Quando visitai la tomba di mio nonno a Kairouan, in Tunisia, mia nonna mi vietò di salire sulle altre lapidi, che nei cimiteri musulmani sono molto vicine tra loro. Il mio lavoro si situa qui, in questo spazio liminale tra due monumenti funerari. Cerco di mantenere ogni mio gesto in questo spazio intermedio. — Monia Ben Hamouda1
Nata in una comunità musulmana e figlia di un calligrafo, Monia Ben Hamouda sviluppa il suo lavoro attorno a questa eredità ancestrale, attraverso quello che lei stessa definisce un “processo sciamanico”. Dando vita a opere che agiscono come esorcismi gestuali delle aspettative proiettate su di lei dalla sua famiglia e dalla tradizione nordafricana, il suo lavoro attinge a una urgenza espressiva per carpirne tutto il potere creativo. Le sculture calligrafiche di Ben Hamouda stravolgono la lingua araba inventando un nuovo linguaggio che l’artista definisce telepatico. Questo linguaggio assume la forma di installazioni in ferro: forme astratte, profili di animali, persino di Jinn e demoni. Ricoperte di spezie profumate quali cumino, curcuma e curry, queste sculture proteggono e sono a loro volta protette grazie alle loro proprietà medicinali, cerimoniali e rituali. “Come può la scultura proteggere me, proteggere sé stessa o proteggere gli spettatori?” – si chiede Ben Hamouda – “Si tratta probabilmente di qualcosa di magico, come se stessi creando amuleti legati alla guarigione o alla comunicazione”. L’uso del profumo forte e inebriante delle spezie costringe lo spettatore a instaurare un rapporto diretto con queste installazioni, provocandone una reazione radicale e fisica.
Nella mia famiglia la religione è importante. Il mio lavoro è legato alla cerimonia, all’aura che ci circonda. Anche se non sono religiosa, uso la mia cultura per direzionare la mia pratica. Del resto, l’arte è connessa alla preghiera perché ci poniamo in un certo modo di fronte a un’opera. Ci permette di capire quale direzione seguire all’interno di una mostra o di un lavoro: un modo per comprendere l’architettura dello spazio interiore.
Monia Ben Hamouda paragona spesso il rapporto che ha con la propria pratica artistica a quello che Alejandro Jodorowsky intrattiene con l’arte della divinazione. In The Way of Tarot: The Spiritual Teacher in the Cards (Destiny Books, 2009), Jodorowsky invita il lettore a confrontarsi con il proprio stato interiore, guidandolo nell’esplorazione della propria intimità profonda. Fonte inesauribile di simbologie, lo studio dei tarocchi secondo Jodorowski e l’arte plastica di Ben Hamouda sono innanzitutto un’avventura spirituale e uno strumento di interpretazione della vita quotidiana. Un’avventura legata alla trasgressione.
Sto provando a liberare me stessa dalla mia famiglia, a trasmettere tutti i miei traumi alle mie sculture, così da creare un gesto artistico storico. Utilizzo ciò che conosco. Potrebbe anche essere un quadrato nero (Malevič). Ma più di tutto, ciò che è importante è la mia intenzione così come la mia posizione rispetto alla materia.
Ben Hamouda nasce in uno spazio intermedio, nel mezzo di un gap, ovvero nella distanza che esiste tra due culture – quella italiana di sua madre e quella tunisina di suo padre. Questo gap è però da intendersi come tra due realtà metafisiche: quella della tradizione musulmana, da un lato, con i suoi divieti, Dio o i suoi Jinn2, e quella dell’Europa post-cristiana dall’altro, abitata dalla tecnoscienza a cui appartiene la sacralizzazione del “genio” artistico così come i canoni ufficiali della storia dell’arte. Come molti di quelli il cui destino è radicato nella storia dell’immigrazione postcoloniale, Ben Hamouda abita entrambe le metafisiche e le culture. Ciò significa che l’artista non è assegnabile né all’Occidente né all’Islam, e che disturba così la stabilità delle idee che abbiamo di questi due mondi – troppo vaghe per essere difese. Tutto ciò mette in discussione l’idea che abbiamo di questo “Occidente” che nessuno ha in realtà mai conosciuto, così come i limiti di un “Islam” immaginario. Ben Hamouda espande la nostra percezione della realtà conservando un senso della tradizione intesa come un pozzo di risorse creative a cui attingere per combattere le ossessioni tradizionaliste che riducono i retaggi culturali a una serie di divieti. La pratica artistica, nella sua forma contemporanea, risulta rinnovata e intensificata da questa esperienza: essa, infatti, cessa finalmente di essere relegata a un’invenzione puramente individuale senza alcuna presa sui secoli che l’hanno preceduta né sul mondo che la circonda. Prendendo spunto da millenni di storia musulmana, che fa proliferare nel nostro mondo in rovina, Ben Hamouda pone sé stessa al livello della storia dell’arte quanto al livello della Storia in un senso più ampio.
Alcune opere di Ben Hamouda assomigliano per molti aspetti alla calligrafia araba – pensiamo a Aniconism as Figurative Urgency (two Hands, one Dead) o Aniconism as Figurative Urgency (Hamra) (entrambe 2022) per citarne alcune. In breve, potremmo dire che la ricordano. La visione di queste opere, tuttavia, comincia nel momento in cui si è disposti ad avvicinarsi e a dissolvere questa somiglianza troppo semplicistica per essere vera. Prima sorpresa: non si tratta di lettere ma di forme che sembrano lettere, tradotte in una calligrafia persino più formale di quella tradizionale. Nulla è rappresentato, nemmeno le lettere. Il gesto è multiplo, e il divieto che tradizionalmente grava sulla rappresentazione figurativa viene spinto al massimo unendosi al principio base dell’arte contemporanea. Viene così evocato un nuovo linguaggio. Potrebbe trattarsi di lettere di cui non è ancora possibile comprendere il messaggio, geroglifici indecifrabili, una stele di Rosetta senza Champollion che è diventato muto; o un Egitto in cui non ci sarebbe stata alcuna spedizione ma che avrebbe trovato, prima del moderno Occidente, la propria strada verso la morte del figurativo. Seconda sorpresa: nell’esatto momento della sua scomparsa la figura appare. Dall’insieme di queste lettere che non sono lettere nasce un mostro, un demone, una figura. Qui l’artista è consapevole delle sue fonti. Ben Hamouda fa riferimento all’innumerevole schiera di artisti musulmani che ha ritratto delle figure – animali, umane, profetiche – nonostante il divieto di rappresentazione pittorica della realtà. Questi ultimi lo hanno fatto proprio come lo fa lei oggi: facendo sì che la calligrafia astratta possa essere percepita come una figura così che la forma appaia da sola, attraverso il libero gioco di configurazione di un materiale su cui nulla è sovrapposto. Da questo divieto nasce un doppio: due immagini, due letture, due linguaggi, due opere, due mondi. Il divieto di figurazione non è messo in discussione, piuttosto è aggirato in modo creativo. Il paradosso è tutto lì: senza divieto non c’è creazione. È proprio in virtù del fatto che non c’è figurazione che l’altra figurazione diviene possibile: attraverso la duplicazione. Ma, senza trasgressione il divieto è solo una limitazione.
Riprendendo il modo in cui gli artisti hanno abitato la tradizione aggirandola, Ben Hamouda ne riabilita i margini recuperando la parte creativa del divieto aniconico. Così facendo riporta i margini al centro, turbando i poteri conservatori musulmani e gli stereotipi occidentali. Per lungo tempo è stato detto che il monoteismo è tendenzialmente contrario all’arte, soprattutto nel mondo musulmano, il quale, proibendo violentemente qualsivoglia rappresentazione estetica della realtà, porterebbe tutta l’arte alla distruzione. Il lavoro di Ben Hamouda dimostra il contrario. L’artista esplora un altro lato dell’aniconismo, indagando l’atto di distruzione degli idoli. La sua personale presso la Casa Encendida a Madrid “The Destruction of the Idols of the Ka’ba” (2023) riporta in vita una miniatura persiana risalente al XVI secolo. È ben noto che il Profeta Maometto sfidò gli idoli della tribù dei Quraysh dichiarando che la realtà divina era una sola e non poteva pertanto essere rappresentata in nessun tipo di forma o immagine.
La visione occidentale e moderna di questo evento insiste sulla violenza di quest’atto, sulla sua portata distruttiva. Ciò che fa Ben Hamouda è ben oltre una semplice condanna morale del Profeta e della presunta violenza dell’Islam. L’artista individua un elemento marginale della scena: il fatto, cioè, che dall’idolo rotto scaturisca un demone nero. Quest’ultimo è il demone della rappresentazione stessa, il demone dell’antropomorfismo, che spinge gli umani a immaginare il divino e a non soccombere al decentramento. È proprio questo demone che Ben Hamouda riporta in vita nella sala della mostra, ricostruendo la scena evocata e mostrandoci cosa può riemergere dalle statue rotte.
Per Ben Hamouda le opere d’arte non sono oggetti, sono al contrario un flusso di energia tra questi ultimi e gli uomini. L’arte esercita quindi un’azione sulla realtà, da cui la telepatia. Questo gesto consiste nel rinunciare al linguaggio ordinario che lei percepisce, sulla scia di Nietzsche, come una macchina che non comprende e non uno strumento di comunicazione. Smettere di parlare per potersi capire. Diventare telepatici, condividere un’emozione a distanza. Ma la telepatia agisce attraverso le opere che permettono agli uomini di entrare in contatto con le dimensioni non umane che a loro volta reprimono. Tuttavia, i non-umani di Ben Hamouda non sono piante o animali. Sono invisibili, sono visioni dello spirito divenute manifeste ai sensi.
Ben Hamouda rompe le catene di ogni conformismo – occidentale e non, moderno e non – e situa il suo gesto di trasgressione nelle viscere dell’invisibile. È un nuovo movimento quello a cui l’artista dà inizio – insieme ad altri artisti, filosofi, letterati – che consiste nel reintrodurre i non-umani nel mondo dell’arte. Si tratta di una spiritualità profondamente dissonante, mostrata in tutte le sue tensioni più intime, ma trasfigurata in un mondo in cui il visibile si fa carico delle comunicazioni segrete dell’invisibile. È un gesto innovativo che disturba non solo la divisione tra natura e cultura ma anche quella tra tradizione e modernità, tra mistico e razionale, tra invisibile e visibile. L’aniconismo è un fantasma che infesta musei e gallerie per dare una seconda vita a una tradizione. Una vita altra fatta di un nuovo linguaggio che rimanda, in una sola parola, alla Creazione, in tutti i suoi possibili significati, cosmologici e artistici. Questo nuovo linguaggio, questo nuovo movimento è, in realtà, il più antico e ancestrale: quello di un’arte nuovamente metafisica.