Uno degli aspetti che caratterizza le immagini prodotte in ambito familiare è il rimando a un universo di relazioni preesistenti, che non nascono nel momento dello scatto e non si esauriscono nel momento immediatamente successivo. Dove è il piano emotivo/affettivo che ne determina il valore, e la “bella immagine” non è tale perché risponde a un canone estetico, ma lo diventa quando riesce a trasmettere la densità di ciò a cui rimanda. Questo versante di carattere affettivo è intrecciato con la presenza di norme e comportamenti sociali: le fotografie prodotte in contesti familiari contengono infatti indizi significativi su ciò che va mostrato (matrimoni, nascite, occasioni festive) e ciò che va escluso dall’album a venire — malattie, morti, solitudini… È nell’immersione in questo universo che Moira Ricci ha sviluppato il suo lavoro in questi anni. Dove la pratica di uno sguardo emotivo è terreno fertile per rendere visibili alcuni di quei passaggi che il pensiero che oggi va per la maggiore preferisce non considerare. Siamo agli antipodi di visioni stereotipate e rassicuranti del nucleo familiare, questo lavoro ci porta piuttosto alle riflessioni di Judith Butler sulla relazione, sull’importanza che lei attribuisce alla destabilizzazione in quanto segno distintivo di ogni vicinanza (Vite precarie, 2001).
Loc. Collecchio (2001) è un video composto da quattro quadri animati, uno per ogni ambiente della sua casa di famiglia. In ogni quadro sono presenti tante Moire in età diverse, tratte da foto prevalentemente scattate dalla madre. Ne risulta una folla straniante di bambine, ragazzine, giovani donne, ovviamente molto somiglianti tra loro. Una voce infantile in ogni quadro ripete una frase ossessivamente. Con un intervento che agisce sullo spazio e sul tempo contemporaneamente, Moira trasforma l’album di famiglia da oggetto di memoria da sfogliare “anche” nostalgicamente, in un dispositivo che — nella compressione — riattualizza le relazioni che lo hanno prodotto, e — nella moltiplicazione — prende le distanze da una visione fissa dell’identità. A ciò si aggiunge la resa pubblica dello sguardo esercitato da una madre sulla figlia visto attraverso lo sguardo di quest’ultima. Riprendendo ancora Butler, il centro di Loc. Collecchio non è “Moira a diverse età”, ma la relazione interdipendente tra madre e figlia. In 20.12.53-10.08.04 (2004-2005-2006) questa relazione è ulteriormente accentuata — data l’entrata fisica dell’artista nell’album di foto della madre. In questa serie di fotografie, Moira si inserisce curando ogni dettaglio: abito, pettinatura, luci, in ogni foto appare con lo sguardo orientato verso la madre. Sono immagini ad alta densità, il titolo/data della serie allude all’inizio e alla fine di una vita. Moira altera i documenti e costruisce un’altra storia. Mettersi nelle fotografie della madre è il prodotto di un’azione performativa svolta fuori campo, diversi e complicati passaggi per arrivare al risultato. Si tratta di un corpo a corpo con il tempo, come in Loc. Collecchio era impossibile che tutte le Moire stessero in una stanza contemporaneamente, così in 20.12.53-10.08.04 è impossibile che una figlia sia ritratta a fianco della madre da bambina. Se dunque il collasso temporale accomuna i due lavori, tornando al gioco di sguardi in relazione in 20.12.53-10.08.04 è solo Moira che guarda più volte le immagini della madre e in momenti separati: guarda quando sceglie, agisce il proprio sguardo quando entra nell’immagine. A questo proposito, l’associazione introdotta da Roland Barthes tra la fotografia e la morte e ripresa infinite volte, qui è riproposta senza veli. Ma ciò che segna una differenza è che, in questo caso, la morte non è un fenomeno alieno ma è parte integrante della vita stessa. Ed è nel farsi traccia della tensione tra presenza e assenza che diventa esplicito il nucleo doloroso e potente delle relazioni intime, dove il carattere destabilizzante è una componente costitutiva e necessaria. Moira lo assume in prima persona, invitandoci a guardare con altri occhi la fragilità a cui siamo esposti nella cura del legame con la nostra origine, nell’accoglienza di tutti quelli successivi.