Francesca Mila Nemni: Spesso i tuoi lavori si costituiscono sulla base di associazioni visive, quali aspetti ti interessano di questo processo?
Mirko Smerdel: Quello che più mi interessa è la possibilità di intravedere aspetti nuovi all’interno di iconografie ordinarie, stereotipate, banali e ridondanti. Per esempio, due cartoline che, accostate tra loro, si trasformano in una strana architettura e possono suggerire un approccio utopico verso lo spazio.
FMN: Il tuo intervento sui materiali da cui parti per realizzare i lavori è generalmente minimo. Qual è l’autorialità in cui credi?
MS: I materiali da cui parto rappresentano delle tracce, degli indizi di una possibile storia (privata o collettiva), quello che cerco di fare è conservare questi indizi come se fossero delle prove. In questo senso l’autorialità non appartiene più a chi ha prodotto il materiale (per esempio il fotografo) ma al materiale stesso e al suo significato (la fotografia come soggetto e non come medium). Mi interessa come un intervento anche minimo su un’immagine possa cambiarne completamente il significato.
FMN: L’ambiguità della fotografia va a braccetto con la fiducia delle persone nella sua veridicità. Qual è il tuo utilizzo delle immagini?
MS: Mi piace pensare alle fotografie come a mappe fatte di punti e coordinate, in quanto sia le fotografie che le mappe traducono una realtà, un evento, in uno scenario. Da qualche anno colleziono immagini private di persone anonime (ma anche cartoline, riviste, Super 8, materiali propagandistici o religiosi…), immagini che, attraverso accostamenti visivi e concettuali, si dilatano e prendono forma. In questo senso il processo mi interessa molto di più della forma finale, per questo molti dei miei lavori non hanno una forma finale definitiva ma cambiano via via a seconda del contesto.
FMN: Carlo Ginzburg ha parlato di “rigore elastico” rispetto al paradigma indiziario. Si può dire che quegli elementi — “fiuto, colpo d’occhio, intuizione” — che nel suo discorso sono messi in relazione alla conoscenza siano una chiave di lettura importante nella tua ricerca?
MS: Ginzburg infatti paragona il lavoro dello storico a quello di Sherlock Holmes, che con la sua lente d’ingrandimento legge nelle tracce (proprio come fa un obiettivo fotografico). Dettagli aleatori che diventano rivelatori, attraverso reti di relazioni, comparazioni e similarità. Qualcosa di molto simile a quello che dice Vilém Flusser quando parla del fotografo come di un moderno cacciatore all’interno della giungla degli oggetti culturali.
FMN: I tuoi lavori si situano spesso in un territorio ai confini tra memoria collettiva e ricordi individuali. Come si risolve — se si risolve — la relazione tra Storia e narrazione?
MS: Se la narrazione è parte integrante della Storia, la fotografia ha in comune con essa questo carattere narrativo e il suo rapporto ambiguo con la realtà, il tentativo di registrare “l’ultima cosa prima dell’ultima”. Quello che cerco di fare attraverso il mio lavoro è tentare di comprendere, all’interno delle immagini, quello che accade (o è accaduto) e proiettare degli scenari possibili.