“Che fare?” Questa domanda assilla l’immaginario russo da quando Nikolaj Gavrilovič Černyševskij la pose nel 1863 a titolo di un romanzo che servì all’educazione politica di intere generazioni di giovani e divenne ispirazione del manifesto rivoluzionario di Lenin. Da allora una domanda carica di istanze radicali, utopie sovversive e spirito avanguardistico, che non smette di circolare in un contesto in cui il concetto di arte politica ha sempre avuto implicazioni più reali e gravi che in Occidente. Se l’arte post-sovietica ha esaurito la propria vena estremista, fatta di azioni eclatanti e frenesia dionisiaca, e appare oggi in una fase riflessiva, misurata nelle idee e nei mezzi, l’idea dell’avanguardia non è tramontata, ma resta oggetto di riflessione e fervido dibattito nell’arte contemporanea russa.
Archeologia dell’avanguardia sembra essere l’approccio che molti artisti russi oggi adottano per tentare di rispondere a queste domande. Il recupero di manifesti sbiaditi, di progetti trascurati, di forme compromesse è messo in atto al fine di trovare la strada del nuovo e del necessario. È per questa via che un principio apparentemente retrogrado e apolitico come quello dell’autonomia dell’opera d’arte può essere riconfigurato e riattualizzato in chiave progressista. È per questo che la rinnovata centralità della forma può essere infatti un gesto sovversivo e profondamente implicato nella realtà. È a tali fini che concetti come aura e sacralità dell’opera possono rivendicare una legittimità di circolazione. È tramite pratiche sospese tra passato e presente che si rinnova il nesso politica-estetica.
Il titolo della mostra “Modernikon” vuole alludere a questa ibridazione di forme e ideologie, evocando insieme il programma modernista e la più tradizionale delle forme artistiche russe, ma anche la trasformazione del Modernismo in una icona che è oggetto allo stesso tempo di venerazione e analisi. Il ritorno del Modernismo non è del resto un fatto esclusivo dell’arte contemporanea russa, al contrario sembra coinvolgere questa in un dibattito internazionale che si è sviluppato negli ultimi anni ed è stato monumentalizzato dalla documenta di Roger M. Buergel. Il rapporto con un contesto specifico e con una versione locale del Modernismo va tuttavia indagato. Da un lato, infatti, il Modernismo deve essere localizzato nell’esperienza sovietica (perché altrimenti, come sostiene Viktor Misiano, si nega alla Russia la sua specifica modernità, e di conseguenza la si esotizza). Dall’altro è il confronto con quella occidentale, ed ecco allora la necessità, propugnata da Anatoly Osmolovsky, di rileggere oggi Clement Greenberg in Russia, oppure di contrapporre, come fa Dmitry Gutov, il pensiero di filosofi sovietici a quello dei filosofi occidentali.
Osmolovsky è protagonista della scena russa dai primi anni Novanta, energico esponente dell’Azionismo moscovita prima e promotore di una ricerca di impianto formalista oggi, tramite la sua attività artistica e teorica. Nella sua produzione più recente, incentrata sulla scultura, Osmolovsky si appropria di figure simbolo dell’iconografia russa e sovietica e le sottopone a un processo di astrazione e metamorfosi dominato dai principi dei materiali e della tecnologia e da ferree regole compositive basate su simmetria e ripetizione di moduli. Una fetta di pane nero diviene un’icona da adorare, il modello di un carro armato sovietico si moltiplica in una serie di preziose e luccicanti statuette, mentre il calco del pugno chiuso, simbolo del movimento bolscevico, dà vita a una monumentale installazione di sculture in bronzo, forme sospese tra l’organico e il cadaverico, melanconici eppur superbi resti di un’ideologia che fu.
Anche Victor Alimpiev dedica un’opera al simbolo del comunismo nel video Weak Rot Front. Un pugno che si è fatto debole, quasi aggraziato, sempre sul punto di trasformarsi in un gesto non più di lotta, ma di incontro. Alimpiev mette in scena sofisticate coreografie di gruppo, in cui i corpi degli attori riverberano in un gesto collettivo, fluttuano come in uno stato di trance che sembra trasportarli altrove, al di fuori della propria soggettività, in uno spazio condiviso ma astratto. L’estrema lentezza dell’azione e la rarefazione dello scenario, saturo di colore, avvicinano l’immagine video al registro del pittorico, che l’artista coltiva anche nella sua produzione di dipinti. Astrazione e Barocco si mescolano in un’immagine che resta in perenne tensione tra immobilità e azione, costruendo lo spazio metaforico dell’instabile relazione tra individuo e massa nella società post-sovietica.
È questo un tema fondamentale e ricorrente nelle opere in mostra, che elaborano una poetica dello spazio che riflette sull’incompiuto passaggio dall’esperienza collettiva condivisa, fondamento dell’ideologia sovietica, all’individualità estrema della società capitalistica e alla visione lineare e prospettica a essa associata. Esemplare in questo senso è il lavoro di Olga Chernysheva, informato da una dialettica costante tra il singolo e il gruppo, in cui la dimensione introspettiva è funzionale alla creazione di uno spazio comune. Clippings è un’installazione composta da 24 schermi che riproducono brevi frammenti visivi, fotografici o video, accompagnati da annotazioni verbali, commenti o citazioni dell’artista. La forma pesudo-diaristica immerge lo spettatore nello spazio frammentario di una coscienza individuale, nell’intimità del rapporto tra l’artista e le sue sensazioni. Allo stesso tempo, ciascun frammento può essere appropriato e partecipato, la realtà che Chernysheva restituisce è ordinaria e quotidiana, l’approccio documentaristico e quello intimista si fondono in un unico eppur sfaccettato panorama, un genere già indagato dall’artista come strumento principe della spazializzazione della visione collettiva.
Stas Shuripa si rifà al modernismo architettonico recuperando un episodio emblematico della storia sociale sovietica, l’imponente campagna di sviluppo edilizio voluta da Nikita Krushev negli anni Sessanta, finalizzata a dare a ogni famiglia uno spazio di vita privato, dopo i decenni di forzata convivenza negli appartamenti comuni, noti come “kommunalka”. Shuripa evoca i fantasmi di questo progetto, dando corpo alle piante degli appartamenti che, se all’inizio rappresentavano la realizzazione di un sogno comune, si rivelarono subito inadeguati ai reali bisogni delle persone, costringendoli in spazi angusti, mal isolati e presto decadenti. L’installazione diviene così un monumento negativo al pensiero modernista e al suo razionalismo totalitario, che tramite l’imposizione di teorie astratte influenza la costituzione e riproduzione di rapporti sociali. L’opera mette in scena l’ambivalenza tra la dimensione piatta e unidirezionale del disegno architettonico e la tridimensionalità dell’oggetto scultoreo nello spazio, che prende vita e senso attraverso il movimento dello spettatore.
Un principio che informa anche la serie di sculture di Dmitry Gutov, che riproducono in metallo alcuni celebri disegni di Rembrandt. Artista-filosofo, Gutov riunisce nella propria pratica l’osservazione del reale e le più sofisticate forme di elaborazione estetica e riflessione intellettuale sulla realtà stessa, dando vita a opere complesse e multiformi come le linee metalliche che aggrovigliandosi compongono queste immagini. Il tratto classico e le iconografie tradizionali di Rembrandt emergono dal caos di segni espressionisti nel momento in cui l’osservatore trova il preciso e necessario punto di vista, e si riperdono appena si muove, restituendo l’aspetto materiale di intricati e arrugginiti pezzi di ferro, simili a quelli che ancora oggi popolano la foresta Kuzminsky, fuori Mosca, dove in epoca sovietica la gente costruiva illegalmente recinzioni, improvvisate ma solidissime, per proteggere piccoli appezzamenti da coltivare.
L’idea di un’architettura informale e di un approccio non-istituzionale ai temi dell’abitare è evocato dall’installazione del collettivo Iced Architects. Lavorando sulla linea dell’architettura radicale e utopistica, che in Russia ha una distinta tradizione, equivalente e in dialogo con l’arte non-conformista, gli Iced Architects propongono una struttura abitativa per senzatetto, una piattaforma sospesa agganciata alle facciate di edifici esistenti, che offre asilo temporaneo e la possibilità di ricevere assistenza dall’interno. La dimensione parassitaria della costruzione offre un ironico commento sulla nozione della comunità, non solo forzandola ad accogliere quegli elementi della società che ne restano normalmente esclusi, ma ponendoli anche in una posizione di estrema visibilità e individuabilità.
Questi personaggi derelitti divengono veri e propri eroi nell’opera di Andrey Kuzkin, che scolpisce una poltiglia di pane, il cibo dei mendicanti, nelle forme di tre gigantesche figure umane, maestose e insieme umili, potenti e vulnerabili, quasi incapaci di reggere il proprio peso, la propria fisicità, e quindi sul punto di disintegrarsi. L’opera è intrisa di un profondo umanismo, di un anelito al riscatto, non intende essere un’analisi diretta della realtà, ma ne offre un’immagine toccante, perché universale. Il titolo, Levitation Heroes, allude alla possibile salvezza, all’innalzamento sulla caducità della vita, un auspicio che l’artista incarna in prima persona ponendosi in sospensione sopra le sculture. L’opera sembra richiamare le parole della canzone francese che Vera, protagonista del romanzo di Černyševskij, canticchia all’inizio del racconto.
“Siamo rozzi, è vero, ma noi per primi se ne soffre. Siam zeppi di pregiudizi, ma ce n’avvediamo. Cercherem la felicità, troveremo l’umanità, diventeremo buoni e tutto andrà d’incanto. Donc, vivons, Ça bien vite ira, Ça viendrà, Nous tous le Verrons.” Queste le parole riprodotte in un wall-drawing, parte dell’installazione di Arseny Zhilyaev Rational Egoism, una complessa drammaturgia di immagini, parole e oggetti per raccontare l’epica dell’Azionismo moscovita. Il personaggio dell’intellettuale rivoluzionario che ricorre nella produzione artistica di Zhylaev è una figura eroica, carica di speranze e destinata a un fallimento tragico. Così è soprattutto l’eredità delle idee e delle pratiche radicali che interessa l’artista, il rapporto tra la Storia e il presente, quel che resta e ancora si può usare di progetti estetici e politici incompiuti. La nostalgia si mescola alla rivendicazione di uno spazio di enunciazione e azione aperto, e un archivio storico si trasforma in una trama da mettere in scena ancora e ancora.