia scivola nella pittura e da qui nella scultura e di nuovo nel disegno. A questo punto mi sento talmente padrone di questa tastiera da non avere nessuna remora a utilizzare più o meno iconografia.
GP: I tuoi viaggi in Brasile, da tre anni a questa parte, hanno significato qualcosa?
MP: Il Brasile è un territorio a cui ho sempre pensato, perché lì questa idea del magico è molto forte. Forse in Africa è ancora più forte ma secondo me in Brasile c’è 1’Africa e c’è il Cattolicesimo, questo miscuglio ibrido, più magico della magia africana, più spirituale, e allo stesso tempo di grande ebbrezza per la vita. Non ha la tragicità, il senso oscuro dell’Africa, ma questo mescolato alla perversione del Cattolicesimo. Non ha significato per me qualcosa andarci, è stato andarci e pensarci. È stata una conferma delle sensazioni che provavo a distanza ma che mi proiettavano verso altre cose che erano gli angoli del Nord probabilmente. Oltretutto il mio lavoro è sempre stato fatto di contraddizioni, di cose che possono in apparenza contraddire l’arte.
GP: E che cosa ti interessa a proposito di Bisanzio e di…?
MP: Penso alla Russia lontana, alle cattedrali, al pittore di icone. Probabilmente, come nel Cattolicesimo mi interessa il pittore di affreschi, come Giotto, e mi interessa come figura, lì mi interessa il pittore che dipinge l’icona con una tecnica antichissima e così perfettamente progettata che non può essere improvvisata. È come l’africano che fa la stessa maschera da secoli, però questo fare è preceduto da un rituale preciso. E poi alla fine questo oggetto serve per avvicinarti al divino. Il pittore di quadri non fa la stessa cosa? Cioè, il divino oggi cos’è? È questo essere così vicini all’idea dell’enigma dell’arte. È l’enigma che sorregge le sorti di cosa può accadere se metti accanto forme e segni: questo è un fatto di grande mistero, non è controllabile. Mi piace la figura dell’alchimista che può regolare la sorti della materia per provocare un oggetto che agli altri susciterà delle cose, una sorta di magia.
GP: Lavori più giorni su un quadro?
MP: Ci sono lavori che richiedono mesi. In questo momento sto facendo un lavoro di nove metri per quattro, ma non per questo richiede mesi. Mi sono imposto di stare lì con questa enorme tela e tentare di riempirla, con tutta la serenità e tutta la tensione necessarie. Altre cose anche grandi le posso fare in un giorno.
GP: E i quadri piccoli?
MP: A volte richiedono più tempo dei grandi. Perché il quadro piccolo per me rappresenta, come dicevo prima, l’idea dell’icona: un monaco ha bisogno di una vita per dipingere un’icona. Raramente faccio quadri piccoli, ma dedico ad essi tutto l’impegno necessario come se fosse un’enorme opera, perché un quadro piccolo ha la stessa geometria, lo stesso meccanismo di uno grande.
GP: Quando decidi che un quadro è finito?
MP: Picasso diceva che bisogna sempre distruggere quello che si è già fatto. Io ho spesso ricoperto quello che avevo fatto, il che può significare che un quadro non è mai finito. Se decidi che un quadro è finito lo fai probabilmente perché ogni colore è al suo posto e non ci sono screpolature.
GP: Visiti i musei?
MP: No, l’ho sempre trovato noioso. Ho sempre preferito guardare i quadri sui libri. L’immagine fotografica ti illude sulle dimensioni e su altre cose, però ti permette anche di andare oltre quello che poi l’artista ha realmente voluto fare, ed è un’altra faccenda.
GP: Quali sono i tuoi colleghi coetanei in cui riscontri delle affinità o di cui stimi il lavoro?
MP: Ho grandi riserve sulla pittura contemporanea tedesca perché probabilmente sono rimasto legato a quello che ha fatto Beuys. Non posso però non dire, per esempio, che Kiefer sia un pittore che fa delle cose che possono avere un fascino per me; non possono comunque aggiungere nulla al mio lavoro, però è un artista che persegue certi miei stessi fantasmi. Riguardo agli italiani, non conosco nessuno bene perché non ci siamo mai frequentati, tranne con Nicola De Maria perché frequentavamo lo stesso posto d’estate. Con lui c’è stato un momento di crescita insieme e allora posso dire che Nicola è uno che ha sicuramente qualità.
GP: La pittura americana?
MP: Continuano a interessarmi le cose che ricordo di Jasper Johns, o il quasi italiano Cy Twombly.
GP: Hai citato Beuys come una specie di punto fermo. Perché Beuys?
MP: Quando ho visto dei disegni di Beuys ho capito che un artista che disegna in quel modo non può non arrivare a fare degli oggetti, degli ambienti, o anche solo delle parole, in quella maniera… è una carta d’identità troppo precisa il disegno!
GP: I mercanti hanno capito il tuo lavoro meglio dei critici?
MP: Hanno capito che era un lavoro che si adattava a un’esigenza storica, e in questo sono più bravi dei critici. A un certo momento la Storia chiede all’arte delle cose, l’artista ha delle cose che la Storia è adatta a ricevere e il mercante è il tramite che riesce a trasferire dallo studio alla Storia alla gente queste immagini.
GP: Ma tu pensi che un grande mercante possa creare un artista?
MP: Sì, se l’artista possiede un minimo di qualità; il mercante non può creare da una nullità, può creare dieci individui che sono delle nullità. Ecco perché il successo è di situazioni e non di singoli, tant’è vero che la nostra non è e non è mai stata una situazione ma singole personalità, e si è reso necessario renderla come situazione per far sì che avesse un’accoglienza immediata, altrimenti i tempi sarebbero stati più lunghi. Il mondo ha bisogno di situazioni perché non vuole leggere in maniera più difficoltosa e più singola, vuole garanzie.
GP: Pensi che il critico abbia ancora qualche ruolo oggi?
MP: Continua ad avere il ruolo di sempre, indipendente dall’arte o contemporaneo all’arte. Io non credo di dare poi tutta questa forza a questa gente. Il critico è un’appendice, permette di fare delle cose, è colui che procura piacere all’artista perché scrive libri.
GP: Se volessi fare una mostra con artisti…
MP: Potrei immaginare una mostra con delle opere in particolare. Potrei citare quel quadro di Giotto e di Tiziano, e quel quadro di Kiefer e Burri. Ma non mi interessa il nome, quanto piuttosto l’elettricità che si può creare tra quei quadri. Allora potrei solo pensare un’utopica mostra di una mia idea dell’arte, e allora può essere un disegno di Beuys, una scultura di Brancusi.