Barbara Casavecchia e Gianfranco Maraniello: Hai dichiarato che “i muri creano spazi che dettano un certo tipo di comportamento”. Intervenendo direttamente sui muri, che tipo di reazioni pensi di provocare?
Monica Bonvicini: Mi sembra chiaro che l’arte non sia all’altezza di un muro… Se ho parlato di muro come struttura che determina un certo comportamento, è chiaro che lo intendo in senso storico-sociale: il muro come l’esempio più semplice di architettura. Questa è una cosa che ognuno sperimenta continuamente, di solito è impossibile attraversare una parete per continuare una camminata, e chiunque conosce la differenza tra un appartamento grande, dove per rispondere al telefono bisogna correre, e un appartamento piccolo, dove basta allungare il braccio per afferrare la cornetta… I miei lavori non hanno nessuna ambizione sociologica (o fisiologica!). Se costruisco un muro si tratta di una riflessione che si muove all’interno del circuito dell’arte. Ogni tanto l’arte riesce a precisare certe cose che normalmente vengono date per scontate. Di sicuro Duchamp, con Fontaine, non aveva intenzione di far pisciare i visitatori della Grand Center Gallery di New York.
BC e GM: Nei tuoi interventi sembra ricorrere una certa attitudine alla distruzione.
MB: Non esiste costruzione senza distruzione, non esiste creazione senza il fare e il disfare. Penso che il lavoro più tipico per il mio approccio con la distruzione sia il video Hammering Out (an Old Argument) del 1998. Nel video, una parete bianca viene martellata in continuazione; l’editing non permette di visualizzare un vero inizio e una vera fine del martellamento, la distruzione non arriva quindi a nessun amplesso, ma anzi viene costruita in continuazione (tramite l’editing) come un pezzo di musica elettronica.
BC e GM: Nella tua personale attualmente in corso alla Galleria d’Arte Moderna di Torino hai creato un pavimento con del cartongesso poggiato su basi di polistirolo che, al passaggio del pubblico, viene distrutto creando un ambiente simile a quello realizzato alcuni anni fa da Hans Haacke alla Biennale di Venezia.
MB: La diversità tra Plastered e il lavoro di Hans Haacke è talmente palese… Anzitutto il materiale: cartongesso e polistirolo sono due materiali poveri che ogni volta ricoprono il pavimento preesistente. Gli spettatori realizzano il lavoro, dato che sono loro a creare la distruzione. Plastered non è un lavoro site specific e non ha implicazioni politiche come era chiaramente il caso nel lavoro di Haacke.
BC e GM: Nelle tue mostre sono spesso presentati dei questionari che raccolgono le risposte di muratori. Come sviluppi questo lavoro?
MB: What Does Your Wife / Girlfriend think of Your Rough and Dry Hands? è un progetto iniziato a Londra nel ’96. Si tratta di un libro che raccoglie circa novanta interviste in lingua originale (Inglese, Tedesco e Italiano), un testo di John Miller (Hard Hats Cold Facts) e fotografie in bianco e nero di cantieri edili che ho scattato in giro per il mondo negli ultimi nove anni. Si tratta di un lavoro che ho presentato a “Looking for a Place”, la Terza Biennale di Santa Fe. Le domande dei questionari sono state formulate in modo che si possa rispondere rapidamente, per esempio durante la pausa di mezzogiorno. La natura del questionario e la grandezza smisurata dei diversi cantieri edili — penso soprattutto a quelli in Germania e negli USA — avevano subito reso chiaro che era impossibile distribuire personalmente le domande. Tutte le volte che ho voluto fotografare cantieri ho dovuto chiedere il permesso a una marea di addetti ai lavori; lo stesso quando, tra il ’93 e il ’96, ho fotografato musei durante l’allestimento di mostre. I questionari What Does Your Wife / Girlfriend think of Your Rough and Dry Hands? sono stati distribuiti dai miei galleristi a Berlino, Milano, Vienna, e da istituzioni di Santa Fe e Los Angeles. Non ho quindi incontrato personalmente nessun muratore, mentre ho ricevuto lettere e fax da parte di contractors contrari al progetto, fax e telefonate dei miei dealer spesso sconcertati per le difficoltà incontrate nella sua realizzazione. Tutto questo ha reso la faccenda molto interessante, vivace e ricca di discussioni. Il lavoro del muratore è all’ultimo posto nella catena di potere del sistema architettura. I questionari sono per me un omaggio a uno dei lavori più umili e contemporaneamente più necessari dell’architettura, una ricerca all’interno di un mondo tradizionalmente machista come quello dell’edilizia.
BC e GM: Realizzi questionari, foto, installazioni, video. Con cosa non vuoi cimentarti?
MB: È una di quelle domande su form/content? Il materiale che uso corrisponde a quello che voglio dire. Nella maniera più diretta possibile: mi sembra ovvio non utilizzare scialli di seta dipinti a mano per simboleggiare un muro. A parte questo, la scelta dei materiali è spesso dettata da motivi economici: non mi piace lavorare con materiali che non posso comprarmi. Il mondo è pieno di prodotti che possono essere riutilizzati ad altri fini, materiali che (soprattutto a Berlino) si trovano per strada.
BC e GM: Spesso ti dimostri ironica o aggressiva rispetto ad alcune pratiche artistiche del passato. Chi ti fa arrabbiare di più?
MB: Non posso davvero fare un elenco di gente che mi fa incazzare, anche se sarebbe divertente. Non sono tanto singoli individui, ma certi atteggiamenti, letture o interpretazioni all’interno della storia dell’arte, che mi fanno venire voglia di sconsacrare certi miti, come quello del Modernismo (movimento culturale credo nato al solo scopo di produrre autocritica per un buon secolo), del Minimalismo (movimento vergine tendente a una patologica masturbazione), del Concettualismo (protestante). Inoltre, posso dire di avere un’avversione epidermica per quegli artisti che vantano un pennello nel culo sin dalla nascita, che hanno avuto bisogno di due anni per capire che si tiene in mano e che da allora non se lo sono più tolto di dosso. Mi arrabbio per certi artisti che continuano a credere nell’immacolata concezione creativa del genio qualsiasi cosa facciano (ceramiche su tela, burri vari negli angoli o entrate metropolitane nel deserto) e per quelli che orgogliosamente confessano infanzie autistiche.
BC e GM: Architetture fluide, decostruzioniste, queer… Credi che ci sia un’affinità tra queste tendenze e il tuo lavoro?
MB: Le forme morbide mi piacciono, come le uova dalle illimitate funzioni: la mattina up side down, per Pasqua, per Natale, rosse una volta al mese, nei pic-nic, penzolanti tra le gambe, come sale da concerto uterose, nei calzini, di cioccolato, d’oro, di marzapane, rotte, a metà, a tre quarti, nella vagina dentro e fuori… Ieri sulla metropolitana un ragazzo dai lineamenti asiatici si teneva un bell’uovo bianco su un occhio.