Dopo l’esperienza dell’acclamato Quijote cinematografico, ambientato nella sua terra, il Sannio, Mimmo Paladino è di scena a Milano con due nutrite mostre, che più o meno direttamente risentono di questa incursione in una sua personalissima Mancha, che dissimula ancora una volta un mai interrotto ritorno alle Madri.
Nella Galleria Cardi la distesa di piccoli dipinti “armati” di fronte a due gradi quadri sulla parete opposta dispiega un mosaico di episodi e illustra le tappe di una storia, come un diario emotivo e un regesto di suggestioni letterarie: piastrellatura narrativa, métissage di spunti romanzeschi e di sedimentazioni mitiche e mnemoniche, piccole tabulae caudate, falcate, rostrate di un armamentario arcaico e paesano, rinforzate di avanzi di fucina.
Se il rischio di questi quadretti polimorfi è quello di essere letti — oltre che come sigla di un certamen cavalleresco e rusticano, dove tutto pare sul punto di accapigliarsi in un intrico di raffi e di artigli — come un ricamo plastico fin troppo studiato e prezioso, alla Galleria Christian Stein riscopriamo il Paladino che più ci piace, quello in grado di sintetizzare gli arabeschi della favola mitica in una dimensione dal respiro epico. Oltre alle due grandi tele che fanno ala all’installazione principale, che anche qui assumono una connotazione elencatoria in cui la consueta iconografia arcaica si articola in modo paratattico, ritroviamo le grandi icone lignee che si ergevano come astanti infuocati nei filmati relativi al Quijote: una volta bruciate alla base e sul retro e transustanziate in una fusione in alluminio, eccole sospese con la fronte appoggiata alla parete in un atto di sparizione frustrata, negata, uomini-anfora, hollow men di tempi immemorabili. La loro interiorità priva di organi messa a nudo, il loro vuoto violato, essi, come cariatidi sprofondate dalla parte sbagliata della parete, o bozzoli infranti alla ricerca di una farfalla-anima involata per sempre, mostrano il loro fasciame interno come antichi relitti, affondati verticalmente. Ci danno le spalle o quel che resta delle loro spalle, divorate dal fuoco, i loro busti si aprono in appendici slabbrate e crettate. Simulacri di simulacri, patinati di un nero fuligginoso, mostrano le loro mutilazioni e carbonizzazioni a testimonianza di una storia di incendi, forse di roghi. Se i due grandi quadri si presentano omologhi a quelli esposti da Cardi, e, fitti come sono di ideografie e pittogrammi, diffrangono la simultaneità iconica dell’imagerie di Paladino nella dimensione diacronica della pagina, le realizzazioni in alluminio brunito si apparentano, qualitativamente ed empaticamente, ai memorabili cavalli di Piazza del Plebiscito a Napoli. E se quelli affondavano o emergevano dalla montagna di sale, congelando nella luce il silenzio che segue a una battaglia, queste, come umbrae silentes vaghe di smaterializzarsi, si affrottano vanamente contro il muro che ostacola la loro scomparsa. C’è come una teatralizzazione dell’atto dello scomparire, eternamente reso presente: una grandiosa messa in scena di un’uscita di scena, immagine ultimativa di simulacri bruciati e fuggitivi che sembrano trasmettere a una terra smarrita la paradossale vergogna degli Dei.