Secondo la smorfia napoletana, sognare una donna nuda equivale a un desiderio sessuale da giocare al lotto con il numero 21; se invece è una donna a sognarla, è il sintomo di un problema con sé stessa o di poca autostima. Ma il numero 21 nella cabala rappresenta anche la divinità e la bellezza, “basti pensare a tutte le figure femminili che hanno fatto da musa nell’immaginario di grandi artisti, come la Venere
di Botticelli”, si legge. Sfuggire alla narrazione del corpo feminine-presenting1 nella storia della letteratura e dell’arte occidentale da un punto di vista binario o patriarcale – anche nel terzo decennio del XXI secolo – è una esperienza, che si vive incontrando Betty Bee e SAGG NAPOLI insieme.
Lorenzo Xiques: Ciao Betty, vedo che c’è stata una festa qui nella tua casa-studio ieri sera!
Betty Bee: Era una performance! Ho invitato delle persone a vedere il mio corto Betty Bee (Sopravvivere d’arte) Ciao Bucchì (1999) di Didi Gnocchi. Ma mi raccomando, non è “Ciao bucchino”, come dicono tutti.
SAGG NAPOLI: È in napoletano. Senza genere!
BB: È per le trans, per le identità di genere, pe’ tutt’ quant’! [Per tutti quanti!] Ho chiesto agli invitati di lasciare un commento scritto, ma non lo faccio spesso, è successo solo nel 1997, nel 2004 e adesso. Io voglio sempre sapere gli altri cosa pensano, che cosa resta alle persone dopo aver visto il mio lavoro, quali sono le percezioni nelle epoche e nelle generazioni che cambiano.
SN: Quando osservo il tuo lavoro mi chiedo come sarebbe stato oggi se tu avessi avuto i social media. Quello che fai tu chiedendo i feedback, lo faccio io quando utilizzo Instagram come media per la mia ricerca. Postando foto e video vedo le reazioni della gente e attraverso i like, le condivisioni, capisco subito come viene percepito. È il mio modo di testare le cose. Tu lo facevi già in modo analogico negli anni ’90.
LX: Come quando ti sei fatta riprendere da un investigatore con la telecamera.
BB: Era L’inganno, un video del ’96. Gli amici mi dicevano sempre che ero esagerata, una pazza. Je dicette: allora aggia verè uno ca nun me conosce che pensa! [Io dissi: allora vediamo uno che non mi conosce che pensa!] Chiesi a un amico di ingaggiare un investigatore privato per farmi pedinare
e scoprire che idea si sarebbe fatto di me dall’esterno. Lo confondevo, mi travestivo da ‘femminiello’, mettevo le unghie finte e indossavo le parrucche. Quella era la mia
vita! Frequentavo i trans perché ero affascinata dalla loro bellezza, è da loro che ho imparato la femminilità. Al termine di questi cinque giorni di pedinamento arrivò il verdetto, un quadro psicologico. L’investigatore mi descrisse come una persona inaffidabile, da non frequentare, al contrario della realtà, nella quale vivevo rapporti sani con le mie figlie e i miei amici. Immagina che guaio se qualcuno avesse creduto a questa narrazione. Ero molto egocentrica, mi raccontavo da sola e volevo sapere come venivo raccontata dagli altri. Era un mio bisogno personale, autobiografico.
SN: Per esempio, io definisco il mio lavoro sui social semi- biografico, perché certe cose le esagero.
BB: Sofia, vorrei sapere di più del tuo lavoro.
SN: Io voglio tirare il mio arco, dire le cose che devo dire e vivere di fronte al Mediterraneo. Per esempio, colleziono le targhe di tutte le gare che ho fatto, segno i punteggi. Quando le dispongo una di fila all’altra compare un diagramma di sali e scendi e questo momento grafico mi aiuta a visualizzare visivamente il perché la mia testa funziona in un modo o nell’altro. Diventa la mia istallazione!
LX: A tal proposito, Betty, come mai sul letto hai quella foto enorme di te mentre tiri l’arco?
BB: Quella è un’amazzone! Rappresenta una forza che noi donne abbiamo ma spesso non viene riconosciuta. Ma la freccia è senza punta, per non ferire.
SN: La foto dell’amazzone mi piace perché lì ti mostri con la tua bellezza, con il seno scoperto mentre tiri la freccia. Spesso sembra si debba eliminare la femminilità per dimostrare la forza, invece io dico sempre che per tirare uso i gioielli, certe volte mi trucco, se posso lascio i capelli sciolti. C’è questa idea errata che nello sport bisogna celare la femminilità, è una questione importante che affronto nel mio lavoro, ed è una cosa che noto nel tuo. Mi piace che tutto quello che mostri come delicato abbia anche una forza.
BB: Nel mio lavoro c’è la denuncia, tratto temi forti: la
violenza domestica, l’anoressia, la pedofilia, la religione, l’omosessualità. Le persone si aspettano da me un’immagine trasgressiva e poi si ritrovano spesso un linguaggio infantile. Io dico sempre che è come quando devi insegnare un concetto difficile a un bambino. Devi indurre le persone adulte nello stesso modo in cui induci i bambini quando utilizzi l’espediente delle belle favole illustrate, altrimenti c’è un forte distacco. Faccio un doppio lavoro, tratto la denuncia attraverso la purezza.
LX: Un po’ come fece Leonora Carrington ne Il latte dei sogni, quando trascrisse dal suo diario le fiabe inventate per spiegare ai figli le illustrazioni spaventose che aveva disegnato sulle pareti di casa: utilizzò metafore e racconti fantastici per rivelare gli aspetti più cupi che stavano nascondendo. La capacità dell’immaginazione di ridefinire i concetti di identità e corpo attraverso la metamorfosi è un po’ quello che fai tu quando crei la sirena per raccontare una storia dura che ti appartiene. La sirena è anche un’altra figura della mitologia greca, oltre l’amazzone, con la quale viene spesso associata l’immagine di SAGG NAPOLI. Ultimamente, una studentessa del corso di Fashion Design all’Accademia di Belle Arti di Napoli si è ispirata a Partenope e a Sofia per restituire un’immagine contemporanea della città di Napoli, nella sua complessità e nelle sue contraddizioni. Ne è risultata una sirena 2.0 composta nella parte superiore dal busto di Sofia mentre posa in uno dei suoi iconici shooting di moda su Instagram, nella parte inferiore da una sensuale coda di pesce che poggia su uno scoglio a Mergellina.
BB: Quella della mia sirena è una storia triste. Quando ero piccola mio padre mi teneva chiusa in casa e mi legava quando non c’era perché ero irrequieta. Ma io non mi arrendevo mai, scappavo perché avevo sempre voglia di fare scherzi! Questa continua voglia di divertirmi è stata la mia salvezza. Lui mi puniva e mi diceva che era colpa mia perché ero ribelle, ma ero io che mi ribellavo perché lui mi puniva. Non avevo giocattoli, così costruì tre piccoli pupazzi con una plastilina trovata, e questi tre rappresentarono i miei amici immaginari per molto tempo. Ogni volta che mio padre mi scopriva a giocare con loro, li buttavo a terra e li schiacciavo con i piedi per nasconderli, mentre con le braccia mi coprivo la testa per proteggermi dalle mazzate. Una volta finite le percosse, spostavo i piedi e la prima cosa che vedevo dopo quella mortificazione, erano le sagome dei
miei tre amici immaginari schiacciati a terra. Sono rimaste talmente impresse nella mia memoria visiva che quando ho iniziato a fare l’artista ho deciso di rappresentarli in pittura per portarli nel mio viaggio. Un giorno guardandoli mi sono
detta: perché devono stare da soli? Così a uno di loro ho stretto la pancia e disegnato una coda. Ecco, quella sono io, una sirena! Finalmente ora stiamo di nuovo tutti insieme.
SN: Vedo che qui nel tuo studio ci sono anche molti quadri di fiori, paesaggi onirici, addirittura vedo riprodotti due affreschi che compaiono nelle Lupanare a Pompei, che ultimamente sono mio oggetto di studio.
BB: Sì, ma se ci fai caso tutte queste immagini sono disegnate dietro una rete, un filo spinato, un alveare o delle catene. Queste rappresentano limite e protezione. Un limite per l’interlocutore che guarda e una protezione per la bambina che è dentro di me, che ho sempre difesa e difenderò.
LX: Ricordo la tua personale del ’98, “Untitled”, in cui presentasti più di venti quadri con la trascrizione a mano delle pagine segrete del tuo diario. Una cosa che ho notato anche di Sofia, è che molti suoi pensieri intimi li posta su Instagram, creando dei veri e propri statement.
SN: È esattamente quello che faccio. Solo che invece di finire sul sito di una galleria, vanno online.
LX: Apprezzo molto il coraggio che avete entrambe nell’esporre pubblicamente parti intime di voi, sia fisiche che psicologiche, e ora capisco questa esigenza nel varcare un limite per chi guarda e creare una protezione per voi stesse. Sofia, di te è emblematica la scritta a mano con lo spray celeste metallizzato che recitava: “USE MY CITY AS A THEME PARK, I CANCEL YOU, MY CULTURE AS A COSTUME I CANCEL YOU!” (2019) Suona un po’ come un avvertimento per chi nei DM [direct message] prova ad abusarti psicologicamente e di conseguenza viene bloccato. Betty, di te mi saltano agli occhi tutte queste reti spinate e luccicanti allo stesso tempo. Le vedo applicate anche su questo capo di moda. Ciò che mi affascina è che entrambe utilizziate istintivamente un linguaggio visivo acceso, luccicante, metallizzato, fluorescente, proprio nel momento in cui sentite il bisogno di comunicare un avvertimento, come fanno gli animali in natura.
BB: Quelle le disegnavo con i tipici pennarelli brillantini degli
anni ’90, non si trovano più! Sono una caratteristica del mio linguaggio pittorico. Quando la tinta si solidificava certe volte li staccavo dai quadri e li utilizzavo in maniera scultorea. Diventavano delle vere e proprie reti lucide e tridimensionali, fluorescenti, come appunto li vedi applicati su questa felpa. Tieni, tocca!
LX: Betty non posso, mi hai appena detto che sono introvabili! Di cosa si tratta?
BB: Questa è un’opera, praticamente un mio quadro applicato su una felpa. All’epoca un collezionista, proprietario di un marchio di moda, mi propose di collaborare a una sua linea per una stagione, ma i miei galleristi non furono d’accordo. Potevo fare l’artista o la designer. Io, consapevole di non essere una stilista, rifiutai immediatamente, e solo dopo realizzai che anche Andy Warhol aveva fatto queste cose. Il punto è che all’epoca non sapevo neanche chi fosse.
SN: Ecco vedi, oggi è molto più comune che artisti collaborino con i brand. Quando ho iniziato i miei lavori facendo i video su Instagram il mondo dell’arte non capiva, mentre la moda ha capito subito. Questo perché sono più veloci a recepire certe cose.
BB: Je vec’ certi spot ca s’è fumman’ agli artist’! [Io vedo certe pubblicità che se li fumano gli artisti!]
SN: T’aggia dicere a verità? [Devo dirti la verità?] A me interessa più che ventimila persone vedano quello che faccio su Instagram e non soltanto quelle duecento che riescono ad arrivare a visitare una mostra. Per questo preferisco condividere il mio lavoro sui social, anche se qualcuno continua a dire che è un approccio commerciale.
BB: Perché? Una galleria non è commerciale?
SN: Infatti io mi sento meno posseduta da un brand che da un collezionista.
LX: Quindi ritenete che la moda sia più avanguardista?
SN: Tendenzialmente sì, perché magari ci sono più persone che si stanno confrontando su una visione. Nell’arte c’è più un discorso individuale.
BB: Come succedeva nella Factory di Andy Warhol, era tutto insieme. Poi si è tornati all’individualismo.
LX: Il tuo lavoro è individualista?
BB: Io sono narcisista, egocentrica. Mi piace assaje! Ma mi piace anche sapere gli altri che cosa pensano, sono curiosa. Mi piace provocare, far cadere le inibizioni, questo per me è confronto.
LX: Come quando hai performato con un’anfora in testa e un boa di struzzo, ballando sulle note di Pink Martini, Amado mio.
BB: Era Gilda! Un lavoro del ’95 che decantava i miei amanti. Era una parodia dell’amore per come veniva narrato nella canzone, perché io lo vivevo in modo diverso. Allora seducevo gli uomini, loro si innamoravano di me e dopo qualche mese li lasciavo. Lo psicanalista mi disse che soffrivo della Sindrome di Casanova, che di solito appartiene agli uomini. Ero sempre alla ricerca di nuovi amori perché cercavo continue conferme. L’arte divenne un modo per esorcizzare queste relazioni, così le misi in scena. Performai la mia storia con il fruttivendolo, ma anche quella con un extraterrestre. Mi divertì molto.
LX: Il divertimento ricorre spesso nella tua pratica. Per esempio in questo tuo ritratto dove fai una smorfia è ampiamente evidente. Mi fa pensare ai selfie di Sofia con cui crea i meme umoristici che condivide sui social per comunicare messaggi importanti in maniera leggera.
BB: La smorfia rappresenta un modo di essere.
SN: La smorfia rappresenta un modo per elaborare un trauma.